Giunta alla sesta edizione, Prato Comics + Play si presenta come un evento ricco e pieno di ospiti. L’edizione di quest’anno, prevista per il 19 e 20 maggio e organizzata dall’Associazione Culturale Più Prato con il contributo del Comune di Prato e di Officina Giovani, presenta come tema la scienza “di frontiera” appoggiandosi al bicentenario della prima edizione del Frankenstein di Mary Shelley.
Tra gli ospiti abbiamo intervistato Ausonia, presente con una mostra personale e autore del manifesto.
Prato Comics + Play 2018 celebra il duecentenario del Frankenstein di Mary Shelley, ormai uno degli archetipi dell’immaginario moderno. Hai un ricordo particolare che ti lega al romanzo (o al personaggio)?
Ho amato molto la versione della creatura del Dottor Frankenstein in Penny Dreadful. Un cadavere tornato in vita davvero struggente.
Uno dei temi principali dell’opera della Shelley è quello della scienza e dei suoi limiti, dell’ambizione umana di farsi creatrice e ambire al divino. Ma parlando di scienza vien pure da pensare a come questa sia vissuta oggi, a come venga anche messa in dubbio. Ricordo una tua opera, PHPC, in cui racconti della progressiva trasformazione dell’uomo in macchina, della sua disumanizzazione. Che rapporto hai con la scienza e con la tecnologia?
Da ignorante. Mi affido totalmente ai medici quando ne ho bisogno. Come ci si affida al pilota di un aereo quando si prende un volo. Da bravo ipocondriaco cerco sempre un secondo o terzo parere, ma di fatto poi finisco per fare quello che mi dicono. E questo, di base, è il mio atteggiamento rispetto a tutte le cose che non conosco, sulle quali non so e non posso controbattere: mi affido a chi ne sa molto più di me. Ho molto rispetto per chi può insegnarmi qualcosa.
Narrativamente, quali sono gli spunti che reputi più interessanti sull’argomento?
La fantascienza non è buona, per me, se non indaga sull’uomo, sulle relazioni, sui massimi sistemi. Non sono un fan di Star Wars. Non mi interessano i film di cappa e spada. È strano, quando a vent’anni dicevo di amare Philip K. Dick mi rispondevano: “Chi?”. Adesso è uno dei nomi più mainstream in circolazione e ne sono molto felice.
A Prato sarai protagonista di una mostra retrospettiva. Come sono state scelte le tavole esposte, quale percorso ti interessava sottolineare?
Non si tratta di una retrospettiva. Purtroppo gli originali o li vendo o li distruggo. Non potranno mai fare una mostra che sia una retrospettiva sul mio lavoro (ride). Abbiamo esposto le poche cose che ho ancora, una trentina di originali di ABC e le stampe delle illustrazioni che realizzo in digitale.
Sfogliando i tuoi disegni (o foto) a distanza di anni, riesci a guardarli con distacco e che cosa ti colpisce maggiormente?
Il distacco avviene subito. Finita la fase creativa, che poi è la sola cosa che mi interessa nella realizzazione di un libro, finisco per dimenticarmi del progetto. A quel punto non mi sembrano neanche più libri miei.
La cosa però che mi colpisce sempre, quando sfoglio i miei libri, è la mole di lavoro che contengono. È impressionante la quantità di cose che ci sono in quelle pagine. Finisco per chiedermi come abbia potuto fare tutto da solo.
Mi viene da dire che, almeno rispetto al fumetto, non vivi una particolare esigenza di creazione, una volontà di apparire. Anzi, l’impressione è di un rapporto complesso con il fare fumetti. Vuoi parlarne?
L’esigenza della creazione c’è nel momento in cui ho un progetto che sento importante, ma se quel progetto non c’è, evito di inventarmene uno su due piedi giusto per tenermi impegnato o avere qualcosa da mostrare su Facebook. Impiego molti anni per realizzare i miei libri, quindi un osservatore esterno è libero di pensare che in quel momento io sia inattivo. Ma lavoro molto. È che ho bisogno di molto tempo.
So che stai preparando una nuova storia per Dylan Dog e una riedizione di Interni. A che punto sono questi due progetti e cosa altro dobbiamo aspettarci di leggere di tuo prossimamente?
Il Dylan è quasi a metà. Sarà una storia di 192 pagine a colori… è un’impresa titanica, per me. Ma mi piace come sta venendo, mi piace molto la storia che ho scritto, è inusuale per quel personaggio e allo stesso tempo mi sembra una storia di Dylan Dog al 200%.
L’omnibus di Interni sarà pronto per Lucca. Sono felice che torni in libreria, detesto questa cosa che i libri debbano avere una vita così breve, commercialmente parlando.
Per il resto… negli ultimi quattro anni ho scritto una storia che mi ha coinvolto profondamente e finalmente sembra aver trovato un grosso editore. È un progetto produttivamente molto ambizioso, aveva bisogno di un editore coraggioso e che amasse l’idea di spenderci sopra parecchi soldi. Finalmente sembra arrivato.
Intervista condotta online a maggio 2018.