Nato con la matita – Gianni de Luca intervistato dalla figlia

Nato con la matita – Gianni de Luca intervistato dalla figlia

Presentiamo un estratto di un'interessante conversazione tra Gianni De Luca e la figlia Laura, esemplificativo del pensiero dell'artista sul concetto di Arte

Quella che segue è una piccola parte delle otto conversazioni che Laura De Luca ha avuto col padre Gianni De Luca tra il 1987 e il 1991, conversazioni interrotte dalla morte del grande fumettista proprio in quell’anno. Abbiamo estratto un frammento che ci è sembrato esplicativo del pensiero dell’artista sul concetto di arte e sulla sua funzione nella contemporaneità. Un pensiero che, come leggerete, è ancora incredibilmente attuale.
La versione integrale di queste conversazioni la potete leggere sul terzo volume de
Il Commissario Spada (Black Velvet/ Bd 2004) da cui abbiamo tratto questo frammento.

Perché, dopo, negli anni Sessanta, ti sei lasciato prendere soprattutto dall’illustrazione?
Non è del tutto vero. I fumetti continuavano a farli.

… Alludo, per esempio, a quelle vignette che sulla Bibbia e sulla Storia della Chiesa che poi sono uscite in volume per le Edizioni Paoline.
Quell’opera è un po’ più antica degli anni Sessanta, risale alla fine del decennio precedente, e non nasce per le Edizioni Paoline, ma per Il Giornalino, alla cui redazione, in quegli anni, avevo cominciato a collaborare su richiesta del direttore, don Durante. Ogni settimana veniva pubblicata una pagina di vignette con didascalie sui temi di cui sopra. Solo successivamente le pagine sono state raccolte in volumi. Oggi siamo alla diciassettesima edizione e i volumi sono stati tradotti perfino in giapponese.

Come già per i fumetti de Il Vittorioso, eccedevi in ricostruzioni storiche…
Io non eccedo mai, ricordatelo, soprattutto quando si tratta di documentarsi, di studiare…

So però che alcuni tuoi colleghi, forse in anni più recenti, ti hanno esplicitamente e più volte fatto osservare che tu tendi a strafare e che in definitiva, si tratta solo di storie per ragazzi… anzi, parafrasando una ben note canzone, ti si potrebbe ricordare che sono solo giornaletti…
Solo giornaletti?

Ti sto scientemente provocando.
Ah beh… Allora, se è per darti soddisfazione… io allibisco. Io addirittura trasecolo… cosa ho parlato a fare di fallimentare educazione all’immagine? E allora a cosa potrebbe servire un volgarissimo giornaletto se non proprio, guarda caso, a educare all’immagine? Eccolo, l’equivoco universale: trasandare i mezzi che abbiamo a disposizione, presumere che l’Arte abbia diritto di accesso solo nelle gallerie, le quali invece vengono puntualmente disertate, e non accorgersi che la diffusione a mezzo stampa è una potenzialità enorme, se ben usata… ecco perché il Fumetto!

Perché?
Perché sono solo giornaletti, cose per ragazzi, e io, come autore di giornaletti, cerco di dare il massimo! Dunque, se io sono maniacale nello studio, nella documentazione, è perché so a chi parlo e perché gli parlo.
È il discorso del solito, onnipresente Don Nicolino, il quale magari neanche sa che esistono, certi giornaletti, come riduttivamente li hai testé definiti, cara la mia giornalista. Ma che, se casualmente ci si dovesse imbattere, potrebbe inaspettatamente schiudere la sua mente semibombardata e semiottenebrata proprio grazie a una forma. Una forma sola…

La forma, già.
Già, la Forma.

Per fare quella storia della Chiesa e quella Bibbia dove ti documentavi?
Su pubblicazioni specifiche, libri d’arte, ricostruzioni architettoniche, nei nostri musei romani… come ho sempre fatto, come continuo a fare. Ho dovuto attraversare venti secoli di storia dell’umanità. Non avrei dovuto documentarmi?

Perché ti adiri?
Perché sì.

Quello che mi colpisce, soprattutto nella tua storia della Chiesa (perché nella Bibbia sei un po’ più oleografico, nel senso che fai un po’ più santini), è il fatto che non ti precludi il tuo solito occhio critico. Mi spiego: la serie degli imperatori romani, per esempio Nerone, presenta una carrellata di vizi, di degenerazione, di degrado universali… Quasi caricature. Insomma, sei riuscito a prenderli in giro…
Di questo ti ringrazio. Ma perché non avrei dovuto?

Non sto dicendo questo: mi sto solo chiedendo come hai fatto, in una semplice vignetta didascalica dal tono così serioso.
Se il “come ho fatto” fosse riassumibile in una ricetta, probabilmente non ci sarebbero alcuni autori che fanno certe cose e altri autori che ne fanno altre. Probabilmente non staremmo nemmeno qui a parlare, perché il Fumetto sarebbe coma Coca Cola.

Cioè?
– Vedi… io, all’epoca, osservavo i volti del potere… nei cinegiornali Luce, per esempio (perché all’epoca frequentavo ancora molte sale…), e poi sui giornali… le facce di Schumann, Eisenhower, Krusciov, De Gaulle… avevano tutti qualcosa di tragico nelle loro tensioni… non so… ma era anche qualcosa di comico, che poi era la loro fragilità, la loro vulnerabilità di persone… alcune di queste facce celebri ho dovuto espressamente rifarle, e le ritrovi ne I dodici in cammino… mi ha sempre colpito il doppio del potere, la sua maschera… che forse attiene in particolare ai potenti di questo secolo, perché loro per primi, rispetto ai loro predecessori, sono stati rappresentati in fotografia o ripresi in televisione. Voglio dire che i ritratti dei regnanti europei dei secoli passati difficilmente svelavano questa doppiezza, questa verità di micromimiche… bene, se io ho l’occhio critico (che deriva anche dal fatto di vivere nel secolo della fotografia, oltre che dal sapere disegnare), il mio compito è soprattutto quello di smascherare ciò che appare… qualcosa che il pittore del Seicento forse non avrebbe potuto mai fare, per il fatto che del potente vedeva solo un aspetto, quello ufficiale…

In che senso, scusa? Vedeva quello che gli facevano vedere. Come oggi.
Con la differenza che allora mancava questa invadenza (o, se preferisci, questa arma rivoluzionaria e smascheratoria, tecnologicamente potentissima) dei mezzi di massa, degli obiettivi fotografici o delle telecamere… perché vedi, non solo ciò che appare è reale.

O è reale solo ciò che appare? Sarebbe ancora più tragico…
Fai tu.

Torno un momento alla caricatura. Perché, personalmente, sono convinta che la caricatura sveli appunto questo qualcosa della realtà che non è immediatamente percepibile. Ci vuole necessariamente un contesto comico, per proporre la caricatura di un personaggio?
Se così fosse, non esisterebbero le vignette sulle prime pagine dei quotidiani.

Il contesto cui si riferiscono non è mai comico?
Giudica tu se gli scandali, le stragi senza un colpevole, o la politica italiana possono rappresentare spunti per ridere o anche solo per sorridere al di fuori di una satira dichiarata… eppure, e per l’appunto, i vari vignettisti che oggi vanno per la maggiore, quello spunto ce lo trovano. Ma di per sè ci sarebbe ben poco da ridere.

Ho capito. Dentro I dodici in cammino c’è anche un po’ di storia contemporanea…
Un po’ di quella storia io la vivevo o l’avevo vissuta.

In qualche modo, in particolare sulle vicende contemporanee, hai sorriso anche tu…
Non lo so… può darsi… alcune cose erano francamente irresistibili…

Esempio?
Penso al naso di De Gasperi., alla pancetta di Nenni, al gesticolare di Stravinski, al profilo di Hammarskjöld…

A proposito di facce celebri. Un’altra particolarità della tua storia della Chiesa è l’infanzia dei papi. Una cosa che mi ha sempre colpito molto. Personalmente, mi ricordo di quando cercavi di inventarti il piccolo Giovan Battista Montini o il giovane Pacelli sulla base delle scarse foto d’epoca…
La documentazione, da sola, non basta.

Ti sei divertito?
Abbastanza.

Hai inventato anche il giovane Woytjla…
Ti sfido a verificare l’esattezza delle mie ricostruzioni psicologiche. Sono tutte plausibilissime.

Hai fatto un’operazione simile nel fumetto Marilyn, una bionda da dimenticare, dieci tavole del 1985 sulla figura della Monroe, pubblicate sul Il Giornalino. L’hai ricostruita come era da bambina, poi da ragazzetta…
Mi sono documentato, fisiognomicamente parlando e, di conseguenza, me la sono reinventata da capo nella sua infanzia. Come era – o come avrebbe dovuto essere – quando nessuno la conosceva, quando le linee del suo volto adolescenziale potevano o dovevano anticipare quello della maturità.

La Monroe a quindici anni io non l’avevo vista in nessuna fotografia… ma esistono?
Se ne esistessero (e non lo so), sarebbero fotografie molto simili alla mia Monroe quindicenne. C’é un destino anche nelle linee dei nostri volti.

In che senso?
Nel senso che io posso leggere la maschera della mia vecchiaia, se soltanto mi guardo allo specchio…

Vuoi dire che il tuo occhio è in grado di padroneggiare non solo lo spazio, ma anche il tempo?
Vuoi che ti ricordi che nella fisica relativistica spazio e tempo sono un’unicum? […] Comunque, guarda, in ultima analisi, non sarebbe tanto importante quella esatta, scientifica somiglianza fra il vero fotografato e il vero immaginato, o supposto, quanto piuttosto l’esatta concordanza, per l’occhio, di un passato non verificabile con un presente che tutti conoscono e possono constatare.

Perché non ti sei mai messo a fare ritratti?
Ti risulta che esistono dinastie regnanti le cui regge attendono di essere riempite con effigi dei loro facenti parte?

Reputi il ritratto un genere fuori moda?
Semplicemente non è quello che può davvero funzionare…

Ma si che potrebbe. E poi che vuol dire “funzionare”? Tu ne faresti di eccellenti, somigliantissimi. Come del resto quei pochi che hai fatto a noi, in famiglia. A parte il fatto che li hai lasciati incompiuti e debbo ancora capire il perché. Pigrizia? Indolenza? Senso di inutilità?
A che serve un ritratto?

A che serve l’Arte?
Ci risiamo. Che intendi per Arte?

Tutto quello che gli uomini universalmente riconoscono come Arte. Ti sto citando.
Un ritratto, oggi, sarebbe un anacronismo. Sarebbe acquistato non come un’opera d’arte (che peraltro è in senso stretto inacquistabile), ma come oggetto da esibire, da quantificare in nome di una firma più o meno nota, come uno status symbol…

E allora?
E allora io non ci sto. Preferisco quelli che “sono solo giornaletti”.

Lo sai, vero, che con la tua tecnica e le tue capacità navigheresti nell’oro, se “ti abbassassi” a fare i ritratti?
E dove dovrei presentarmi, di grazia? In mezzo ai piccioni e ai barboni di Piazza Navona? Senza contare che navigare nell’oro non è una faccenda che mi attrae particolarmente.

Lo so. Riecco l’orgoglio meridionale. Mi spezzo ma non mi piego.
Dovrei vendermi. Figurati. Non so neppure comperare.

Perché a me hai fatto alcuni ritratti?
Perché mi andava.

E perché li hai lasciati incompiuti?
Perché non mi andava più. C’é qualcosa, nell’essere umano, che scorre via come pioggia sui vetri. Inutile guardarlo. Inutile ritrarlo, fotografarlo, cercare di catturare ciò che per definizione è incatturabile… tanto più se questo essere umano è una figlia. Ma forse lo capirai meglio se avrai un figlio tu.

Nel senso che c’é qualcosa di irrapresentabile?
La tua tesi di laurea non si intitolava, per caso, Il non compiuto?

Sì.
Cito il tuo Levinas: “Il volto del mio prossimo… sfugge alla rappresentazione. è la fuga stessa della fenomenalità“.

Ho capito. Credo. O forse non ho capito.
Brava. Forse Leonardo, guarda, aveva trovato l’esatta soluzione del problema… Il pittore dovrebbe lasciare allo spettatore qualcosa da indovinare… e se i contorni vengono lasciati un po’ vaghi, come se la forma svanisse nell’ombra, ogni rigidità scompare… è l’invenzione dello sfumato… ma te lo immagini, oggi un discorso del genere? Oppure bisognerebbe, come Rembrandt, rivendicare all’artista il diritto di dichiarare quando un quadro è finito, quando ha veramente “raggiunto lo scopo”. Nel senso che solo l’artista potrebbe stabilire questo momento magico, essenziale, sacro.

Qui a casa avremmo esempi sufficienti di ritratti “finiti”, se solo ti degnassi di dichiararli tali…
Lascia perdere ciò che è fatto per il piacere dell’occhio domestico e ciò che, nelle tue intenzioni, dovrebbe ricercare il consenso del pubblico e della critica. Questo non è il secolo delle sfumature, debbo insegnartelo io? Questo è il secolo dei contrasti forti, fotografici, netti…

Allora l’Arte non è eterna? Un Leonardo, non avrebbe senso?
Certo che no. Perfino Leonardo, oggi sarebbe un leonardesco, guarda tu i paradossi del presente! Cioè sarebbe solo la copia di qualcosa che è già stato consumato, classificato, spiegato. Davvero non lo capisci?

Possibile davvero che il ritratto, così come lo concepiva Leonardo, o anche schiere di artisti precedenti e anche successivi a lui, oggi non avrebbe più senso?
È quello che ti sto dicendo. Comunque ti risponderò con Argan: “La morte dell’arte è il castigo minacciato a una società che ha elevato il modello industriale a modello di vita e ha così consumato fino in fondo il peccato originale: l’arte non può morire perché è già morta“! L’ho trascritta giusto ieri, questa frase.

Sembra pre- benjaminiana…
Può darsi.

Da qualcuno è ancora ritenuta Arte solo quella che non è consumabile?
È il discorso di poco fa… ma un’Arte inconsumabile, oggi che senso avrebbe? Pensa a Capogrossi, ai suoi forchettoni… l’arte diventa tipografica! Un’intuizione chiara, inevitabile.

Un ritratto non potrebbe mai essere considerato Arte consumabile?
Non credo. Non lo potrebbe essere in senso sufficientemente rispettoso per quello che un ritratto, di per sé, deve essere…

Cioè cosa?
L’uscita della figura umana dallo scorrere del tempo. Ovvero la cattura dell’attimo fuggente.

Stando a coloro che orripilano per la consumabilità dei capolavori, le tue illustrazioni non potrebbero mai essere Arte…
Infatti sono illustrazioni.

E va bene, cavalco la tigre. Alludo sopratutto a quelle di questo tuo secondo periodo produttivo (anni sessanta), che a volte sono un po’ troppo perfette, oleografiche. Insomma quelle che io chiamo “santini”.
La Forma, la evocavamo prima, è la Forma. Che posso farci se tu non vuoi capire?

Azzardo un’ipotesi. Non saranno così proprio per orrore di questo consumabile, del deperibile, della morte? Per la tua oscura consapevolezza che, dopo essere stata letta, la pagina del giornaletto con le tue storie stampate sopra rischia perfino di servire come incarto delle uova?
Bizantinerie psicoanalitiche…

Io non capisco una cosa. Tu che propagandi sempre la novità, l’originalità, come ti rassegni a creare figure, sì bellissime, ma così vomitevolmente classiche e compiute che, in definitiva, contraddicono il tuo assioma di poco fa, che c’è, in ogni essere umano, qualcosa di irrapresentabile, appunto di incompiuto?
Intanto quelle sono, come dicevamo, illustrazioni e non ritratti. E poi cosa dovrei mettermi a fare? Picasso?

Perché no? Anche in questo caso avresti tutti i mezzi. Se di innovazione si tratta.
Ti ho già detto che non dimentico mai a chi parlo e perché e con quale mezzo. Ora te lo dico io che sono solo giornaletti…

Allora ti censuri? Ti sei sempre censurato? E non ti pesa?
Te l’ho già detto. L’importante è farsi capire. E io sono disposto anche a rinunciare a parte della mia libertà di espressione, per essere capito. Guttuso diceva: “Pittura è parola difficile. Ma non nel senso che per intenderla si debba essere iniziati a chi sa quali misteri. La pittura non è la manualità astratta, ma la capacità del pittore di esprimere, di raffigurare con potenza ed EVIDENZA le cose che affronta…

Io mi ricordo tutta la serie di copertine e di illustrazioni per Il Giornalino in cui ti sbizzarrivi con la tempera… erano coloratissime, nitide potenti ed EVIDENTI, se vuoi, ma, appunto, al tempo stesso, oleografiche. Non so… c’era qualcosa di nuovo (che non so cos’è) e insieme… di antico.
Lo reputo un complimento.

Insomma, erano gli anni di quella che hanno chiamato l’Italia del miracolo, del boom… i tuoi disegni erano espressione di quella fiducia, di quell’ottimismo?
Perché vuoi sempre forzarmi dentro la storia, quando io invece lotto per starmene alla larga? Io, te l’ho detto, mi sforzo di non esprimere un’epoca soltanto, semmai di riassumerne quante più possibile.

Ma se vivi in quell’epoca, come fai?
Un conto è ereditare gli schemi, respirare l’aria. Altra cosa è portarsela sempre appresso come un marchio di fabbrica.

Cosa detestavi dell’arte degli anni Sessanta?
Tu hai parlato di fiducia.

No, sei tu che hai parlato di fiducia…
Va bene, ma sotto quella fiducia, si avvertiva invece una disperazione… gli esperimenti nucleari, la crisi di Cuba… la costruzione del muro di Berlino… il mondo tremava… e gli artisti che facevano? Si dibattevano ancora in quell’eterno conflitto: realismo o astrattismo? Tu avevi tre, quattro anni, all’epoca… non puoi ricordare certe cose…

Eccolo il punto… in qualcosa, le tue illustrazioni erano l’esatto contrario di astratte… in qualcosa, erano l’esatto contrario di concrete.
Mi piace essere l’esatto contrario di tutto.

Lo sapevo già.
Cosa avrei dovuto fare? Copertine per Il Giornalino nello stile di un Lucio Fontana o di un Enrico Baj? Spiegamelo.

Non dico questo…
No. Perché la Forma è Forma. E quelli che ti ho nominato, insieme ad alcuni altri, la Forma l’hanno sempre bistrattata. La rivista Azimuth, intorno agli anni Sessanta… mai sentita nominare?

No.
Certo che no. Facevi le elementari… beh, quella rivista diffondeva questo principio: le forme non contano, o al più contano come termini di una metamorfosi… erano i tempi di Castellani, di Manzoni… ma in questo discorso così spinto… la comunicazione, dove la metti?

Il punto è che tu non digerisci neppure un’arte realistica. O sbaglio?
Se l’arte astratta nega la forma (e in certi casi anche la chiarezza della comunicazione, nascondendosi nell’alibi dell’astratto), l’arte cosiddetta realista la ricopre di significati che non ha necessariamente. Da una parte c’é troppo, dall’altra c’é troppo poco. La risposta, il gusto di un’epoca, e insieme la strada per superare quell’epoca e per sintetizzare tutte le precedenti, (nonché per abbozzare il futuro) è in qualcosa di più duttile, di più mercificabile…

Cosa?
… La grafica, l’illustrazione, il fumetto, il design… per esempio.

Non ti seguo. Fammi un esempio concreto che non sia preso dal mondo del Fumetto.
Pensa alla linea di Brionvega nero di Marco Zanuso, o alle lampade di Castiglioni, o ai mobili Mim…

Mi parli di un Italian Style che ha marcato inequivocabilmente quegli anni…
Forse. O forse no. Era una strada verso un’essenzialità… un percorso, tutto sommato, che può dirsi universale…

Nelle tue illustrazioni continuavi a perseguire questa essenzialità?
Ci provavo. L’essenzialità è il riparo da tante aberrazioni. Vedi… io ero cresciuto con la guerra… quelle bombe che ci cadevano sul terrazzo… poi il mondo si è spaccato in due… Churchill si lagnava: non è questa la “Libera Europa” che contenga elementi per una stabile pace, si diceva… questa instabilità era più insidiosa nella guerra… almeno per me che, nel frattempo, ero diventato padre… e allora doveva esistere qualcosa di stabile, di duraturo… e insieme di fugace, di superbamente fragile…

La linea?
La linea, la Forma…

Eri… sei rimasto un illustratore (o un artista) di quelli che consolano?
Forse.

Insomma ti consideri un rivoluzionario o un conservatore?
Né l’uno né l’altro. Oppure l’uno e l’altro, come si conviene a chiunque viva e operi dentro questo secolo.

Che vuoi dire?
Che il nostro è un tempo di rivoluzioni grandiose, ma è anche un tempo di grandi consumazioni, di deterioramenti, di sfaldamenti inarrestabili. Alvin Toffler diceva che bisogna “capire la transitorietà‘”. Era lui che parlava dello choc del futuro, determinato “dall’arrivo prematuro dell’avvenire“.

Che c’entra con la consumazione? Lui parlava di…
Non capisci? È l’esito di tutte le rivoluzioni, produrre scarti in eccesso. La ghigliottina ha dovuto eliminare gli scarti della rivoluzione francese. I gulag hanno dovuto eliminare gli scarti della rivoluzione d’ottobre. Il Novecento ha la sua rivoluzione tecnologica e industriale da smaltire, e, in più, tutte quelle dei secoli precedenti, che ci si sono… intasate addosso. Toffler dice: “Non sono soltanto gli eventi contemporanei a irradiarsi all’istante, ma si può dire che oggi sentiamo l’urto di tutti gli eventi trascorsi in modo nuovo. Perché il passato si sta ripiegando su di noi “.

Un’apocalisse…
Non direi. Di certe innovazioni godiamo innegabili benefici. La diffusione a mezzo stampa è il mio personale cavallo di Troia, per esempio. E lo sai. Con essa, l’Arte è potuta diventare, appunto, finalmente di massa. Ti pare un’Apocalisse? A me pare una grande liberazione, una vera rivoluzione popolare. Ecco perché il Fumetto. Il problema, adesso, è distinguere nel gran flusso di cose, quello che resiste dentro i limiti del buon gusto da quello che definirei, come tu stesso l’hai definito, mi pare, “pattume”. O no?

Hai citato Picasso. Uno che ha fatto “santini” per buona parte della sua vita, lo dovrebbe detestare. Invece, fin da quando ero piccola, me ne hai sempre parlato come di un genio…
Piano con le etichette. Una volta per tutte: io non ho mai fatto santini. E non ho nulla contro i santini veri, solo contro l’accezione dispregiativa con cui tu usi il termine. Se ho prediletto forme essenziali, è perché il mio pubblico, io ritenevo, aveva bisogno di forme essenziali. O poteva capire solo tramite forme essenziali. Chiaro? Quanto a Picasso, il discorso si farebbe lungo. Che debbo dirti? Uno o lo capisce, o non lo capisce. Lui non doveva disegnare per i giornaletti, ma se avesse dovuto o voluto farlo, stai tranquilla che non si sarebbe messo a fare Guernica. Qualcosa di altrettanto originale e geniale, sicuramente sì, ma sicuramente qualcosa di diverso…

Io mi ricordo che quando avevo otto-dieci anni e mi mostrasti Guernica, ti dissi che chiunque, volendo, avrebbe potuto rifare quei pupazzi là e diventare Picasso. Tu mi rispondesti… te lo ricordi?
… No.

… Che in ogni caso non sarebbe stato il primo. E che bisogna comunque imparare tutto il resto, prima di mettersi a fare i Picasso.
Lo confermo. È un concetto che è già passato da queste parti. Prima di acquistare libertà e diritto di innovazione, devi passare per le regole. Dimostrare di averle capite e di poterle applicare per decidere di potertene applicare o per decidere di potertene eventualmente sbarazzare. Picasso, guardando i bambini disegnare, diceva: “Quando avevo la loro età, sapevo dipingere come Raffaello; mi ci è voluta la vita intera per imparare a dipingere come loro“.

Per sbarazzarsi delle regole?
Non capisci? Per digerirle al punto da potersi permettere di rigettarle.

Le regole. Cioè la tecnica.
Quella che le generazione dei cosiddetti docenti del ’68 voleva buttare alle ortiche, lavandosi per giunta le mani con il “sei” politico.

Ah, sì. All’epoca io ero davvero troppo piccola.
Ma adesso sei abbastanza grande. Che senso ha?

Adesso nessuno. Ma, evidentemente, all’epoca…
All’epoca era solo una mistificazione ben orchestrata. Una precisa intenzione di privare le giovani generazioni degli strumenti essenziali per capire, con il fine nascosto di livellare i cervelli… scartando tutto, anche quello che non è scartabile. Si è finito così che si è buttato via il bambino insieme all’acqua sporca.

Devi ammettere, però, che certi muffosi ambienti accademici avevano proprio bisogno di una rinfrescatina. Anzi, se non sbaglio, l’hai ammesso pure tu…
Sì, ma non ci si svecchia buttando via l’essenziale e presumendo con ciò di aver fatto per giunta un’operazione di cultura. Se no, si è confuso il come con il cosa.

Viva Picasso, dunque?
Ma viva anche Prassitele e Fidia, viva anche l’oscuro scultore ateniese che ha tirato fuori le Veneri e i kuroi… viva il piccolo ciabattino che mette su un bel paio di scarpe nuove… viva tutti gli innovatori…

Tirando le somme, nel segno di Gianni De Luca c’è – o vuole esserci – un po’ dello spirito rivoluzionario di un Picasso e un po’ del perfetto equilibrio di forme della Grecia classica? O di nuovo non ho capito un gran che?
C’è tutto questo e c’è anche molto altro, se parli della mia cultura visiva, che si è formata su caposcuola e maestri di ogni epoca… ma poi, alla fine, c’è soprattutto una cosa, nel segno di Gianni De Luca, e che, appunto, è il segno di Gianni De Luca…

Ci tieni a restare inclassificabile? Anche tu… “irriproducibile”?
Sì, ma in ben altro senso da quello che adombri tu. Io tengo soprattutto a farmi capire, te l’ho detto. E a restare me stesso.

Se ti definissi “classico nella forma e rivoluzionario nella struttura” lo accetteresti?
Uno non può mai essere rivoluzionario nella struttura, che è l’antirivoluzione per eccellenza. Figurati che nel Sessantotto ce l’avevano a morte con quelle che chiamavano la “sovrastrutture” (un’eredità di Marx).

Questo me lo ricordo, se ne è parlato per secoli anche dopo…
… Perciò, se uno proprio vuole mettersi a fare il rivoluzionario, le strutture non le considera neppure. Giudica tu se io ho fatto…

Allora sei un conservatore?
Te l’ho già detto che odio le etichette.

Insomma: uno che fa figure così angelicate, perfette, da libro di lettura, tanto rivoluzionario non può mica essere! Significa che il mondo con le sue illusioni gli sta bene così com’è… oppure, che di fronte alle tragedie che mi ha citato prima, mira a essere soltanto consolatorio.
C’è un modo di cambiare le cose che non usa spaccare tutto, che al contrario costruisce, che si sforza di cambiare le prospettive, i cervelli o, se preferisci, le prospettive dentro i cervelli. Si può essere rivoluzionari sacrificando, per esempio, qualcosa di sé stessi, offrendo quello che si sa fare… e anche consolare può essere un atto rivoluzionario, certo: c’è chi fa la rivoluzione rompendo, distruggendo, alzando barricate o andandosene e sbattendo la porta. E questa, lo riconosco, è una rivoluzione che fa notizia. Ma è anche una rivoluzione scontata, se permetti…

Mentre tu ti sforzi di essere sempre originale…
Non è questo. Non mi ricordo dove ho letto, che spesso, “i più rivoluzionari sono proprio quelli che restano”.

Che restano dove?
Al posto loro. La cosa più difficile della terra. Ti ricordo ancora una volta che quelle mie figure andavano a riempire le copertine di un settimanale cattolico per ragazzi.

Senti, prendiamo un esempio. Mi ricordo la copertina de Il Giornalino del Natale del `66 . A proposito, perché non più a Il Vittorioso?
Non lo so… era entrato un po’ in crisi… la tensione della guerra fredda si era allentata e quella della polarità, quella forza che veniva dal conflitto non aveva più tanta ragione d’essere… era l’ora della destalinizzazione, di papa Roncalli… era come se Il Vittorioso stentasse ad adeguarsi a questo nuovo clima… giustamente si estinse…

Okay, dicevo di quella copertina per Il Giornalino. Titolo emblematico: È Natale anche per loro. Chi erano questi “loro”, per i quali, perfino per loro, era Natale? Te lo ricordi?

Erano gli hippies. I capelloni. Che tu rappresentasti raccolti sotto un ponte, a suonare la chitarra attorno a un fuoco, come gli ultimi sbandati della terra. Solo che non fosti realistico, ma li facesti bellini con le frange ben pettinate, coi loro giubottini perfetti, i sorrisi mesti di chi ha peccato fino a un attimo prima e ora, la notte di Natale si ravvede… non puzzavano di patchouli e di sudore, ma profumavano di saponetta… insomma, e poi ti meravigli che nessun altro, a parte i preti, ti abbia mai preso in considerazione?
Ma di che cosa vai blaterando?

I tuoi erano hippies di maniera. Santini pure loro. Per questo non sei mai andato di moda, se lo vuoi sapere, e ti hanno preferito Pratt e Crepax e perfino Forattini.
Se le alternative sono quelle che hai citato, allora mi sta bene non essere mai andato di moda. Le mode, infatti, passano. E bada che non ce l’ho con Forattini, né con Crepax, né tanto meno con Pratt.

Bella consolazione.
Sicuramente più di quella che potrebbe venirmi da una figlia come te.

Ora cosa c’entra?
Sei senza pietà e non capisco perché questa improvvisa cattiveria. Ma comunque andiamo avanti: è compito dei figli essere senza pietà.

E va bene. Riconosco che i tuoi capelloni da libro di lettura comunque erano simpatici. Tranquillizzanti. Insomma, non troppo trasgressivi. Esattamente come li voleva santa Madre Chiesa.
Fortuna che volevi riconoscermi qualcosa…

Anche tu ti sei adeguato al tuo padrone del vapore, ammettilo.
… non ti è mai venuto in mente che quelli fossero i miei hippies? Gli hippies secondo Gianni De Luca? Non guardarli con gli occhi smaliziati di adesso. Perché allora potrei dirti che erano di maniera i capelloni stessi, che era di maniera il fenomeno in sé. Un fenomeno molto più conservatore di quanto non apparisse all’epoca. Tutte le rivoluzioni, almeno quelle di costume, contengono un seme di reazionarietà. La fede in qualcosa che si vorrebbe restaurare. Un valore, un diritto, un’idea. Non è così? Ti paio conservatore solo perché io le rivoluzioni le ho già combattute.

Tutte?
Qualcuna.

Riecco che ti perdi per campi.
Va bene, mi perdo. Ma tu sei proprio una…

Passiamo ad altre copertine dell’epoca. Altrettanto geniali quanto È Natale anche per loro e altrettanto classiche. Perché È Natale anche per loro aveva avuto una sua genialità, pur nel conformismo cattolico che trasudava.
Bontà tua. E cioè?

Era geniale il fatto che dei presunti ragazzacci si disegnassero il loro presepe coi gessetti sotto la volta del ponte, per esempio… una soluzione patetica ma in fondo in fondo indovinata, nella sua semplicità, lo riconosco.
Tante grazie. Poi mi spiegherai il “patetica”.

Passiamo, dicevo, ad altre copertine di quegli anni. Geniali e classiche insieme. Io mi ricordo in particolare La clessidra della storia. La intitolo così non sapendo altrimenti come. Due bambini dei tuoi, fratelli minori dei “giovinetti” di Azione Cattolica che disegnavi sulle testatine de Il Vittorioso, osservano con stupore e divertimento una grande clessidra dove, al posto della sabbia, scorre giù una polvere di umanità, in cui si intravedono in formato microscopico gli antichi egizi e Napoleone, Nerone e la ghigliottina, omini in costume settecentesco e soldatini prussiani, astronauti e uomini delle caverne… insomma, lo scorrere dell’umanità nelle diverse ere della sua storia. Tutto mischiato in insalata. Beh, assolutamente geniale, direi. Mi sembra anzi di ricordare che la formulazione di quella idea ti costò non poco.
Grazie di ricordartelo e di ricordarmelo. Ogni soluzione che trovo mi costa non poco. C’é evidentemente uno studio che non è solo relativo al cosa, ma anche al come. L’idea è sempre anche un progetto, un bozzetto visivo.

Una soluzione così fine è resa, però dal tuo consueto oleografismo…
Alla solita provocazione, la solita reazione: non poteva essere che così.

Ma allora, come ti sei potuto permettere di essere, anche in questo caso, così ironico? (perché quella polverina di umanità è ironica) C’é uno sguardo di enorme pietà sulle meschinerie umane, e nello stesso tempo un sorrisino trattenuto che dice che tu le riconosci, appunto, per quello che sono: meschinità.
Non avrei dovuto permettermi questa ironia, secondo te?

Non lo so… Del resto, il sorrisino malizioso che suscita all’osservatore un Napoleone che, cadendo giù dall’ampolla superiore, rimane a gambe all’aria, è il tuo stesso sorrisino malizioso che quella caduta così irriverente ha goduto già solo nel pensarla… io ti riconosco. È anche lo stesso sorrisino malizioso con cui guardi tutta la storia umana da sempre, a quanto mi consta.
Se è così (e non ho elementi per dirti che così non sia) non poteva trapelare, questo mio sorrisino, io lo identificherei (e mi identificherei) con una maschera tragica. Comunque ciascuno è quello che è anche e soprattutto nelle cose che fa. Un uomo è le sue opere. Fumetto, o affresco o paio di scarpe che sia. Picasso diceva: “ la mia opera è come un diario“.

Dunque tu non saresti ironico?
Posso anche esserlo. È per caso una colpa?

Hai la coda di paglia? L’ironia, per me, dati i tempi, è un dovere.
Io sono ironico quel tanto che basta per capire di non esserlo abbastanza. Per me però, nella clessidra di sabbia umana c’è più tragedia che farsa. Questo ammasso di vicende sanguinolente che, alla fine, è sempre lo stesso scorrere… panta rei! E allora puoi non essere classico, “oleografico”, consolatorio, o “conservatore”, come dici tu? Se hai coscienza che tutto scorre (come pioggia sui vetri), e che tutto continua a scorrere nonostante le guerre, il sangue, le tragedie, puoi non inseguire qualcosa che resti?

La forma?
La forma. La metafora del tutto, anche dell’uomo. […] Vedi, io cerco di rispettarlo, tutto questo fluire (che non è mai stato così fluido come in questo tempo). E infatti non faccio ritratti, per esempio. Ma la Forma… ah bé, la Forma è sacra. è l’idea platonica del Bene, se vuoi. […] è nella Forma e nelle forme che cerco di dare riposo agli occhi e quiete alla mente. è così che cerco di offrire certezze a chi guarda le cose che faccio.

Uhm…
Uhm CHE?

Mi viene in mente un’altra copertina, e questa è del 1968, ed è ancora sul tema di Natale. La intitolerò, (non sapendo neanche in questo caso come) Pace in terra agli uomini di buona volontà. Un titolo che sarebbe deleterio, se la si volesse esporre come quadro in una mostra, nel qual caso, preferirei forse: La Forma è altrove. Ti ricordi a cosa mi riferisco?
Sì, credo.

Allora descrivila tu, quella copertina.
A parole?

Sì per favore, accetta il giochino. Non c’é tranello. Anche se dico sempre che tu non dovresti mai parlare (nel senso di emettere suoni con la bocca), ma esprimerti solo con i tuoi disegni.
Grazie tante. È una scena di città. Ripresi qualcosa dal vero, se ti ricordi, a Ponte Margherita, davanti a Ruschena, anche se poi, in realtà, il ponte raffigurato non è quel ponte…

Io trovo che quella copertina sia proprio un quadro, un affresco. Perciò prima parlavo di una possibile esposizione. Mi ricorda, non so perché, Paolo Uccello.
Cosa c’entra?

Non so. Ci vedo qualcosa di corale come nella Battaglia di san Romano, figurati. Ma almeno lusingati, una volta tanto che ti faccio un complimento! O fingi di…
E va bene mi lusingo, senza bisogno di fingere. Ma non capisco cosa c’entri. Insomma, è una scena metropolitana, se per metropoli intendiamo…

No, per favore. Dimmi solo cosa rappresenta.
Ci sono dei passanti… che la sera della vigilia si presume stiano tornando a casa, chi col panettone, chi con l’ultimo pacchetto sotto al braccio… ma sul ponte, c’è qualcosa che attira la loro attenzione. Anzi qualcuno. Un ragazzino…

… Biondo, tipo Incompreso…
Un ragazzino biondo che sta disegnando un angelo sul marciapiede e intanto guarda in alto come se stesse osservando il modello dal vero. Come se lo vedesse per davvero… la maggior parte della gente che lo circonda guarda a sua volta in alto, cercando di capire che cosa il ragazzino stia effettivamente guardando. Tutti attenti, a scrutare, a stringere gli occhi, ad aggrottare le fronti… c’è chi se ne va scrollando le spalle, trattenendo il compatimento e, anche in questo caso, un certo sorrisino… lui lavora, inalterato, ispirato, serissimo. Ma è evidente che gli altri, tutti gli altri, non vedono nulla di quello che lui vede lassù in alto…

È la parabola del tuo lavoro? Del lavoro dell’artista in genere? Quel bambino sei… tu stesso?
Di che vai cianciando?

Pensavo di farti un altro complimento.
Ah sì? Può darsi… in tal caso…

Anche tu guardi le tue benedette forme nell’iperuranio, dove nessuno lo vede?
Può darsi…

Anche intorno a te c’è una piccola folla di gente che aggrotta la fronte per cercare di capire dove cavolo stai guardando tu?
Può darsi…

Anche tu vedi per tutti quelli che non vedono, perché non solo ciò che appare è reale?
Può darsi.

Bene, hai un’alta stima di te. O quanto meno dei poteri della tua vista…
So quello che posso e che devo fare. Ma allora c’è un’altra analogia con me stesso che non hai colto. O forse non hai voluto cogliere.

Vale a dire?
Io, come il bambino, disegno in un certo senso per terra. Cose terra-terra, se vuoi. Ma che ispirano ai modelli veri. Lui disegna coi gessetti, io sui giornaletti. Sì, sono solo giornaletti. Cose che passano, che durano un giorno…

(…)

Riferimenti
Il sito della Black Velvet: www.blackvelveteditrice.com

Ringraziamo Laura De Luca, Black Velvet e Bd per aver permesso la pubblicazione di questo articolo.
Le immagini di questo articolo sono de luca

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