L’America, terra giovane e promessa, scopre spesso nell’inquietudine degli adolescenti la propria vulnerabilità; come davanti ad uno specchio vi riconosce di volta in volta la perdita di una presunta innocenza e, in fondo, l’assurdità della sua stessa pretesa. Forse non è nemmeno un caso che tante storie di giovani “difficili” siano così ben radicate nella narrativa americana, dalla letteratura al cinema, passando naturalmente per i fumetti.
Black Hole parla proprio di questo, dell’adolescenza, degli Stati Uniti e anche degli anni 70, sebbene la ricostruzione naturalistica di quel periodo rimanga consapevolmente al di là delle intenzioni di Charles Burns (in effetti la cornice storica è ricavabile soltanto da qualche pettinatura stonata o dagli sporadici indizi musicali).
Black Hole esplode di oscuri presagi fin dall’introduzione, dove la dissezione di una rana nell’ora di biologia apre uno spiraglio sulla vita scolastica di un gruppo di liceali e offre allo stesso tempo la prima “apertura” del buco nero citato dal titolo, il simbolo ricorrente all’interno dell’opera nelle varie forme del taglio, dell’orifizio e della ferita.
Il buco, fessura sull’abisso e porta d’accesso ad un mondo ignoto, è il nodo interpretativo al centro dell’opera, la metafora che lega iconicamente il tessuto narrativo alla sua rappresentazione visiva e che rimanda all’ambiguità fra visibile e invisibile.
Sappiamo che il fumetto è l’arte dell’invisibile (come insegna Scott McCloud), che l’attività interpretativa del lettore è affidata ai collegamenti assenti fra le vignette e che parole e immagini nei casi più felici tendono ad assomigliarsi e ad amalgamarsi, fino ad essere individualmente inestricabili. Burns ha colto in pieno le potenzialità espressive del mezzo e ha deciso di sfruttarle senza risparmiarsi, spingendo agli estremi gli strumenti a sua disposizione.
In altre parole il volume affronta i classici temi adolescenziali, scegliendo pero’ di renderli pienamente “visibili”, sia negli aspetti più concreti ed esteriori sia in quelli più astratti ed intimi. Per quanto riguarda i primi, la trasformazione corporea dell’adolescenza è equiparata, senza mezzi termini, ad una malattia infettiva dalla quale si esce vivi o no, come afferma l’autore in un’intervista. Il virus si diffonde per via sessuale e i suoi effetti sono del tutto imprevedibili: qualche volta passano quasi inosservati, ma più spesso lasciano tracce fisiche permanenti (come una bocca aggiuntiva o una coda), costringendo gli studenti più segnati a fuggire nei boschi per nascondere la propria deformità/difformità.
L’aspetto emotivo e i contrasti più intimi dei personaggi, invece, traspaiono non tanto dai dialoghi (che sono, secondo verosimiglianza, spezzati e banali), né dalle espressioni (troppo pulite o troppo vacue, a seconda dei casi e delle droghe assunte), ma soprattutto dal background delle tavole, dagli sfondi sovraccarichi di china, ingombri di alberi troppo scheletrici o di sterpaglie troppo fitte, di linee troppo piane o troppo ruvide ed espressionistiche. I contrasti di bianco e nero non lasciano scampo alle sfumature; sono volutamente ed eccessivamente schematici, duri da digerire.
Tramite l’opposizione cromatica non negoziabile e i contorni spessi e marcati, l’autore sfrutta fino ad esaurirlo il patto implicito con le risorse inferenziali del lettore, lasciando così emergere quello che i personaggi non sarebbero altrimenti in grado di dire, semplicemente perché non possono raccontare quello che avviene misteriosamente dentro di loro.
A guidare e legare la storia è la fitta rete di presagi e di simboli (il serpente, la coda, l’orifizio-ferita della bocca e del sesso femminile, le sculture d’ossa, etc.) che trovano uno spazio naturale nell’inconscio dei personaggi. Non a caso gli incubi sono condivisi dai protagonisti e il loro tessuto simbolico assolve ad un’importante funzione coesiva.
La linea narrativa, apparentemente disordinata, rivela infatti ad uno sguardo più attento (e ad una seconda, necessaria, lettura) una trama meticolosamente pianificata e densa di rinvii interni.
La struttura di Black Hole si ripresenta metanarrativamente, ma senza invadenza, nelle opere di Eliza, la ragazza lucertola: Keith, il protagonista, “leggendole” e ricomponendole in sequenza come un fumetto, riesce per la prima volta a dare corpo, a visualizzare, le sue tensioni più impalpabili (“mi muovevo da un disegno all’altro. Era come camminare in un altro mondo […] ritorno’ tutto come un’onda… tutta la tristezza”, pag. 118). Se la rappresentazione artistica, e in particolare quella figurativa/visiva, offre così a Keith la consapevolezza nel dolore, alla fine di tutto gli consegna anche un rimedio temporaneo: l’ultimo disegno, letteralmente liberatorio, di Eliza nel deserto.
Per chi è sopravvissuto, il finale coincide con l’abbandono dei luoghi chiusi e angusti (siano essi la casa o il bosco-ghetto) per spazi nuovi ed aperti, il deserto e l’oceano, luoghi di bianco splendente o di nero petrolio, dove tutti i contrasti iniziali sembrano risolversi in un senso o nell’altro: la salvezza nell’amore e in una relazione (Keith e Eliza) o nella ricerca solitaria (Chris). Chi non ce la fa, invece, muore o resta confinato, non sa o non può attraversare lo specchio/buco (pagg. 324-325) con il suo carico simbolico. Non ci riesce, spesso perché già condannato in partenza: Dave e i suoi amici sono “sfigati” fin dall’inizio, intrinsecamente votati a perdere nella rigida organizzazione del microcosmo scolastico e sociale. E qui ancora una volta l’America si ritrova (con tutti noi) un po’ meno innocente.
Abbiamo parlato di:
Black Hole
Charles Burns
Coconino Press Fandango
368 pagine, brossurato, bianco e nero – 19,00 €
ISBN: 978-88-7618-089-7