Anche se nel libro è spiegato, ti dispiacerebbe raccontarci la genesi dell’idea alla base di questo fumetto?
“Etenesh” nasce da un incontro artistico e personale con il regista etiope Dagmawi Yimer, che ha realizzato un documentario sul tema, in collaborazione con Andrea Segre, intitolato “Come un uomo sulla terra”. Lui mi ha offerto una visione più ampia e mi ha fatto conoscere Etenesh. È stato presente durante l’intervista di oltre due ore che ho realizzato a Roma con lei, e mi ha aiutato moltissimo.
Ovviamente alla base c’era la mia esigenza di raccontare il problema dell’immigrazione attraverso il mio mezzo di comunicazione, il fumetto. Mi sono presentato a Becco Giallo con l’idea precisa di realizzare un fumetto che avesse come protagonista una donna, una storia vera. Loro accettarono quasi subito e io ne fui felicissimo. Credo molto nel fumetto come mezzo di denuncia, informazione e indignazione. Ammiro moltissimo Joe Sacco, ad esempio. Pubblicare con loro era una cosa a cui aspiravo da tempo.
Hai detto: “Non potevo fare un lavoro più sincero di così” e mi permetto di dire che concordo con te. Scrivere di drammi e tragedie con il fine di suscitare l’empatia è abbastanza facile: riuscire ad essere “terzi” e trasparenti necessita di ben altre capacità. Pensi che la sincerità, l’onestà che hai messo nel realizzare il libro sia passata al lettore? Per quale motivo?
Credo sia passata al lettore. O almeno, questo è ciò che ho percepito. Dopo che ho raccolto l’intervista di Etenesh ho pensato che una storia così drammatica, piena di sofferenza, meritasse molto molto rispetto. Sentivo il dovere di gestirla “con i guanti” senza calcare la mano in maniera inopportuna, senza speculazioni. Riportando la verità fedelmente. È stato molto difficile, soprattutto all’inizio. Ne avvertivo il peso e la responsabilità ed inevitabilmente questo mio stato d’animo è finito sulla carta.
Ho realizzato l’intero lavoro con un solo quesito in testa: cosa ne penserà Etenesh, dopo averlo letto?
Essenzialmente il lavoro che hai realizzato è una biografia. Quanto speri e pensi di esser riuscito ad entrare nella testa e nel cuore di Etenesh?
Spero e penso di aver fatto il massimo. Come si può intuire dalla risposta precedente, il mio obiettivo primario è stato sempre quello di portare rispetto per la storia di Etenesh, e cercare di trasporla disegnando a cavallo delle mie sensazioni e delle mie emozioni. Che sono state molte ed intense durante l’intervista. Ovvio che situazioni così al limite andrebbero vissute per essere comprese fino in fondo. Nel suo cuore spero di esserci entrato, magari anche da una porticina secondaria, nella sua testa ho cercato di farmi strada, ma non è stata una cosa facile.
Il libro racconta una vita infima, una speranza infinita ed un sacrificio immane per vederla realizzata; per una persona che riesce a lasciare il Paese di origine probabilmente venti muoiono nel tentativo. Quanto sfugge a noi “giovani” occidentali il dramma che si consuma nel cosiddetto Terzo Mondo (quando il nostro problema maggiore è spesso il server di Facebook che cade…)?
Sfugge in maniera terrificante e devastante. Durante la fase di documentazione, aiutato come sempre da Dag, ho capito che vi è un buco nero enorme nella cultura italiana, sul tema immigrazione. Io stesso, che cerco sempre di tenermi aggiornato, sia con mezzi televisivi che informatici, mi sono trovato davanti a realtà sconosciute.
Mancano soprattutto i chilometri che vanno dalle terre di origine alle coste del Mediterraneo. E non a caso, proprio la parte sui cui mi sono concentrato maggiormente nel libro. Noi sentiamo di barconi arrivare. Arrivare dalla Libia, dalla Tunisia. Loro arrivano. Ma le persone che sono sopra le barche? Loro da dove arrivano? Come ci sono arrivati sulle coste del Mediterraneo? Quanto tempo ci hanno messo? Quanto hanno speso? Cosa hanno vissuto? Domande che troppo spesso la gente non si pone nemmeno. E questo è gravissimo perché non ci può essere integrazione senza una profonda conoscenza del problema. Gli stessi politici, quando parlano di rimpatri forzati in Libia o in Tunisia, dimostrano di saperne poco o nulla (o di far finta di non sapere).
C’è ancora moltissimo da fare.
Il tuo lavoro precedente (“Nuvole Rapide”) è stato pubblicato a colori. “Etenesh” è essenzialmente un fumetto dipinto a colori stampato in bianco e nero. Da lettore penso che così pubblicate le tavole perdano molto: tu che ne pensi?
Questo è un quesito che sempre è uscito nelle interviste che ho rilasciato fino ad oggi a cui vorrei dare una risposta definitiva approfittando del vostro sito, sempre molto visitato. Etenesh è stato studiato in grigio, esattamente come lo vedete sul libro. Gli originali non sono a colori anche se la sensazione è quella. Questo è dovuto alla tanta (a volte troppa, ammetto) scurezza delle tavole. Con il senno di poi avrei mantenuto alcune scene più chiare, utilizzando più spesso il bianco. Capisco che ad alcuni lettori il risultato possa sembrare “opprimente”. Per quanto riguarda le scene in notturna invece, è stata una scelta ben ponderata. Volevo che il lettore vivesse il buio, quello vero, quello del deserto. Quello che Etenesh mi ha raccontato e che la terrorizzava. Volevo che il lettore facesse uno sforzo di lettura maggiore in quelle scene. Ho lasciato comunque dei punti di riferimento illuminati per dare l’idea dell’insieme, ma doveva essere solo il punto di partenza per una lettura della tavola più approfondita.
Chiarito questo aspetto, ammetto che preferisco lavorare a colori.
C’è una leggerezza di tocco, nei passaggi più difficili (ovvero in quelli in cui la protagonista si trova nelle peggiori situazioni) che è davvero particolare. L’impressione di vedere un film rallentato, senza sonoro, è spesso fin troppo reale. Quanta cura hai dato allo storyboard ed ai tempi della scansione della vicenda fra le vignette?
In realtà non più del dovuto, anche perché per la maggior parte dei casi non faccio uno storyboard vero e proprio. Cerco di studiare tutto a livello di sceneggiatura. Praticamente finisco per disegnarmi la tavola “in testa”. Una volta che passo al disegno, parto direttamente con il definitivo.
Non utilizzo passaggi intermedi, tranne in scene molto complesse (i miei insegnanti della Scuola del Fumetto staranno inorridendo, lo so!).
I silenzi erano necessari perché di silenzi è fatto un viaggio del genere. Silenzi che durano ore, giorni. Il deserto è un enorme silenzio.
Il ritmo, lento ed orizzontale, mi è servito per tenere sospeso il lettore. Come in un limbo. Come Etenesh, che ogni giorno fluttuava in un limbo. Da una parte la vita, dall’altra la morte.
La griglia delle tavole è, tutto sommato, abbastanza regolare (spesso 3 o 5 vignette su 3 righe, qualche splash page, poche vignette non rettangolari): avendo a disposizione la tavola “bianca” cosa ti ha spinto a questo utilizzo del mezzo fumetto?
Volevo dare un ritmo cadenzato, regolare, piatto. Quasi annoiato. Un po’ perché a me non piace molto la gabbia troppo libera. Trovo che un buon racconto passi soprattutto attraverso le parole ed il segno. Senza bisogno di troppe “arzigogolature” sulle gabbie (ovviamente gli appassionati di manga e comics americani dissentiranno).
Inoltre non volevo che il racconto fosse disturbato da intromissioni estetiche che avrebbero solo depistato e spiazzato il lettore dal punto focale della storia, ovvero Etenesh.
A me piace la tavola semplice, per concludere, alla Gipi. Pochi fronzoli e molta sostanza.
Domanda finale banale: quali sono i prossimi progetti che ti piacerebbe realizzare?
Sto iniziando a lavorare sul nuovo libro per Becco Giallo. È un progetto che sento tantissimo, che ho proposto io e che, con mia enorme sorpresa, ha esaltato pure loro. Ci sono tutti i presupposti per fare un bel libro anche se l’ansia da prestazione, da “il secondo è sempre il più difficile”, come cantava Caparezza, è già alle stelle. Non posso dire ancora di cosa tratta, ma sarà una biografia.
Inoltre nei prossimi anni mi piacerebbe lavorare ad un libro a fumetti noir, sullo stile di “Un giorno dopo l’altro” di Lucarelli o di “Catrame” di Giuseppe Genna. Buio, servizi segreti deviati, assassini, omicidi e Milano sullo sfondo. Tutto ad acquerello, monocromatico.
Riferimenti:
Paolo Castaldi, il blog: paolocastaldi.blogspot.com