Pochi morsi ne “L’impero dei Morti” di George Romero

Pochi morsi ne “L’impero dei Morti” di George Romero

Prosegue la saga zombie a fumetti ideata e scritta da George Romero, tra triangoli amorosi, intrighi politici e gladiatori zombie.

La storia è quella che il regista George Romero, qui nei panni di sceneggiatore, ha raccontato nei suoi film a partire da La notte dei  morti viventi (Night of the living dead, 1968). I morti tornano a camminare sulla terra affamati di carne umana, senza che si sappia il perché. Per ucciderli definitivamente occorre colpirli alla testa, ma le loro fila sono talmente folte che  la soluzione più pratica sembra quella di tenerli a debita distanza, o addirittura sfruttarli come macabri gladiatori dati a loro volta in pasto alla sete di violenza del pubblico pagante.

L’ambientazione ricorda quella de La terra dei morti (Land of the Dead, 2005), scenario dell’azione una New York blindata per ovvi motivi di sicurezza, governata –  qui sta una delle novità della saga a fumetti – dal losco sindaco Chandrake, la cui corruzione morale è il minore dei difetti, visto che si tratta nientemeno che di un vampiro.

A completare il cast dei personaggi principali c’è Paul Barnum, uomo di fiducia del sindaco in conflitto con se stesso, cui spetta il compito di catturare i non morti e avviarli ai combattimenti, mentre la dottoressa Penny Jones è convinta che sia possibile risvegliare la coscienza degli zombie e ripristinare con questi una forma di interazione, seppur elementare.
La cattura di Xavier, ex SWAT ormai defunta, sembra dare ragione alla dottoressa quando la non morta instaura un legame affettivo con una bambina abbandonata di nome Jo.
A complicare ulteriormente le cose si inseriscono un (inevitabile) triangolo amoroso che coinvolge Barnum,  la dottoressa Penny e il malefico sindaco, oltretutto insidiato dall’ambizioso nipote che aspira a succedergli alla carica di sindaco.  Il tutto mentre un gruppo di ribelli prepara un’insurrezione armata.

Molta carne al fuoco che in questo Atto secondo, a differenza di quanto accadeva nel primo, cuoce un po’ troppo lentamente. In questi cinque episodi – che costituiscono il secondo di tre atti – Romero, coadiuvato dalle matite di Dalibor Talajić, si concentra sull’introspezione dei personaggi e ne sviluppa la dimensione sentimentale mentre porta avanti i vari filoni della vicenda. Ne esce una storia godibile ma sostanzialmente interlocutoria, apprezzabile nonostante l’esigenza di tirare periodicamente le fila e il ricco cast.

La struttura è quella classica delle storie raccontante da Romero, ovvero quella di una situazione di apparente equilibrio minacciata da forze esterne: qui abbiamo un gruppo sovversivi/anarchici decisi a rovesciare l’amministrazione della città, senza curarsi delle conseguenze. Lo stesso avveniva in Zombie (Dawn of the the Dead, 1978), dove l’incursione di un gruppo di bikers devastava il centro commerciale in cui avevano trovato rifugio i protagonisti della pellicola. Ma la minaccia può provenire anche dall’interno: come accadeva nel già citato La terra dei morti viventi ,  dove erano le tensioni interne, alimentate da invidie e gelosie, a innescare l’implosione della cabina di comando della città.

Restio al lieto fine, come del resto non sempre incline a dare alle proprie storie un finale vero e proprio, il regista nato a New York racconta più o meno la stessa storia: se pur declinati in modi diversi le sue produzioni hanno come sostrato comune la riflessione sulla natura inevitabilmente fluida della società, contrapposta alla tendenza conservatrice (e autoconservativa) delle istituzioni e del potere in generale. L’indifferenza alle istanze di cambiamento (una volta forse avremmo detto rivoluzionarie) e  l’opposizione ai processi di trasformazione, innescano fatalmente crisi violente e drammatiche.

In questo quadro decisamente pragmatico e attuale, l’elemento soprannaturale si inserisce generando un chiaro corto circuito, in linea con la tradizione del genere horror (cinematografica ma non solo) che propone un parallelo tra le mutazioni mostruose delle proprie creature e quelle sociali o individuali: si pensi all’analogia “classica” tra la trasformazione subita dai licantropi come allegoria dei mutamenti fisiologici propri dell’adolescenza.
I non morti sono quindi utilizzati in una vastità di chiavi allegoriche, a seconda del bersaglio che di volta in volta si è scelto di colpire.

Ne L’impero dei morti l’autore dipinge il ritratto di un potere corrotto e immorale, del tutto distante e disinteressato agli interessi della comunità che dovrebbe servire. In questo quadro Romero usa gli zombie per rappresentare lo strato infimo della società, quello di quanti non hanno voce o diritti, al punto da non avere nemmeno nomi o identità. La loro vista (e la loro macellazione nel corso dei combattimenti), dà corpo alle colpe di quanti, e sono la maggioranza, vivono una vita “normale” al riparo offerto loro dalle tutele di un sistema ingiusto e iniquo, ma che per fortuna ha posto altri nel ruolo di vittime sacrificali.

In questo la saga riprende in toto la tesi alla base del film del 2005, dove gli zombie, per la prima volta organizzati seppur blandamente, davano l’assalto alla ricca e opulenta città, in una sequenza davvero memorabile.
Una metafora forte, che può essere interpretata in varie accezioni (la storia, anche recente, offre purtroppo innumerevoli esempi di situazioni di enorme disagio quando non vere e proprie tragedie cosiddette umanitarie), e che si percepisce esplicita anche in questo lavoro.

Fondamentale da sempre, nell’opera del regista è inevitabilmente la costruzione dell’atmosfera capace di far percepire allo spettatore il senso di angoscia per la imminente deflagrazione della crisi, di cui gli zombi sono spesso più l’innesco che la reale causa. Ovviamente al cinema un apporto fondamentale al raggiungimento dello scopo è fornito dalla musica, mentre in questo caso tocca ai disegni restituire il giusto mood.

Sotto questo profilo l’apporto del disegnatore  croato Dalibor Talajić si rivela insufficiente. Il tratto semplice e anonimo offre tavole corrette dal punto di vista della costruzione e leggibilità ma carenti di personalità e prive pathos. La colorazione spesso colma lo spazio lasciato vuoto dalla frequente mancanza di sfondi, e mal si sposa con un tratto spesso che sembra più ragionare in termini di bianco e nero e che mal si coniuga con il colore. Gli zombie hanno le fattezze di persone normali, dalle quali differiscono per il solo colore grigio di una pelle comunque priva di segni di corruzione. Davvero difficile farsi trasportare o suggestionare da queste tavole, che perdono decisamente il confronto con quelle del primo atto (opera del talentuoso Alex Maleev che citava George Zaffino) ma che, sopratutto non restituiscono in alcun modo l’atmosfera complessiva della vicenda.

Nonostante il rammarico per una veste grafica non all’altezza questo secondo atto de L’impero dei morti resta comunque una lettura piacevole, magari da fare avendo recuperato la prima parte, di cui costituisce l’immediata prosecuzione, in attesa del terzo e conclusivo atto disegnato dall’italiano Andrea Mutti.

Abbiamo parlato di:
L’impero dei morti – Atto secondo
George A. Romero, Dalibor Talajić
Traduzione di Fabio Gamberini
Panini Comics, maggio 2017
112 pagine, brossurato, colori – 12,00 €
ISBN: 9788891225627

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