Esternare arte: intervista a Gipi (seconda parte)

Esternare arte: intervista a Gipi (seconda parte)

Un fiume di parole sono le risposte che abbiamo avuto da Gipi, autore di Esterno notte (Coconino press 2003), tanto che abbiamo dovuto dividere in due questa chiaccherata. Ecco la seconda parte.

Nella prima parte di questa intervista con Gipi, abbiamo parlato dei suoi inizi, del suo rapporto con il disegno e con le storie che narra…

La stella del segreto - Da Blue

Vuoi parlarci del tuo modo di lavorare ? Pensi prima le tue storie, scrivi una sceneggiatura o parti subito dal disegno?
Non ho una regola fissa. Tutto dipende dalla storia che sta nascendo. Ci sono racconti che per funzionare necessitano di una forte dose di improvvisazione e di freschezza. In Esterno Notte “Via degli oleandri” è l’esempio di una storia fatta con questo criterio, senza preparazione o sceneggiatura. È qualcosa che somiglia ad una improvvisazione musicale, qualcosa che “deve” venire alla prima , perché la “seconda” non avrebbe mai la stessa forza.
Quando la storia si fa più lunga, come in “Appunti per una storia di guerra”, che conterà circa cento tavole, le cose cambiano necessariamente: in questo caso voglio essere sicuro che i personaggi si comportino in modo coerente, che non ci siano parti troppo molli o troppo dense. Quindi, in questo caso, ho avuto bisogno di scrivere la sceneggiatura dalla prima all’ultima tavola, da utilizzare come salvagente.
Mi spiego: ho iniziato “Appunti…” di getto. Non avevo una vera sceneggiatura scritta. Solo un’idea (quasi un’ossessione) che mi portavo dietro da tanto. Ho disegnato le prime tavole sull’onda dell’entusiasmo e i personaggi se la cavavano benissimo da soli, sembrava che conoscessero le battute e addirittura che se le inventassero per conto proprio.
È molto bello lavorare in questo modo, ma è una condizione che può non durare. Sono arrivato fino a tavola tredici lavorando così, sorprendendomi di quello che accadeva in ogni pagina,ma poi ho avuto paura. Mi sono visto stanco, magari a tavola 50, con l’entusiasmo scemato, le idee finite, forse uno dei mal di testa che mi fanno visita due volte la settimana e il rischio di bloccarsi, non riuscire a terminare.
Durante questi momenti di debolezza, avere la storia scritta può salvare il lavoro. Vado avanti facendo più fatica, senza entusiasmo , ma vado avanti. Ho una pagina di sceneggiatura da finire. È lì, scritta e deve essere disegnata. È lavoro. Poi, quando tornano le energie, le cose ridiventano allegre; ma intanto sono andato avanti, comunque.
Per reggere una storia lunga solo con l’improvvisazione si dovrebbe essere sempre forti. E questo non è il mio caso.
La sceneggiatura di “appunti…” è scritta come una sceneggiatura cinematografica; ha lo stesso formato delle sceneggiature all’americana. L’ ho riletta e corretta centomila volte. Cerco sempre di togliere pezzi, battute. Recito tutte le parti a voce alta e limo i dialoghi fino a quando non suonano reali e spontanei. Recito pure le espressioni e i movimenti dei personaggi. Per me è importante, mi insegna a “sentire” le posizioni che dovro’ disegnare.
Certo, per chi mi vede lavorare è uno spettacolo buffo, ma a me serve. Nell’ultima tavola che ho disegnato è accaduta una cosa strana, uno dei personaggi ha tirato fuori una battuta di gran volgarità, che non era nella sceneggiatura. Mi ha fatto ridere. Ed è rimasta sulla storia. So che sembro pazzo, ma quando lavoro e sto bene succedono queste cose. I personaggi hanno un carattere preciso e da quel carattere scaturiscono battute e comportamenti, cose alle quali non avevo pensato, delle quali non mi sembra di avere la paternità.

Esterno-Notte

Prima dicevi che non sempre hai avuto un buon rapporto con gli insegnanti. Addirittura citi un insegnante che ti ha fatto, temporaneamente, detestare il disegno. So che a tua volta insegni fumetto e illustrazione alla scuola internazionale di comics di Firenze. Come vivi questo ruolo?
Bene e male. Quando devo andare a fare lezione a Firenze non ho mai voglia. L’idea di andare in quella città mi fa venire il mal di stomaco. L’idea della classe, delle luci al neon, mi invita alla fuga. Di solito faccio il viaggio in pullman con un muso così, incazzato con il mondo e con me stesso che ho accettato di fare queste lezioni. Poi entro in classe e tutto cambia. È una cosa di cui mi sorprendo ogni volta. È come se avessi dentro di me un insegnante buono che non compare fin quando non inizia la lezione. Allora mi accorgo di voler bene ai ragazzi. Cerco di seguirli uno per uno. Intanto mi ritrovo a ragionare sul disegno. Sono costretto a codificare cose che faccio per istinto e le stesse tecniche di pittura mi si chiariscono meglio. Questo accade per tutto, per il ritmo di racconto, per la generazione delle idee. È una cosa molto interessante; credo di imparare davvero molto stando in classe. I ragazzi spesso mi sorprendono con le loro invenzioni e mi fanno tenerezza quando li vedo dibattersi su problemi di forma.
E poi faccio politica fino allo sfinimento. Non risparmio opinioni sul fumetto, sul sistema della produzione seriale, su quella autoriale. Mi piace discutere con i ragazzi e, quando posso, scuoterli dal torpore economico-mediatico che spesso li avvolge.
Mi piace assegnare compiti che li portino a vedere la realtà. Li mando in giro perché voglio che raccontino quello che vedono. È una trappola; in realtà voglio che vedano soltanto, che comincino a guardare il mondo con un occhio appena più consapevole. Lo sguardo necessario ad un disegnatore è uno sguardo più attento di quello che serve per guardare un paio di Adidas in una vetrina. Puo’ rivelare lati nascosti del mondo, a volte brutti, a volte illuminanti.
Penso sempre di non poter insegnare il disegno. Ci vuole troppo tempo, troppe ore. È qualcosa che si può fare solo in casa propria, lavorando tanto. Allora mi concentro sulla percezione e sull’accrescere la curiosità e la capacità di vedere. Credo che sia importante e visto che i ragazzi mi seguono con interesse, credo pure che funzioni.
E poi faccio lo scemo. Li faccio ridere. Tutto, pur di non annoiarli.

Dicevi che con Igort e la Coconino ti trovi molto bene. Come sei arrivato a lavorare con loro? Inoltre conoscevi il suo lavoro?
Non lo conoscevo bene in quanto non leggevo fumetti. Lo faccio poco anche adesso, ma prima di incontrare lui, ero praticamente a zero. Conoscevo il suo lavoro passato, quello degli anni 80. Stefano Ricci e Giovanna Anceschi mi dissero che lui voleva conoscere le mie cose. Lo incontrai a Lucca Comics dove gli mostrai “La storia di Faccia”. Rimase colpito. Mi disse subito che avrebbe voluto farne un libro. Nei due anni seguenti mi ha tenuto in piedi ed aiutato in mille modi. E.N. esiste anche grazie a lui.

Hai in programma altri lavori per questa casa editrice?
“Appunti…” dovrebbe uscire con loro, nella coedizione italiana. Le tavole sono adesso in Francia in visione presso una grande casa editrice. Sarebbe un grande cambiamento per me, ma per adesso non posso dire altro. Speriamo bene.

Da lettore presuppongo che un autore di comics debba essere in qualche modo un appassionato. Nel tuo caso è una giusta supposizione ?
No. Non conosco i fumetti e non sono un appassionato.
Ho amato il lavoro di alcuni autori che in passato mi hanno ispirato. Da Pazienza a Scozzari a tutto il gruppo di Cannibale prima e di Frigidaire poi. Altri disegnatori mi hanno ispirato in altri sensi, sopratutto come visione del lavoro ed per la loro onestà, come Riccardo Mannelli, Munoz, o lo stesso Igort. Da grande ho scoperto Spiegelmann e David B. e Daniel Clowes e Burns… insomma tutti i grandi narratori della graphic novel.
Non ho invece mai avuto attrazione per il seriale italiano. Forse perché sono snob. Non lo so. Da piccolo ho letto tanti supereroi ma adesso mi stanno terribilmente sul cazzo. Anzi, mi fanno ridere e mi stanno sul cazzo insieme.
Intendiamoci, non ho niente contro i disegnatori seriali; fondamentalmente mi viene da voler bene a chiunque tenga una matita in mano, se escludiamo Hitler quando faceva i disegni per i suoi mortiferi (ottimamente eseguiti) acquarelli. Mi fa solo un po’ incazzare l’assenza di attenzione verso il mondo. Forse in un pianeta migliore di questo non ci farei neppure caso.

Secondo te, che futuro ha il fumetto? Non tanto commercialmente, bensì parlando del suo lato artistico. Dal tuo punto di vista di autore, credi che sia un media in evoluzione, in movimento, oppure credi che abbia finito il suo percorso di crescita?
Se avesse finito il suo percorso di crescita vorrebbe dire che era veramente un mezzo da due lire. La pittura è nata nelle caverne, dove omoni pelosi “raccontavano” della caccia alle fiere. Il fumetto è giovane e credo anche che sia stato ingenuo, per un lungo periodo. Credo pure che in alcune forme sia stato asservito a sistemi di propaganda non propriamente cristallini. Ricordo che quando ero ragazzino ero un fiero ammiratore di Capitan America e lo vedevo distruggere tutti quei cattivi comunisti. Immagino che quelle storie, come quelle di Hulk che si ritrovava sempre un carro armato con la stella rossa tra i coglioni, piacerebbero molto al nostro presidente del consiglio. A me invece piacciono poco. E non sono neppure comunista.
Penso che si stia aprendo un nuovo capitolo per il fumetto. Spero che la forma della graphic novel si rafforzi in Italia e trovi un suo pubblico. In Francia, su venti libri nelle classifiche di vendita, 17 sono libri a fumetti. Questo sta facendo drizzare le orecchie anche alle nostre major e credo che le cose potrebbero prendere pieghe interessanti.
Da Esterno NotteCerto, qui torniamo subito alle scelte di racconto. Personalmente spero che i fumettisti italiani che stanno con la testa da un’altra parte trovino la forza per diventare fumettisti italiani davvero, che si guardino intorno e scelgano di essere presenti, a raccontare storie che dicano al mondo chi cazzo siamo e cosa pensiamo e cosa abbiamo intorno. Siamo gli unici che non lo fanno (io lo faccio, anzi) in Europa. Non dico che tutti devono raccontare storie “gipiane” ma da un po’ di tempo ho questa fissa della consapevolezza. Vorrei leggere storie di autori presenti.

Chiunque sia arrivato a visitare il tuo sito ha potuto capire che non sei semplicemente un disegnatore di storie, ma anche un illustratore, un pittore, un regista. Come concili questi vari aspetti della tua produzione artistica?
Regista è una parola grossa. Io dico sempre che faccio i filmini. Feci il primo filmino a dieci anni con una super 8 prestatami da mio padre e d’allora non ho più smesso. Certo, se diciamo che sono registi quelli che dirigono le varie fiction di polizia e carabinieri e storie d’amoretradimentogalera che vanno in onda in tivù, allora sono un regista anch’io; ma se pensiamo al cinema vero, allora mi devo fare più piccino.
C’é un legame tra tutte le cose che faccio. Me ne accorgo, sempre in ritardo, ma me ne accorgo. Tutte le volte che mi lancio in qualche operazione cinematografica suicida mi sembra di rubare tempo al disegno; mi sento in colpa perché non sto al tavolo. Poi mi accorgo che le scelte di inquadratura, le ombre, le luci delle scene girate mi sono rimaste addosso e si trasferiscono poi sui miei disegni.
Quando lavoro ai cortometraggi spesso impazzisco e tutto il lato cupo, che filtra nei disegni, nei cortometraggi semplicemente scompare. Gioco come uno scemo e credo che questo alla fine si veda. Non me la tiro. Non faccio il regista e non faccio l’attore. Così alla fine, spesso i corti fanno ridere.
Come illustratore invece sono libero. Dipingo e faccio esperimenti che poi ritrovo nei disegni dei miei fumetti. È come se tutto alla fine confluisse lì. Sono libero addirittura dal tema da illustrare, a volte. Ho fatto tutte le illustrazioni di un libro per ragazzi senza accorgermi che era un libro per ragazzi. Naturalmente il concetto di “libro per ragazzi” è una cazzata, ma faccio per fare un esempio.

esterno1_1Parlaci della Santamariavideo, la tv che non trasmette niente.
Santamariavideo sostanzialmente non esiste. È solo un nome che ho voluto dare per firmare i filmini. Non esiste perché non esiste economicamente. Non ci sono soldi e tutto quello che viene girato è in perdita, autoprodotto. In un altro senso, pero’, esiste eccome; esiste nella presenza dei vari Gabriele, Lucia, Tommi, Ico, Fabio, Lorenzo, Marco (ed altri cento) che lavorano con me, gratis, quando parte un progetto. Ed esiste, secondo me, come contenuti.
Ho già detto che la satira non mi attira e la trovo inefficace; pero’ mi girano le palle per i mali del mondo. Quando Bush e i suoi terrorizzano il mondo con le loro guerre, o quando i terroristi islamici si lanciano nelle loro puttanate suicide io mi spavento e mi arrabbio e mi viene voglia di dirlo. Allora nascono i corti. In apertura al sito web ho messo una frase di Goethe “Quando egli fa uno scherzo, là sotto c’é un problema nascosto”. È una frase che, da bravo ignorante, non conoscevo e mi è stata suggerita da Marco Martinelli del Teatro delle Albe, in un’articolo in cui parlava del mio lavoro.L’ ho trovata perfetta. Non mi metterei mai a girare un corto comico se non mi girassero le scatole per l’argomento trattato.
Il problema è l’approccio ai temi. La tivù ci ha insegnato a digerire tutto. Possiamo guardare la scena di un ragazzino crivellato dai colpi di M16 mentre mangiamo i quattro salti in padella. No problem, io l’ ho fatto. Come si può pensare che una parodia, una scenetta satirica riescano a forare l’indifferenza che ci avvolge la testa?
Io penso che si debbano trovare canali spaventosamente trasversali di comunicazione, al limite dell’incomprensibile. Trovare simboli inediti, andare a colpire le parti scoperte dell’inconscio, se ci si arriva. Le parole ed i metodi di comunicazioni tradizionali mi interessano quasi zero. Intendiamoci, questo è un intento, non dico di riuscirci.

Tu hai un sito ben gestito e rifornito di tuo materiale (tra l’altro dai l’opportunità di scaricare la nuova storia apparsa su Black, Le facce nell’acqua) [Il sito non è più online ed è stato sostituito dal blog. Il suo blog è giannigipi.blogspot.it – NDR]. Pensi che la rete sia importante per farsi conoscere? Pensi che possa in qualche modo agganciare lettori che il mercato non riesce a raggiungere?
Cosa penso, in questo caso è poco importante. Il fatto è che non ho altro metodo. Non posso andare al Maurizio Costanzo show a presentare il mio libro. Primo, perché non mi ci vogliono e secondo perché farei solo una brutta figura; inoltre cercherei di menare il conduttore e probabilmente anche gli ospiti, incluso me stesso.
Pero’ voglio promuovere il mio lavoro. Ci tengo alla visibilità. Per questo la rete è un buon mezzo. Mi permette di stabilire contatti con i lettori, di avere critiche, buone parole, suggerimenti. Io amo la comunicazione. Forse la amo sopra ogni altra cosa. Penso che sia qualcosa che stia molto vicino alla pace; non alla pace dell’anima ma a quella fisica.
Infatti quando ci si parla, di solito, non ci si ammazza.

Non credo che si possa chiudere quest’intervista con un concetto più drammaticamente attuale. Grazie anche di questo, Gipi.

 

Intervista condatto via mail a maggio 2004.
 
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