Una chiacchierata amichevole. E’ questa la sensazione che si prova intervistando Gipi. Gianni Pacinotti trasmette la sensazione di un uomo alla mano, sempre disponibile e umile. Il più grande autore italiano del palcoscenico fumettistico italiano (e penso di non offendere nessuno affermando questo) risponde sempre, senza nascondersi, alle domande più personali che gli vengono poste. Ed proprio dalle sue risposte che si intuisce una grande umanità e il semplice piacere di rapportarsi agli altri. I grandi artisti si riconoscono anche da questi particolari.
“Unastoria”, il tuo ultimo lavoro, arriva dopo un difficile periodo personale. Un periodo di smarrimento e disperazione che sembra confluire nelle pagine del volume. Quanto è stato terapeutico per la tua persona raccontare la storia del crollo verticale e la conseguente presa di coscienza di Silvio Landi?
Smarrimento sì, disperazione no. Gli ultimi anni senza fumetti sono stati complicati, anche se per molti versi divertenti e stimolanti. Alla fine mi sono trovato a lavorare nel cinema, che non è come andare a svuotare cessi chimici dopo un concerto dei Cani. Però è vero, avevo un dolorino che non mi lasciava mai, questa sensazione di aver perso la capacità di raccontare con i fumetti e quindi la necessità di ridefinirsi sotto una forma diversa, che faticavo a identificare.
Un eccesso di popolarità (si può parlare anche di vanità professionale?) ti ha portato alla difficile situazione personale di cui parlavamo prima. Il successo di “Unastoria” ti ha dato ancora una volta grande visibilità pubblica, incontri, interviste e addirittura una candidatura al Premio Strega. Riesci ad affrontare questa situazione in modo diverso?
Sono due cose diverse. Dopo “La Mia Vita Disegnata Male” la mia vita era cambiata profondamente. Non perché quel poco di successo fosse una cosa pericolosa o negativa di per sé, ma perché il successo può essere pericoloso per chi soffre di un qualche deficit d’amore. Unastoria è arrivato in un momento completamente diverso della mia vita, troppe cose sono cambiate e posso dire che il tempo e le cose accadute mi hanno vaccinato. Sono contento di com’è stato accolto il libro, ma la mia vita non è cambiata di un centesimo tra il prima e il dopo l’uscita del volume.
Avverti un certo peso sulle spalle, una sorta d’incarico di penetrare con i tuoi lavori un pubblico che di solito non legge fumetti e di trainare il medium nella “cultura alta”, “nell’arte”, nella considerazione generale?
No. Non penso a queste cose. Se succederà, se lettori di varia non abituati ai fumetti si avvicineranno a questo mezzo grazie alla parola magica “Premio Strega” sarà una cosa buona ma poi c’è la seconda fase, quella durante la quale, dopo aver comprato il libro, si deve leggerlo. Ecco, diciamo che mi interessa di più l’effetto che farà la lettura piuttosto che l’ampliamento di un possibile parco lettori.
E’ una mia impressione o il libro si pone in maniera quasi “asettica” verso il lettore, scorre, racconta ma senza il voler dare risposte, sembra più uno sfogo personale, un bisogno di disegnare senza ricerca di spiegazioni?
Per come la vedo io è addirittura ostile nei confronti di chi legge. O almeno lo è nella prima parte. E’ una cosa voluta, o almeno tentata. Volevo che la lettura non fosse facile, non fosse gratificante e non fosse compiacente. Volevo che i lettori dovessero fare uno sforzo, anche se minimo, per proseguire nella lettura, immaginando che questo potesse metterli in una condizione di predisposizione particolare, per poi prendersi la seconda parte, e abbandonarsi, come spero che accada.
Dopo S, anche in Unastoria emerge l’importanza, il peso del rapporto con il passato della propria famiglia, diretto (col padre) o più labile (un antenato), ma sempre caratterizzato da un legame particolare, forte. Un elemento che sembra inoltre collegarsi a una sorta di fascinazione della guerra come elemento narrativo.
Il racconto di guerra fa parte della mia famiglia. E’ sulle storie di guerra raccontate da mio padre che ho sviluppato buona parte della mia fantasia. Quelle erano le storie in casa. Inoltre, sono sempre stati quei racconti, un metro di paragone tra la vita mia e quella di mio padre. Paragone dal quale uscivo sempre con le ossa rotte. Nessuna delle mie esperienze, per quante ne abbia combinate parecchie, era paragonabile alle sue avventure di gioventù. Credo che questa sensazione d’inferiorità mi sia rimasta addosso e che, nel racconto, quando devo mettere alla prova un uomo, scelgo le situazioni con le quali si è misurato mio padre. Non ho una fascinazione verso la guerra, piuttosto il contrario, ma sicuramente sono incuriosito dall’idea del misurare noi stessi, del confrontarsi con situazioni estreme, per sapere di che cosa si è fatti.
Quali sono le più grandi differenze e limitazioni nel dover raccontare attraverso il mezzo cinematografico, anziché sulle tavole dove, volendo, tutto è possibile?
La libertà innanzitutto. Nel cinema ogni gesto, ogni scelta, ogni movimento è una spesa. Quindi per essere liberi devi lavorare in un cinema molto ricco, che non è quello dove ho potuto lavorare io. Nel fumetto non esiste (almeno nel mio) la componente economica e ogni scelta è solo una questione di volontà. Nel fumetto si può essere veramente liberi, indipendentemente dai soldi.
Mi è capitato di leggere sulla tua pagina Facebook e sul tuo Blog lo scritto “Ho visto un gatto morto”, dove racconti di un incidente stradale di qui sei stato testimone in gioventù. Hai uno stile di scrittura molto incisivo e descrittivo capace di focalizzare la scena. Hai mai pensato di dedicarti alla scrittura?
Sì e no. L’ho fatto varie volte. Ho ricevuto numerose offerte di pubblicazione per quello che gli editori di varia hanno voluto definire “un libro vero”. Insomma, un libro senza disegni. Ho sempre rifiutato all’ultimo momento. C’è qualcosa che mi lega al racconto a fumetti, anche contro la mia volontà e che m’impedisce di fare il furbo e cadere nella trappola del dire “sono uno scrittore”. E poi sono troppo ignorante. Sono a posto come fumettista, la mia conoscenza del disegno compensa la mia ignoranza, ma come scrittore sarei veramente una capra.
Poco tempo fa Franco Busatta ha parlato di un tuo possibile futuro coinvolgimento con Dylan Dog. Cosa ci puoi rivelare di questa notizia.
E’ una cosa della quale abbiamo parlato con Roberto Recchioni. Voglio molto bene a Roberto e così abbiamo discusso di questa possibilità. Al momento non c’è niente di reale in cantiere perché mi sento inadeguato nei confronti del personaggio. Non l’ho mai seguito, non lo conosco e sono abituato a lavorare su registri diversi. insomma non credo che potrei rendergli un buon servizio. ma vedremo.
Che cosa puoi dirci di “Ricerca di base”, di cui si sono già viste alcune pagine sul tuo Blog? Sempre per “Ricerca di base“, s’intuisce da alcune dichiarazioni e anteprime, che stai iniziando a letterare le sue storie con un font, non più con parole scritte a penna. In che modo questo influirà, a suo parere, nel risultato finale?
Non so niente di “Ricerca di base“. Credevo che fosse la storia nuova, ma poi ho ripreso “La Terra dei figli” (il progetto precedente) e adesso mi sembra giusto continuare quella. Ma conosco questa condizione, è tipica del post pubblicazione di un libro. Si chiama “non ce sto ancora a capì un cazzo” e quindi, davvero, non so quale sarà la mia nuova storia.
Che cosa farà Gipi da grande?
Il vecchio che disegna e racconta, se ci arrivo. Più avanti, il cadavere, immagino.
[Rido e pure forte a quest’ultima risposta e mi viene in mente una scena de “La Mia Vita Disegnata Male” che posto qui sotto]
Grazie per essere stato con noi Gianni. Buon lavoro e speriamo di risentirci presto.
Gipi su Lo Spazio Bianco:
debris65
19 Marzo 2014 a 16:42
Ricorda Ligabue. Gipi talora nella sua onesta mi ricorda Ligabue. ( scusatemi ma il pensiero mi è venuto all’improvviso) Non ci azzecca nulla con quel che è scritto ( e mi scuso con il redattore) ma parecchio sul come “sento” questo autore.Un’impressione istantanea.
la redazione
25 Marzo 2014 a 08:11
Proporremo un team-up! ;)
pè
23 Marzo 2014 a 08:41
Questa intervista è bella.
“Non è come andare a svuotare i cessi chimici al concerto dei Cani”, rende bene la misura tra disperazione e tormento.
Ora non posso più tergiversare: corro in libreria a prendere il libro.
la redazione
25 Marzo 2014 a 08:09
Ci fa piacere che l’intervista ti abbia definitivamente convinto :)
Facci sapere post-lettura cosa ne pensi!