Le falene di MP5

Le falene di MP5

Alla scoperta di un'artista. Una conversazione con MP5 sul suo ultimo libro Palindromi, sui suoi murales e sulla collaborazione con il Male di Vauro e Vincino.

Scenografa, graffitista, illustratrice e fumettista, MP5 ha studiato scenografia a Bologna e animazione in stop-motion alla Wimbledon School of Art di Londra. Nel 2003 ha iniziato a fare lavori d’arte pubblica, trasferendosi prima in Francia, e poi viaggiando in Italia ed Europa. Nel 2011 ha vinto il premio Micheluzzi del Napoli Comicon come miglior disegnatrice per “Acqua Storta” (Meridiano zero). “Palindromi” è il suo ultimo libro (Grrrzetic edizioni). Vive a Roma, dove lavora come illustratrice, graffitista e fumettista.

Vorrei partire da Palindromi. Raccontami come è nato il libro.
Ne ho scritto a lungo anche su un articolo apparso un paio di mesi fa su Players magazine. La verità è che dopo Acqua Storta e il premio come miglior disegnatrice al Napoli Comicon 2011, mi sono arrivate un po’ di offerte per fare libri. E volevano tutti dei romanzi grafici sullo stile di Acqua Storta ovviamente. Io, però, avevo fino a quel momento sempre disegnato storie brevi a fumetti e in maniera molto discontinua.
In questi anni poi ho fatto  molti murales, grafica, installazioni.
Acqua Storta
era stato un lavoro lungo e pesante.

Quanto tempo avete lavorato su Acqua Storta, tu e lo sceneggiatore Valerio Bindi?
Ci ho lavorato in maniera molto discontinua. La partenza è stata nell’inverno del 2008 e tutto era finito nel febbraio 2010. Con Valerio abbiamo lavorato molto, prima di partire per il lavoro effettivo, per capire come far diventare quella storia nostra. Alla fine quando fai una riduzione a fumetti di un libro di cento e più pagine, devi per forza tagliare, far emergere cose rispetto ad altre e allora devi rendere tua la storia, altrimenti fai un Bignami.

Immagino che sia un lavoro di equilibrio: devi rendere riconoscibile quella storia, ma nel frattempo adattarla a fumetti, in modo magari che non sia solo un esercizio di traduzione in un altro linguaggio…
…sì, ma soprattutto, immagina come sarebbe lavorare un anno e più a una cosa che non senti tua… mentre io ci sono entrata dentro tantissimo. Alla fine del libro pensare di non vedere più le facce di Giovanni e Salvatore, i protagonisti, mi sembrava strano. Ancora adesso mi capita di ridisegnarli in contesti in cui non c’entrano nulla.E insomma, con Acqua Storta hai vinto al Comicon e la cosa ovviamente ti ha dato più visibilità…
Un po’ di più sì. Sono anni che faccio cose, ma non so… forse in quel momento sono coincise altre cose che stavano andando e le richieste sono aumentate. La verità, però, è che preferisco proporli io i progetti: su tante proposte, ce ne sono poche alla fine che mi va di fare sul serio

Scegli di pancia?
Per quanto riguarda i libri a fumetti in particolare sì. Fare un libro a fumetti è un impegno che ti prende tempo ed energie con un riscontro economico nullo. Che senso ha farli se non ne hai veramente voglia?
E comunque io dopo Acqua Storta non avevo la minima voglia di ributtarmi in un libro a fumetti. In quel periodo facevo molti murales e illustrazioni e non volevo sentirmi ingabbiata.
Per questo ho ricontattato Silvana Ghersetti di Grrrzetic che da anni mi proponeva di fare un libro assieme. Ho pensato che fosse l’unica persona con cui potevo lavorare in quel momento perché sapevo che mi avrebbe dato carta bianca, che non mi avrebbe chiesto un tot di pagine, un tipo di storia e non avrebbe interferito troppo nel mio lavoro. Le sono sempre piaciute tantissimo le mie cose, mi ha seguita negli anni ed era abbastanza matta da accettare un progetto come Palindromi che era assolutamente kamikaze.

Quindi quando gliel’hai proposto avevi già un’idea chiara di quello che sarebbe diventato o il progetto si è precisato col tempo?
No, in realtà sapevo solo di voler fare un’opera grafica, non sapevo se avrei inserito testi o meno, era tutto un work in progress. Avevo solo chiaro il mood che volevo esprimere, e poi c’erano delle immagini, delle situazioni che volevo inserire in un libro, ma non sapevo come… non sapevo nulla. Tutto quello che avevo erano degli schizzi.

Nell’articolo su Players Magazine, racconti che l’immagine di partenza è stata quella delle due ragazze di spalle sui binari che poi è diventata la copertina.
Sì, in pratica, a forza di pensare, leggere e ragionare ero arrivata a luglio 2011 che non avevo ancora messo nulla su carta… Silvana mi diceva di star tranquilla, di dirle se non ci riuscivo per Lucca Comics che avrebbe inserito qualcos’altro al posto mio, ma io penso che i progetti abbiano un loro tempo: alcune volte è un errore dargliene troppo, si esauriscono e tu ti dimentichi perfino perché hai iniziato a lavorarci. Può essere pericoloso. Insomma, mi sono intestardita che l’avrei fatto uscire per ottobre e alla fine con Silvana mi sono sentita il giorno stesso della chiusura delle iscrizioni per i libri presentati a Lucca. Avevo lavorato a quella copertina per ventiquattr’ore di seguito e gliel’ho mandata alle sette del mattino fingendo di essermi appena svegliata… lei l’ha capito mi sa…
Ha letto anche una bozza di presentazione, ma soprattutto ha visto quell’immagine e ha detto: “fino ad adesso non ero sicura, ma questa roba è bellissima e non vedo l’ora di vedere come andrà a finire”. Mi ha dato fiducia… lei è una grande, va di pancia anche lei, con Silvana è come con un’amica: abbiamo tutte e due un attitudine punk.

Il titolo del libro c’era già o è venuto dopo?
C’era già da anni. Avevo già chiamato altri miei lavori Palindromi per tante ragioni. Soprattutto mi piace lavorare a disegni che abbiano più chiavi di lettura…

In modo che siano anche letture contrastanti, no? Cioè, la lettura di un palindromo, in un senso o in un altro, dà sempre la stessa “soluzione”, invece i tuoi disegni per Palindromi giocano anche sui contrari, giusto?
Sì, assolutamente. è stato questo lo scarto tra le mie vecchie illustrazioni e il libro intero. Le immagini da sole potrebbero essere lette in un modo ma anche nel suo contrario, ma l’intero libro è costruito in maniera che sia veramente palindromo: puoi iniziare dalla fine o dall’inizio, il senso sarà sempre lo stesso, non c’è una via di uscita…

Su Palindromi, tu lasci sempre molto aperta l’interpretazione alla sensibilità del lettore, ma io mi chiedevo se mentre lavoravi avevi in mente una storia precisa o un filo conduttore ulteriore oltre al concetto di palindromo.
Palindromi
ha una storia, sì, anche se non sembrerebbe e io quei personaggi li conosco bene, li so tutti per nome. Io, però, ho una mia lettura della storia e altri la leggeranno in maniera diversa, come nella vita.
Non mi piace raccontare la mia storia di Palindromi, preferisco sentire quelle degli altri. Durante le presentazioni, molte persone intervengono raccontandomi la loro visione della storia e sento cose che non avrei mai nemmeno immaginato. A Roma è successa questa cosa divertente, è breve te la racconto…
Di solito faccio girare Palindromi assieme a un’installazione We are all made of moppets dove stampo i personaggi di Palindromi in grande e li attacco alle pareti del posto che mi ospita. Li attacco alle pareti in maniera del tutto causale e ridisegno tutto il background con il pennello direttamente sul muro, poi illumino tutto con il Wood e proietto animazioni dei personaggi che si trasformano di volta in volta in cose diverse, una trasformazione continua per confondere ulteriormente.
Insomma, ne ho fatta una al Fanfulla di Roma e alla fine il murales è rimasto lì, non l’hanno coperto. Qualche giorno fa incontro uno dei ragazzi del posto che mi dice che delle signore avevano una riunione nella sala e avevano accolto male il mio murales. Avevano detto che era chiaro che fosse un lavoro fatto da un maschio misogino.

Avevano spiegato perché?
Per via del caprone che fa la cavallina sulla ragazza e della bambina con l’uomo bottiglia. Comunque loro gli hanno spiegato che ero una donna e loro: “maschilista”, e i miei amici: “no, pure femminista”… Insomma alla fine le signore hanno detto: “beh, dipende sempre che tipo di femministe”.
A me va benone, comunque, mi fa ridere moltissimo. Nessuno è obbligato a guardare se non vuole guardare

È un lavoro violento, mi pare: i soldati, il caprone, il rapporto tra i sessi in generale… c’è molta solitudine anche, come dice la frase di Debord con cui è stato presentato da Grrrzetic: “Tutto ciò che agisce è crudeltà. Il mondo è una moltitudine di solitudini, in cui tutti sono separati tra loro a causa della mancanza di un linguaggio che permetta di comunicare”. Hai letto Debord mentre lavoravi?
No, non volevo farmi influenzare, ma Palindromi è pieno di riferimenti: c’è Debord, sì, c’è Artaud, c’è Tod Solondz. Insomma, ho letto e guardato cose prima di iniziare il lavoro, ma non durante.
Comunque, non lo so, dicono tutti che è un lavoro violento, ma mi sembra esagerato…

Non era questo che volevi far passare?
Non volevo fare un lavoro violento, volevo fare qualcosa di rassicurante.

In che senso?
Vedi, c’è sempre una doppia chiave di lettura… Pensa all’uomo dei polli: ama le sue galline ma le deve uccidere per amarle, perché gli danno la sussistenza. Da una parte coccola la gallina e la tiene in braccio come fosse un cucciolo, dall’altra ne ha una appena sgozzata in mano. Io però non trovo questa cosa inquietante, ma realistico, e commovente perfino.

La coesistenza degli opposti nell’essere umano e nella vita in genere, no? Del resto non si può raccontare bene l’umano se non racconti anche il suo lato negativo.
Però io non parlerei di negativo o positivo, perché non te li saprei definire. Sono i forti contrasti propri della vita, ci sono cose che mi commuovono, altre che mi fanno orrore.

Le farfalle, o meglio le falene, di cosa sono simbolo?
Sono l’elemento più chiaramente simbolico del libro: richiamano “In girum imus nocte et cosumimur igni” (andiamo in giro di notte e siamo consumati dal fuoco), il palindromo latino che Debord riprese in un film. Le falene sono anche l’anello di congiunzione delle due parti del libro, la parte frontale in nero e quella in bianco, la zona in cui le due storie si incontrano… sono anche il simbolo dell’intero libro, però.

Due storie, quindi, che si incontrano a metà e si riflettono l’una nell’altra, congiunte dalle falene…
C’è anche un giochino interno, fatto appositamente. Le illustrazioni possono essere lette singolarmente, quando sfogli il libro, ma se tu lo apri, per esempio, su 3 pagine scopri sensi continuamente diversi e interazioni diverse tra i personaggi. Secondo te, l’uomo col fucile a chi sta sparando?Al bimbo, ma se seguo il tuo discorso sulle tre pagine spara alla ragazza bionda…
O ancora, potrebbe sparare alle falene ammazzandole prima che si brucino loro stesse alla lanterna.

E queste cose ti erano chiare mentre disegnavi? Voglio dire, erano parte di una strutturazione originaria del tuo lavoro o ti sono diventate chiare dopo? O ancora le hai sistemate col tempo?
Ci ho lavorato in più fasi, sistemandole col tempo. C’erano immagini che volevo assolutamente mettere, poi però gli spostavo continuamente posto, perché non mi piaceva come interagivano con i personaggi successivi. Tu immagina di avere vari attori su un palco… in Palidromi è così, sono tutti sul palcoscenico, immobili, congelati in un attimo preciso… Tu lettore hai diverse possibilità per leggere le loro azioni o le loro facce: puoi iniziare il libro e leggerlo come un libro illustrato oppure aprirlo tutto, io però devo tener conto di tutte le tue possibili letture, che devono comunque funzionare. È stata la parte più difficile, sono impazzita…

Mi pare che il tuo lavoro di artista di murales sia molto presente in Palindromi, proprio per questo di cui mi stai dicendo: interazione dei personaggi in punti diversi dello spazio che possono essere presi in considerazione come totalità ma anche come singoli…
Sì, ecco questa cosa di lasciare l’interpretazione aperta al lettore viene proprio dai murales. Quando faccio dei murales non ho assolutamente voglia di lasciare un messaggio preciso su un muro, in maniera che tutti quelli che ci passano davanti ogni giorno se lo debbano ricordare. Preferisco lavorare sull’atmosfera, su situazioni rarefatte. Anche per questo disegno spesso questi pupini senza faccia ma solo con due puntini al posto degli occhi, aiuta maggiormente il processo di identificazione. Ecco alla fine ritorniamo sempre allo stesso punto: voglio lasciare le immagini “aperte” alla gente, voglio che si facciano il loro viaggio. Io me lo faccio mentre disegno… immagina se disegnassi un personaggio molto definito su un muro, con le sue rughe, i suoi baffi…

Il tuo timore è che le persone che ci passano davanti potrebbero dire “quello non sono io”?
Sì, o anche “quello non è proprio lui” o “quello non è chissà chi o cosa mi fa pensare”. Voglio che il fruitore faccia la sua parte dell’opera, mi viene sempre in menta Mc Luhan…

Quindi Palindromi è molto più vicino ai tuoi murales di Acqua Storta o degli altri fumetti brevi che hai fatto?
Sì, assolutamente, però dopo Palindromi mi è successa questa cosa: ho iniziato a mischiare tutto insieme: fumetto, murales, grafica. Non so bene dove sto andando, ma vedo delle cose di Acqua Storta nei miei nuovi murales; sto disegnando meno pupazzi, sto provando a fare con personaggi veri lo stesso discorso di identificazione tra fruitore e disegno, che ti dicevo; sto iniziando a disegnare murales con personaggi e azioni piu definite di prima, più da “fumetto“ se vogliamo, allo stesso tempo cerco di non perdere l’idea, che è anche di Palindromi, di lasciare tante chiavi di lettura aperte.

E le persone che li guardano come reagiscono a questo tuo cambio di rotta?
Mi hanno detto: “Ah, che fico! basta con sti pupini! Ahaha!”. Ecco, quest’ultimo del Pigneto di Roma (www.facebook.com/events/117463811719218) è stato un lavoro strano sia come modalità di lavoro che come resa finale. Sto iniziando già da un po’ a non fare più progetti: prima mi disegnavo degli schizzi, dei progettini per i murales che dovevo fare, facevo la bozza sul muro a volte. Invece qui nulla! Sono arrivata a tre giorni prima della mostra senza sapere che fare, poi ho guardato lo spazio e ho iniziato a disegnare il primo personaggio direttamente sul muro. Da lì ho iniziato costruire una storia che ha avuto un suo senso solo alla fine di tutto. Un po’ come Palindromi a livello di metodo, ma per resa grafica più vicino ad Acqua Storta.

Sarà una forma di evoluzione tua :) Magari ti fidi di più di te stessa: non senti il bisogno di prendere appunti e strutturare a priori…
Forse, ma più che altro, sono interessata al processo, cosa che prima non era tra le mie priorità. Non la vedere come una cosa troppo intellettuale, però… semplicemente mi diverto di più e cerco di arrivare oltre i miei limiti.

Mi parli un po’ del tuo lavoro per Il Male di Vauro e Vincino, invece? Com’è nata la collaborazione?
Cercavano disegnatori per la rivista che usciva di lì a poco. Un mio amico mi ha detto di mandare qualcosa, io non avevo mai lavorato nel settore della satira e ho chiesto al mio amico “mai ne sei sicuro? Non credo che le mie immagini facciano ridere!”. Lui mi ha detto “senti, seleziona quattro delle cose che vuoi e manda ora. è una cosa di cinque minuti e bona lì”. Ho fatto un pdf di pochissime immagini, tra queste ce n’era una di un signore che tiene sulle spalle una bambina che cola sangue dalle cosce. Mi hanno chiamata per chiedermi se potevano pubblicarla, gli era piaciuta molto. Per me andava bene, era un’immagine già fatta, mi piaceva, ero contenta di farla girare, me l’hanno pagata e tutti contenti… Poi però hanno iniziato a chiedermi cose nuove e a questo non ero preparata. Pensavo fosse finita lì, sai del tipo: “fica! La posso pubblicare? Ah, sì, prego, grazie, ciao!”.

E invece hanno iniziato a chiederti se avevi altro? O piuttosto di fare qualcosa di specifico per Il Male?
Eh, sì. I primi mesi ho mandato pochissime cose. L’ansia delle consegne ogni settimana… poi ero sempre in viaggio… era difficile. Poi non ero abituata a dover fare cose che “stessero sul pezzo” dell’attualità politica… Loro mi dicevano solo: “Manda! Ci piacciono le tue cose!”, però il Male è un giornale di satira di attualità politica e io ci ho messo un po’ a capire quale fosse la mia collocazione, mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Ora ho capito che questa è un’altra cosa, ma sono sempre io e non devo “trovare una collocazione”. Le mie cose saranno sempre diverse. Insomma io faccio il mio e non mi interessa dover giustificare se sia di satira o meno, faccio le mie immagini, le mie storie… ci sono alcuni che le seguono e che mi scrivono anche e se non interessa a loro che sia satira o meno, figurati…

Gipi nella sua intervista del 2008 alle Invasioni Barbariche dice che ha smesso di fare satira quando si è reso conto che era entrato in un circolo vizioso per cui non rifletteva più su quello che stava disegnando e scrivendo.
Ahah, sì, capisco. Ecco è stato il mio cruccio iniziale: non mi interessava fare satira e questa cosa mi bloccava dal fare lavori nuovi per il giornale. A me ha fatto un po’ paura tutto questo DOVER fare satira, l’interrogarmi su cosa fosse la satira… ecco non me ne frega niente ora! Faccio in totale libertà i miei lavori per il Male: a volte chiedo loro se c’è qualcosa su cui potrei lavorare; a volte c’è una notizia che mi colpisce e magari ci faccio un fumetto che non ha niente a che vedere con la notizia… Vado sempre in direzioni strane, ma loro della redazione sono contenti. Al momento mi piace, mi obbliga a pensare di continuo, a tirar fuori qualcosa ogni settimana.

Perché altrimenti rischieresti di non lavorare, se non avessi una scadenza? Sei fatta così?
Beh, che il lavoro sia finalizzato a pubblicazioni in tempi brevi è sicuramente una cosa nuova. Sono abituata a fare illustrazioni per riviste ma non a pubblicare regolarmente storie. Lavorerei comunque ma non così. Così sono obbligata a sedermi a un tavolo e a tirare fuori idee in poco tempo, cosa assolutamente buona e sana per il cervello…
Sai cosa dice Woody Allen? Che lui va in studio alle 8 del mattino ed esce alle 18 e magari per tutto il giorno non ha fatto niente ma ha lavorato. Ecco… è questo più o meno. Quando fai questo lavoro, nessuno ti dà tempi. Ok, ci sono i tempi di consegne, però te lo devi dare tu un metodo: svegliarti a quell’ora e andare a dormire a quell’altra, perché sei tu che lo decidi. E in genere non esiste un lavoro settimanale, sono sempre cose diverse, in tempi assurdi o superdilatati o super accorciati: un murales in un giorno o un libro in due anni.

Prima di chiudere, vorrei chiederti anche del tuo lavoro su psicofarmaci e psichiatria: ci stai lavorando ancora o cade un po’ nel discorso che facevi prima sui progetti che hanno un tempo preciso per svilupparsi?
Era l’esempio che ti facevo per cui volevo assolutamente che Palindromi finisse a ottobre. Quello sulla psichiatria è stato un lavoro maledetto, mi ha preso anni. Alla fine ne avevo fatte ottanta pagine, sceneggiate assieme a Valerio Bindi (è così che ci siamo conosciuti). Volevo scrivere la sceneggiatura con qualcuno e ho iniziato a scrivere questo libro che era un progetto ancora più ampio che poi si è risolto in un libretto che era solo una bozza di un libro più grande. L’ho stoppato perché ci ho pensato troppo, l’ho lasciato, ci sono ritornata, l’ho rilasciato, ci ho ripensato…
A volte penso che il libro sia tutto in quel libretto di poche pagine stampato in poche copie che quasi nessuno ha visto. Pensa che c’era anche un sito e avevo avuto i finanziamenti dalla comunità europea. Era un progetto serio, ci ho investito energie viaggi incontri ho frequentato i gruppi del telefono viola contro l’abuso psichiatrico, ma dopo un po’… sai non ho più capito cosa stavo facendo. Avrei voluto fare un libro di finzione, invece ero entrata nella realtà più reale del reale, stavo facendo un documentario, avevo raccolto informazioni anche più grandi di quelle che mi aspettavo.
Ho capito tante cose e le ho già abbondantemente rielaborate in altro. Penso che anche in Palindromi ci sia qualcosa di quel lavoro.

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