“Il giornalismo consiste soprattutto nel dire ‘Lord Jones è morto’ a persone che non sapevano che Lord Jones fosse vivo.” Gilbert Keith Chesterton
Come nasce una notizia? Come si diffonde?
Attraverso quali canali e con quali modalità? L’informazione ci rende più preparati e consapevoli nel fare le nostre scelte o è al contrario uno strumento utilizzato per indirizzare l’opinione pubblica e plasmarne le opinioni?
Qual è il ruolo di giornali e giornalisti?
Questi sono alcuni dei numerosi temi trattati nell’interessante volume di Brooke Gladstone e Josh Neufeld a partire dalla definizione stessa di notizia.
Il concetto racchiude infatti in sé altri significati e valenze: la notizia è comunicazione di un fatto, ma allo stesso tempo ne diventa anche il racconto, alle volte con qualche forzatura.
La notizia è anche una merce in un mondo i cui proliferano network di qualsiasi tipo, e può essere un ottimo strumento di promozione, più o meno dichiarata o volontaria.
Ai media spetta il compito di informare, per dare modo ai cittadini di farsi un’opinione su quello che li circonda; ma ha senso parlare di un’informazione assolutamente oggettiva?
Il giornalista come deve come deve gestire il rapporto fra la notizia e i propri ideali etici e politici?
Sono più responsabili i cronisti che decidono di non votare (l’autrice cita Len Downie Direttore Esecutivo del Washington Post, in Italia potremmo menzionare Enrico Mentana), oppure quanti palesano il proprio orientamento, “mettendo in guardia” i loro lettori circa la possibile faziosità delle proprie opinioni?
E i colossi mediatici proprietari di quotidiani, riviste e televisioni possono essere ritenuti attori imparziali, capaci di non utilizzare la propria influenza per i loro interessi economici?
Tra citazioni, esempi e aneddoti (naturalmente USA-centrici), la Gladstone utilizza un numero veramente cospicuo di riferimenti, tutti adeguatamente indicati nella corposa bibliografia in appendice al volume. E numerosi sono gli spunti che l’autrice, che negli USA conduce un programma radiofonico dedicato ai media (On the media), propone, a partire dai casi citati.
Nel 1969 il dipendente del Pentagono, Daniel Ellsberg porta al “New York Times” le trascrizioni di dossier riservati relativi ad una serie di operazioni militari segrete operate dal governo in Vietnam, una guerra che, nelle stesse carte, viene sostanzialmente definita impossibile da vincere: l’esatto contrario di quanto sostenuto dalle varie fonti giornalistiche e governative/politiche di fronte ai cittadini USA. Ellsberg viene accusato – da un’amministrazione colpevole di aver deliberatamente mentito – di tradimento.
Nel frattempo altri due giornalisti, Carl Bernstein e Bob Woodward scoprono che il presidente Nixon ed il suo entourage sono responsabili di una serie di azioni diffamatorie, atti di spionaggio e altro, contro i propri avversari politici.
Queste vicende da un lato mostrano quanto sia potente l’informazione, sia quella raccolta e non divulgata – utile al ricatto o all’esercizio di una pressione indebita – sia quella resa pubblica, per amore della verità o al fine di produrre uno specifico risultato.
Ma dall’altro lato sollevano interrogativi sull’effettiva opportunità della pubblicazione di determinate informazioni: la riservatezza è una risorsa per i cittadini?
L’interesse nazionale giustifica la segretezza?
Sapere che anche un Presidente può agire illegalmente rende un paese più forte o più debole?
“Conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi” Giovanni 8,321
L’autrice giustamente si concentra su episodi cruciali per la storia degli Usa e del giornalismo moderno, ma le questioni che sottendono a questi fatti sono riferibili anche al nostro paese: la stampa italiana che discute da tempo sull’ipotesi di una trattativa tra lo Stato italiano e la Mafia rende un servizio ai cittadini?
Oppure è opportuno che a occuparsi della vicenda siano soltanto la magistratura e la Polizia, nonostante siano a loro volta parte delle istituzioni messe sotto accusa?
La mancanza di una legge sul conflitto di interessi mina la nostra democrazia?
D’altro canto se il rapporto tra potere e stampa non è dei più facili (e forse è giusto che sia così) non lo è nemmeno quello tra lettori e stampa.
Da giornalista l’autrice dedica diverse pagine alla sfiducia crescente che la maggior parte delle persone manifesta nei confronti dei giornalisti, e analizza con attenzione le nuove modalità d’informazione che si sono affermate con l’evoluzione di internet e dei social network.
L’informazione si specializza, aumenta, si fa allo stesso tempo più rapida e più approfondita, visto che ciascuno di noi è in grado di recuperare nozioni specifiche sugli argomenti che lo interessano maggiormente.
Con la rete approvvigionarsi di informazioni è facilissimo, e il problema è forse interrompere e filtrare criticamente un flusso di dati che non si ferma mai e che spesso ci propone anche notizie che non ci interessano.
Allo stesso tempo, ciascuno di noi è in grado di “diventare” giornalista, producendo contenuti condivisibili con gli altri.
La tesi di fondo del libro è riassunta nella vignetta che chiude il volume, ed è la stessa proposta in copertina: “abbiamo i media che ci meritiamo“.
Ma attenzione a interpretare la frase nel modo corretto: non dobbiamo leggere l’affermazione come una considerazione fatalista sulla mediocrità irreversibile di un prodotto, che oltretutto la Gladstone definisce con insistenza in continua evoluzione, tecnologica e non solo.
É esattamente il contrario: la giornalista sostiene che l’informazione è un prodotto, una merce che ha l’esigenza di essere venduta. Sono quindi i suoi acquirenti ad avere la capacità (e la responsabilità) di provocarne un miglioramento, rifiutando di consumare tutta quella informazione che ai loro occhi risulti scadente, strumentale o faziosa. Questo processo è sostanzialmente infinito: gli scenari, tecnologici e sociali, sono in continua evoluzione, così come perenne è il dissidio che affligge i lettori, sempre in bilico tra il desiderio di trovare conferma alle proprie convinzioni attraverso opinioni affini alle proprie, e la volontà di testare le proprie idee, per evitare di cadere in un meccanismo di auto-legittimazione sclerotizzante.
Dal punto di vista fumettistico il disegnatore Josh Neufeld ha il compito di tradurre in immagini gli avvenimenti raccontati dalla giornalista, incarico piuttosto facile ogni volta che si fa riferimento a episodi specifici, il cui racconto acquista maggior vividezza grazie alla rappresentazione grafica.
Il ricorso alle immagini consente di alleggerire il tono della narrazione (caratterizzata comunque da una buona dose di ironia) anche da un punto di vista quantitativo: il fumetto lungi dall’essere prolisso è piuttosto verboso e la possibilità di alternare il racconto a fumetti a quello costituito dal solo testo (come accade nelle parti più prettamente teoriche dell’esposizione) lo rende più scorrevole e apprezzabile anche per un lettore non “devoto” all’argomento.
I siparietti comici, che vedono come protagonista la versione a fumetti dell’autrice e le caricature dei personaggi storici, sono sicuramente strategici da questo punto di vista, e in sintonia con un lavoro che riesce a essere allo stesso tempo leggero e ricco di nozioni.
Impossibile e sostanzialmente inutile cercare di riassumere i temi, gli interventi e i contenuti che il volume ospita.
Armi di dissuasione di massa è un libro denso, che merita di essere letto con attenzione e tempo, un divertente manuale d’istruzioni d’uso per la realtà che ci circonda, ma soprattutto per come ci viene raccontata.
“I mezzi di informazione non cercano di controllare le persone, cercano piuttosto di arruffianarsele”
Brooke Gladstone
Abbiamo parlato di:
Armi di persuasione di massa
Brooke Gladstone, Josh Neufeld
Traduzione di Elisabetta Sedda, Giulia Bertoldo
Rizzoli Lizard, 2013
184 pagine, brossurato, bicromia – € 20,00
ISBN: 9788817058704
La frase campeggia su di una parete all’ingresso della sede della CIA a Langley, in Virginia. ↩