Figli
“Ma dopo la fine nessun libro venne scritto più.”
Si conclude così l’incipit della nuova opera di Gipi, La terra dei figli, edita da Coconino Press.
Il volume si presenta già nelle prime parole, così come nella forma, monolitico e spesso. Integerrimo. Senz’appello. La storia diretta e cruda del nostro mondo dopo la catastrofe, vissuta attraverso gli occhi e le avventure di due bambini, ci viene portata da Gipi senza la sua tipica voce fuori campo e senza i suoi straordinari acquerelli.
Si tratta infatti di quasi 300 pagine di fumetto interamente in bianco e nero (pennino e china), con dialoghi brevi e asciutti, racchiuse in una copertina nero carbone illuminata al centro da un grosso squarcio circolare bianco che contiene il titolo: La terra dei figli, appunto.
Un buco nel monolite. Il gorgo di luce spietata, simile al sole nel deserto, che rende ancora più compatto l’aspetto esteriore del libro e che ben riflette quel che il lettore troverà all’interno.
La terra dei figli, guardando all’intera opera di Gipi, assomiglia ad nuovo inizio, sia per le novità dal punto di vista del disegno e della scrittura, sia per l’inaspettata specularità rispetto ai primi lavori dell’autore pisano, in particolare Appunti per una storia di guerra. Quest’ultimo (vincitore nel 2006 del premio come miglior libro ad Angoulême) racconta di tre ragazzi scappati di casa in un’immaginaria zona di guerra, coinvolti in pericolosi traffici da un balordo che i tre adottano come figura paterna. Giuliano (l’alter ego di Gipi) sarà l’unico a salvarsi e a tornare alla vita normale e alla sua famiglia, mentre gli altri due, il Killerino e Christian, scompariranno nel ventre del conflitto.
Ne La terra dei figli Gipi torna nuovamente a parlare di ragazzi dispersi in un mondo distopico ma questa volta solo di due, Lino e Santo, che ricordano il Killerino e Christian, mentre di un corrispettivo di Giuliano non c’è traccia. Al suo posto troviamo invece un Padre duro e autoritario, a cui i ragazzi danno del lei come si faceva un tempo e che potrebbe ben rappresentare lo spirito dell’autore e la sua visione (come si evince da alcune sue recenti interviste, fra cui anche questa per Lo Spazio Bianco).
Padre
Lino: Possiamo usare le belle trippe del cane.
Padre: Per cosa?
Lino: Per i pesci. I pesci amano le trippe.
Padre: Le amano?
Lino: No?
Padre: Se ridici quella parola ti spacco il remo sulla testa.
I tempi e modi della vita (e della narrazione) sono profondamente cambiati: non c’è più tempo per le dissertazioni intimiste, non c’è più spazio per i colori ad acqua delle emozioni. La vita nella terra dei figli si svolge su di un immenso lago immerso nel nulla, la sola cosa che importa è mangiare e ripararsi, sopravvivere – e il solo modo per descrivere tutto questo è allora un segno grezzo e compatto come fosse inciso nel legno – pennino e china come dicevamo, grandi spazi bianchi dai quali sorge ogni tanto una linea, un corpo, una baracca.
Siamo in un mondo distrutto, scarno, umido e ostile, con poca vegetazione, poche forme di vita e senza nessun tipo di società. Qui, in questa terra che Gipi prevede e immagina “dei figli”, per quel che ci è dato sapere le genti vivono isolate in ristretti nuclei familiari (quando esistono) se non in solitudine.
Molti più uomini che donne ci vengono mostrati dall’autore, concedendo al sesso femminile solo tre ruoli, quelli di una schiava e di due “streghe” (l’una vecchia e viscida, l’altra archetipo della madre e pietra angolare dell’intero racconto). Gli uomini invece, Padre e due figli a parte, sono per la maggior parte deviati o pazzi, fagocitati dalla nuova sostanza della vita in cui si trovano loro malgrado.
L’unico personaggio maschile che pare attuare un comportamento costruttivo e fertile (anche se rassegnato), sia per lui che per i due figli, è per l’appunto il Padre. Il suo scopo è quello di allevare i due giovani alla sopravvivenza nel nuovo mondo, omettendo completamente il racconto di ciò che era prima e educandoli all’assenza di sentimento.
Unica “debolezza” che lo stanco uomo si concede è il tenere un diario, vera e propria Bibbia del mondo nuovo e motore dell’intera avventura che coinvolgerà i due ragazzi durante tutto il libro. Le parole di quel diario, che i due bambini non sanno leggere né interpretare, il loro significato e la loro rappresentazione, prendono fisicamente il possesso del fumetto nella parte centrale, dove Gipi illustra, per ben dieci pagine, una scrittura illeggibile, un libro che nessuno può decifrare, facendo intendere che il suo fumetto e il diario del padre sono forse la stessa cosa e producendo un’ immediata e forzata immedesimazione del lettore con i due protagonisti .
Madre
“Ma io con loro cosa dovrei fare? Dirgli che un tempo i cani stavano sui tappeti accanto ai divani, in case calde, asciutte e che invece di mangiarli gli facevamo le carezze?”
Le mani dunque sembrano essere il minimo comune denominatore dell’opera. Mani che disegnano, mani che scrivono, che scavano, tagliano, remano, picchiano, bastonano, squartano. Mani che raccolgono funghi. Mani che sfogliano pagine. Mani, infine, che carezzano.
Se unastoria poteva sembrare una poesia, o meglio un poemetto, per il tipo di scrittura e di segno altamente lirici che Gipi aveva impiegato, La terra dei figli potrebbe forse ricordare, per la perfetta e spietata ellissi narrativa, un enunciato filosofico. Un teorema.
Il gesto finale, predefinito e immutabile, che racchiude l’intera vicenda (messo letteralmente fra le mani di una donna), scopre le carte e inserisce il libro nel grande filone del romanzo di formazione, svelando Gipi come narratore universale, anche al di là del racconto del suo intimo e della quotidianità contemporanea.
Il passaggio dalla sua vita (passata) disegnata male alla nostra vita (futura, possibile, distopica) disegnata bene è stato evidentemente duro e tribolato (come dimostra la firma in calce a unastoria, suo lavoro precedente, che proponeva come periodo di lavorazione dell’opera il tempo intercorso fra la nascita di Gipi, il 1963, e il 2013, ovvero la fine di quel romanzo, la sua “morte”), ha visto l’autore cambiare vita, sposarsi e scoprire (per sua stessa ammissione) una serenità dentro di sé mai sperimentata prima.
Serenità e condizione di vita che hanno avuto, grazie all’immediatezza e all’assenza di filtri che caratterizzano la sua espressione artistica, un istantaneo riscontro nella sua produzione, prima con la creazione del gioco di ruolo Bruti e poi con questo La terra dei figli. La nuova terra di Gipi, si potrebbe azzardare.
Il mondo da sempre inseguito nei suoi lavori precedenti, la narrazione mitica e romantica delle vite dei suoi avi, della sua famiglia, dei suoi amici e delle genti della provincia toscana che lo ha visto crescere, sta ora prendendo una sua forma reale in questi nuovi racconti di fiction, imbevuti di quel passato, ma indipendenti, reali per loro stessa realtà, in un perfetto stile da racconto d’avventura.
Dal flusso confuso, dolorante e creativo dei pensieri (ben espresso nella dicotomia estrema fra i magnifici acquerelli e gli schizzi abbozzati che scandivano puntualmente i suoi lavori precedenti) si è ora arrivati alla carnalità spessa e concreta delle mani, al segno unico e quasi classico in bianco e nero di quest’ultima narrazione.
Gipi è senza dubbio uno dei migliori autori del panorama mondiale. Un uomo, prima che un artista, in costante ricerca che, fortunatamente per chi segue il suo lavoro, sa tradurre questa sua tensione in fumetti potenti e di rara profondità.
Abbiamo parlato di:
La terra dei figli
Gipi
Coconino Press, 2016
288 pagine, cartonato, bianco e nero – 19,50 €
ISSN 9788876183256