Dal cinema alla danza con un ingaggio politico bruciante: la personalità di Maya Deren raccontata da Alghisi e Madoglio tra biografia e viaggio onirico. Le conquiste e le possibilità del Ventesimo secolo si avvicendano davanti agli occhi di chi legge, con una ricchissima serie di riferimenti storici e culturali.
Stefano e Marco, bentornati su Lo spazio bianco per parlare di Maya Deren. La vertigine dell’esistenza, il vostro ultimo libro edito da MalEdizioni.Perché raccontare proprio di questo personaggio?
Stefano Alghisi: La conoscevo da almeno vent’anni, avevo letto il suo libro I cavalieri divini del vudù, un saggio antropologico fatto molto bene, con uno sguardo personale. Di questo libro mi ha sempre colpito un capitolo che si intitola “La bianca oscurità ” e che parla di un episodio di possessione che Deren ha vissuto in prima persona (ne ha vissuti più di uno).
È una cosa particolare perché di solito nei libri di antropologia sono descritti episodi di questo tipo dall’esterno, l’antropologo li vede accadere, in questo caso invece il punto di vista è interno.
Un episodio che raccontate anche nel fumetto: sei un appassionato dell’argomento?
S.A.: Sì, sono appassionato da un sacco di anni di tematiche tradizionali sociologiche e antropologiche. Possessione, perdita di coscienza e alterazione di coscienza, e la realtà che diventa qualcosa di incomprensibile mi appassionano.
Stefano, come hai conosciuto Maya Deren?
S.A.: L’ho scoperta per il libro sul vudù, cui sono arrivato per la mia passione per il blues, la musica nera, il jazz. Il vudù ha molto a che fare con la musica e se ti interessi alla quella nera afro americana e non ti limiti ad ascoltarla ma cominci a documentarti su com’è nata – dagli schiavi che sono stati deportati in America – prima o poi passi da Haiti e in qualche modo ci arrivi.
Il vudù ha un aspetto molto affascinante che c’entra anche con un certo tipo di rock, e ha a che fare anche con il libro precedente che ho fatto, Il porto delle anime. Fra i gruppi di cui ho parlato, i Cramps, i Gun Club, quelli dell’area californiana di fine anni Settanta inizio anni Ottanta, c’era un gruppo – che non ho messo nel libro – che si chiamava “Divine Horsemen”. La traduzione del loro nome è “Cavalieri divini ”, quei cavalieri che danno il titolo al suo libro sul vudù. Leggendo quello poi ho scoperto che Deren era stata anche regista.
Marco, tu invece non la conoscevi, giusto? Come ti sei documentato? In appendice al libro citate numerose fonti.
Marco Madoglio: Sì, esatto, non la conoscevo, quindi ho cercato di mettermi in pari leggendo prima il libro della professoressa Anita Trivelli (Sulle tracce di Maya Deren, ndr), fondamentale, e poi alcuni stralci di questo sul vudù. Ho proseguito con Il libro tibetano dei morti e il Libro dei morti egizio. Il primo l’avevo già letto, mentre del secondo ho letto alcune parti. Abbiamo poi visto i film e integrato suggestioni cinematografiche su Ėjzenštejn, come le scene collegate alla vita di Maya che sono state inserite nel film solo ipotizzato e mai girato del regista, o la storia hard boiled alla Raymond Chandler e alla Orson Welles. Stefano ha poi letto proprio la biografia inglese in due volumi di Maya Deren.
L’introduzione del libro è scritta da Anita Trivelli, come siete entrati in contatto?
M.M.: All’inizio l’abbiamo contattata per dirci se poteva darci del materiale.
S.A.: È l’unica in Italia ad aver scritto un saggio sull’argomento, Sulle tracce di Maya Deren, l’abbiamo contattata proprio appena prima che arrivasse il Covid e lei ha accettato di scrivere l’introduzione.
Il fumetto è molto cinematografico, ci sono anche tante scene di vita quotidiana, e il contesto storico è ben delineato. Avete trovato questi riferimenti nei libri o li avete approfonditi altrove?
S.A.: Per un fumetto di questo tipo c’è bisogno di una documentazione importante anche se certe cose si conoscono già.
Dopo le prime tavole di prologo, il libro inizia con la manifestazione del 1° maggio 1936 e proprio di quella manifestazione si può trovare almeno un’ora di filmato: è da lì che abbiamo preso fotogrammi che ho riprodotto in maniera funzionale alla storia.
Maya Deren ha più registri: appare come un fumetto tradizionale, ma in realtà non lo è così tanto.
Il mio segno è abbastanza pulito e realistico, vira poi verso una sorta di underground ripulito: gli occhi della protagonista sono grandi, le teste anche, c’è sempre una leggera deformazione, per staccarsi dal puro realismo. In questo, Robert Crumb stilisticamente rimane il mio riferimento principale.
All’interno del libro, poi, c’è una narrazione multipla a partire da quella biografica, di una vita poco conosciuta in Italia e complessa.
Deren ha fatto tante cose, dall’attività politica alla danza, dal cinema alla ricerca antropologica ha conosciuto un sacco di persone, ha avuto un approccio al cinema artistico, non narrativo, sperimentale, d’avanguardia, un tipo di cinema simile all’arte astratta, che non capisci se non ne sai almeno un pochino.
I suoi cortometraggi si trovano facilmente?
S.A.: Sì sì, sono cortometraggi quindi in un paio di ore li riesci a vedere. Si trova facilmente anche il documentario su Haiti, che però non è finito.
Marco, mi sembra tu che tu inserisca la danza fin dall’inizio a livello linguistico, quando dici della “coreografia della scena della politica europea”.
M.M.: Non è voluto ma ha senso: quello è un dialogo vero. Alcuni dei dialoghi inseriti nel libro sono reali, recuperati dalla biografia in due volumi di Deren, dove si leggono scambi riportati di suo pugno o riferiti da altri, come ad esempio la parte politica alla fine del comizio, oppure quella in cui lei parla del cinema. Persino alcuni insulti erano stati trascritti. Li abbiamo poi integrati con altri che facessero avanzare la narrazione, cercando di mantenere qualcosa di più verosimile possibile.
Per quanto riguarda la musica invece? Che ruolo ha nella storia?
M.M.: Sì, la musica è diegetica, arriva direttamente dagli ambienti in cui si svolge la storia.
S.A.: Non è quindi tanto una colonna sonora, ma è interna, a partire dalle prime tavole, in cui i personaggi cantano Which side are you on? un brano storico di lotta dei minatori americani composto pochi anni prima, nei primi anni Trenta. Il brano cantato da Pete Seeger e Woody Guthrie lo facciamo cantare ai manifestanti.
Maya Deren nasce a Kiev e da piccolissima si trasferisce negli Stati Uniti con la sua famiglia, lei quindi si definisce americana?
S.A.: È nata nel 1917 e all’inizio degli anni Venti si è trasferita in America con la sua famiglia, non ha mai rimpianto le sue origine né politicamente né culturalmente, era molto determinata e concentrata su quello che voleva fare. Lo dicono tutti quelli che l’hanno conosciuta e alcuni non ne parlano neanche tanto bene: dicono che era molto ambiziosa, competitiva, organizzava spesso cene a casa sua in cui doveva eccellere in tutto, dal cucinare al ballare.
Deren appare molto indipendente e libera e, leggevo, di posizioni femministe. Cosa ne pensate? Cosa la lega alle battaglie di oggi?
S.A.: Se vogliamo, possiamo trovare il femminismo nella sua collaborazione con Katherine Dunham, molto importante e avvenuta negli anni Quaranta, appena prima che si dedicasse al cinema. Questa ballerina afro americana è stata la prima a recuperare le danze africane e caraibiche e reinterpretarle in chiave contemporanea. Hanno collaborato per un anno circa facendo un po’ di tutto: dalla tour manager all’autista.
In una vignetta ci immaginiamo l’incontro fra loro due: Maya Deren che è andata a vedere lo spettacolo di Dunham e mentre si dirige verso il camerino incrocia Langston Hughes, grandissimo poeta afro americano molto impegnato politicamente. Lei entra, c’è un attimo di silenzio e poi le due si presentano: Maya dice a Katherine che vorrebbe collaborare con lei in diversi modi, dal curare le traduzioni agli editoriali e Katherine le risponde secca Bene, mi farà da autista. Katherine girava insieme a Eveline, la sua guardia del corpo, oltretutto era l’unica bianca in una compagnia di persone afro americane.
Lei comunque non ne ha mai parlato, diciamo che viene di riflesso: siamo tra gli anni Quaranta e Cinquanta e Deren muore nel 1961: all’epoca non erano molte le artiste ad essere così consapevoli delle loro capacità e di quello che volevano fare. È una sorta di femminismo di rimando. Da parte sua è vissuto in modo naturale. Ha avuto la fortuna di vivere a New York e non in un paesino del Kentucky e le persone con cui aveva a che fare erano tutte progressiste, mature, di sinistra, probabilmente quello l’ha aiutata. Ha avuto un sacco di relazioni ed era una donna molto indipendente, anche nel modo di gestire la sua sessualità.
C’è un flash BDSM (bondage, dominazione e sottomissione, disciplina, sadismo e masochismo, ndr) a un certo punto.
S.A.: Sì, in relazione all’incontro con William Seabrook, è stato una scoperta, un personaggio pazzesco.
M.M.: Quando si presenta nel fumetto quel che dice è vero, i titoli dei libri sono veri: ha scritto libri di avventura, pulp book clamorosi, era un antropologo, esoterista, e appassionato di pratiche BDSM. Esperienze che faceva vivere a chi lavorava per lui, alle sue segretarie e anche a Maya Deren quando ha lavorato con lui.
S.A.: Lei in verità racconta l’episodio in maniera abbastanza drammatica. Ne parla una sola volta in una lettera che scrive a un suo amico, anche lui antropologo, di Chicago, dicendo che quando Seabrook le chiese di fare una di queste pratiche lei non accettò e se ne andò via. Lo facciamo vedere come una cosa immaginata, che sarebbe potuta succedere.
C’è un fumetto molto bello, americano, The Abominable Mr. Seabrook di Joe Ollmann, che racconta la sua vita. Un personaggio pazzesco, amico di Huxley, Lee Miller – la fotografa che si è fatta ritrarre nella vasca di Hitler che ha ispirato anche uno degli ultimi libri di Serena Dandini (La vasca del Führer, ndr) –. Ha fatto la guerra di Spagna, era un personaggio bizzarro ma non un pornografo o un viscido, le esperienze che faceva vivere non erano violente, non era uno stupratore, alcune ragazze si sono prestate, altre no. Le immagini sono tratte da fotografie reali che si trovano online cercando il suo nome.
Sapete se ci sono musei dove parlano di Maya Deren?
S.A.: Al momento (fine agosto 2023, ndr) è citata in una mostra di Parigi sul Surrealismo, mentre lo scorso anno alla galleria Guggenheim di Venezia si è tenuta la mostra Surrealismo e magia. La modernità incantata all’interno della quale veniva proiettato il suo secondo film, non finito, Witch’s Cradle, il film più correlato alla magia che abbia fatto.
Questo fumetto è davvero un grande lavoro che vi ha occupati per diversi anni. Come l’avete portato avanti?
M.M: Sì, sette anni. Mi ha coinvolto Stefano e ho trovato da subito il personaggio interessantissimo e aderente a passioni comuni, come per esempio musica e antropologia. Stefano aveva già delle tavole del film muto, una quindicina, abbiamo poi capito come costruirci intorno la storia. Abbiamo quindi deciso insieme quali erano le parti che volevamo raccontare della vita, una vita che abbiamo percorso in modo più o meno integrale per quanto frammentaria, e che procede più per analogie che per un percorso cronologico.
Le prime tavole sulla la parte politica erano costruite in modo più classico, mentre proseguendo si sono affacciate diverse soluzioni narrative.
Stefano ha realizzato degli storyboard su come raccontare i diversi episodi, cui abbiamo integrato i dialoghi e si è arrivati a questa commistione, anche dei nostri ruoli, più veloce e fluida.
A partire da una tavola quasi francese all’inizio si va verso una tavola più libera, lasciando spazio al nero pieno, al bianco, verso la fine della storia. Abbiamo giocato e immaginato come avrebbe raccontato lei la sua vita, ci siamo ispirati al suo concetto di bianca oscurità. Da uno schema più classico a una visione più onirica, parallela agli eventi della storia, verso la morte.
S.A.: Procedere in un modo più canonico sarebbe stato molto macchinoso e avrebbe comportato un investimento maggiore di tempo. Non a caso si sente questa differenza fra le parti. Abbiamo voluto tenere insieme più cose: la necessità importante di raccontare e far capire bene la vita e l’arte di Deren e una narrazione immaginativa.
Dopo sette anni com’è stato vedere il libro stampato? Non vi mancano tutti questi personaggi così intensi?
S.A.: Io con la testa ci sto uscendo poco per volta, adesso ci sono abbastanza uscito. Ci ho messo un po’, sì.
Vedevo dalle vostre condivisioni social che il fumetto sta raggiungendo una nicchia di appassionati
S.A.: Se ne sta parlando parecchio, è uscito anche un articolo di Lucrezia Ercolani che scrive di cinema sperimentale su il manifesto, il che ci conferma che sia stata un’idea azzeccata fare questo fumetto.
M.M.: Abbiamo scoperto che c’è un mondo di gente appassionata, in America abbiamo avuto risposte belle da jazzisti: piaceva il disegno, conoscevano il personaggio, da noi si conosce pochissimo.
Dove siete stati in questi mesi per presentare il libro?
S.A.: Dopo la pubblicazione abbiamo avuto la possibilità di partecipare a varie presentazioni tra cui PordenoneLegge, all’Angelo Mai a Roma, al cinema Nuovo Eden di Brescia (con proiezione di tre film di Maya Deren sonorizzati dal vivo) e a marzo saremo ospiti del CLAP, il museo del fumetto di Pescara, più varie presentazioni in zona.
Inoltre sono stati scritti alcuni articoli e recensioni pubblicati sul manifesto a fine agosto, sul numero di luglio/agosto di BLOW UP insieme a un lungo articolo su Maya Deren, su Brescia si legge a fine gennaio e su alcuni siti di settore come Fumettologica, uBC Fumetti e altri.
Grazie per l’intervista Stefano e Marco, alla prossima!
Intervista svolta dal vivo il 30 agosto 2023 e rivista e completata via mail a febbraio 2024.
Marco Madoglio
Soggettista e sceneggiatore, ha collaborato con l’Accademia Italiana della Cucina (Storia della cucina italiana a fumetti), l’INFN (Racconti dal Bar Aonda), le Edizioni Versante Sud (The Hut, Fuga da Buoux), la L-ink edizioni (Doctor G), Il Giornalino (Le avventure di De Pennutis & Falcon, Il Quaderno Avventura), Super G (Sulla Strada di Emmaus – premio Fede a Strisce 2015 al Cartoon Club di Rimini –), le Edizioni Inkiostro (alcune storie brevi pubblicate su Denti), le SDF Edizioni (Banande e alcuni fumetti didattici), l’Editoriale Jaca Book (la serie La Storia degli Animali a Fumetti) e la DeAgostini. Collabora con la Coral Climb Productions alla realizzazione di documentari (Regula – selezione ufficiale al La Paz International Film Festival 2023, Bolivia, Restauratio Humana). Informazioni più dettagliate e aggiornate si possono trovare sul suo blog Scribacchiare.
Stefano Alghisi
Dopo aver frequentato l’Istituto d’arte Caravaggio e la scuola di fumetto di Milano, inizia la sua attività di fumettista pubblicando Morrison Hotel per Gammalibri. In seguito pubblica Viva Basaglia, fumetto ispirato alla figura di Franco Basaglia, per la casa editrice Moretti e Vitali e Il porto delle anime per MalEdizioni. Ha collaborato con riviste e fanzine fra cui Bassa Fedeltà, Musica Jazz, Puck e Lamette.