Anubi è l’antica divinità egizia protettrice delle necropoli e del regno dei morti. Oggi sua casa non sono più l’Egitto e le piramidi, ma una moderna e anonima città di provincia, in cui tenta di sopravvivere da ex tossico, odiato da chiunque lo incontri. Le sue giornate trascorrono tra la disperazione, il Campari, la frequentazione di alcuni “amici” (sociopatici avventori di un bizzarro bar), e la compagnia di Horus, divinità egizia divenuta ormai nevrotica e nostalgica.
1 Struttura narrativa
1.1 Di cosmogonìe, mitologie inverse e ultimi
Marco Taddei e Simone Angelini partoriscono un volume denso e corposo, di 320 pagine, che alla lettura appare tanto massiccio quanto frenetico: la narrazione è mesmerizzante, non dà respiro e costringe il lettore a restare incollato alle pagine e concludere d’un fiato.
Anubi è una storia universale: questa sua caratteristica non deriva solo dalla spiccata propensione dell’opera a dipingere a chiare lettere il quadro dell’esistenza quotidiana dell’uomo moderno, ma anche dalla precisa volontà degli autori, che aprono il volume con una vera e propria cosmogonìa. Da subito vengono mostrati i fasti della divinità Anubi nell’antico Egitto, adorata e onorata, titanica rispetto all’ambiente circostante.
Poi d’un tratto, nel giro di poche tavole sembrano trascorrere eoni: vulcani in eruzioni, enormi oceani in tempesta, croste in solidificazione, cellule elementari, organismi primordiali e germi inquinanti. Anubi è ora divenuto piccolo, così minuscolo da entrare nel letto di un tugurio che è la sua nuova casa. Questo passaggio è tanto bruciante quanto coerente: gli autori sono riusciti a rendere con immediatezza l’evoluzione cosmica fino ad oggi, cingendo il capo del loro racconto con la vocazione della universalità.
Giunta in breve ai tempi odierni, la storia prende la sua piega, e inizia la spietata e cinica analisi dell’esistenza umana.
Anubi rappresenta inoltre una mitologia moderna eguale e contraria, in cui le figure mitiche vengono riutilizzate ma la loro stessa esistenza è stravolta: non ci sono più eroi, le divinità sono state ridimensionate e inglobate dalla realtà umana e il nichilismo e il nulla trionfano su tutto: un anti-mito.
Il racconto di Taddei è spietato e pregno di ironia e comicità nera, ma dietro questa maschera si nasconde un enorme dolore.
L’opera ha stampo fortemente autobiografico, e mette in mostra la povertà del postmoderno e l’estenuante vita urbana contemporanea, focalizzandosi sulle esistenze degli ultimi e dei reietti, rappresentati da soggetti sociopatici che si incontrano nei loro bar/ghetti, quali vittime di un inarrestabile ingranaggio:
«Non è un fumetto pulp anzi è proprio il contrario, – dichiara Taddei – una specie di breviario, una preghiera, un racconto di innocenti buggerati dalla vita.»
Gli ambigui e grotteschi personaggi che lo scrittore inventa e che il protagonista incrocia sulla sua strada – un gruppo di suore dai dubbi costumi, i tossichetti, gli anziani, il disincantato scrittore Burroughs portatore di verità dolorose, sua nipote emblema delle generazioni future già compromesse, Emilio, il clown nazista ecc… – danno la possibilità all’autore di creare un intricato dedalo di microcosmi narrativi che si intrecciano fra loro, formando un caos eterogeneo di matasse e vissuti che rendono la storia viva e vera: una sorta di valzer corale.
Attraverso registri linguistici svariati, Taddei ha così l’opportunità di rappresentare con relativismo di vedute una molteplicità di punti di vista, variando dal turpiloquio più sporco alla prosa poetica caustica e letteraria dei densi scritti di Burroughs; da ciò deriva una stratificazione di storie di vita che ha il valore di un’enciclopedia umana.
A questo enorme caos fa da contraltare il tratto essenziale, sintetico, corposo e volutamente sbagliato di Angelini.
Le sue tavole semplificate sino all’estremo assecondano l’esigenza di coerenza del narrato che la tendenza disgregante della molteplicità di personaggi aveva messo a rischio: la sua gabbia ordinatrice amalgama la storia, la chiarifica e la incasella in vignette quadrate che hanno funzione categorizzante.
Per la rappresentazione grafica di Anubi viene utilizzata una cifra bidimensionale, che si contrappone a un’impostazione degli sfondi e degli altri personaggi più tridimensionale e ordinata, che ben mostra la mano intelligente del disegnatore derivante dai suoi studi in architettura.
A dispetto di un tratto solo in apparenza piatto, la simbiosi raggiunta dagli autori è pressoché totale; la resa del disegnatore restituisce la vibrante potenza delle storie assieme al loro carattere grottesco, e suscita inspiegabilmente un terribile e urlante horror vacui.
L’ermetismo evocativo di Angelini fa arrabbiare, piangere, battere i pugni e soffrire, osservare impotenti la messinscena del vuoto.
Ciò che ne deriva è una cronaca verista, un’analisi pungente e ironica in cui senza timore gli autori si sporcano le mani nel mostrare le bassezze e il sudiciume della società moderna, che si concretizza nell’abbandono quotidiano dei derelitti, isolati alla frontiera e ridotti al fronte a combattere in prima linea per una sopravvivenza non già economica, ma prima di tutto esistenziale.
1.2 Paralisi e fuga
Nella rappresentazione di questi ambienti urbani ipogei, Taddei sembra seguire una struttura ricorrente nelle sue micronarrazioni: quella di paralysis (paralisi) e escape (fuga) tipica dei Dubliners di Joyce.
Gente di Dublino è una serie di racconti che nasce con lo scopo di raffigurare lo spaccato di vita quotidiana di alcuni abitanti della città. In ognuna di queste storie Joyce pone in evidenza la paralisi, cioè l’immobilismo morale dei suoi personaggi, ingabbiati dai preconcetti politico-religiosi che impantanano le loro vite; e la fuga, conseguente alla presa di coscienza della loro condizione personale tramite il meccanismo dell’epifania, che porta i protagonisti a una ritirata disperata ma priva di soluzione.
Allo stesso modo Taddei, nelle ricostruzioni delle microcosmiche storie dei variegati personaggi del racconto, sembra partire proprio da una stagnazione paralitica totale della sua città senza nome/universo, che infatti nel finale muore soffocata dallo strabordare dei suoi stessi liquami. La fuga/fine dei protagonisti è dunque irrimediabile: chi tramite l’uccisione della propria moglie, chi attraverso il ritorno alle piramidi egiziane (Horus), e chi saltando sul primo treno disponibile per andar via (Anubi).
Tuttavia il meccanismo autoconsapevolizzante dell’epifania, in Anubi è sostituito da un evento traumatico, che non è solo mentale, ma a tutti gli effetti corporale: Anubi tenta la fuga, ma si rende conto di aver davvero perso solo nel momento in cui subisce un pestaggio a sangue da parte del controllore del treno, per non aver pagato il biglietto: ecco la sua epifania da parte della vita.
Questo sviluppo bifasico (paralisi-fuga), presente in alcuni tratti anche nell’Ulisse di Joyce, in particolare nell’episodio 15 (Circe), – che vede la disperata fuga di Dedalus e Bloom dal bordello di Bella Cohen – ben rappresenta l’Odissea di Anubi/novello Ulisse, riflessa nel lento e quotidiano naufragio della vita moderna.
2. Esistere per resistere e resistere per esistere
In questo concentrato di angosce e nichilismo, Anubi mostra che la condizione dell’uomo è ormai quella di ridursi a monade, una cellula chiusa e totalmente priva di ricambi con l’esterno. La quiete si raggiunge a prezzo della solitudine e ad Anubi basta “una cuccia” dove star sicuro.
In un contesto indifferente, che fagocita e compromette persino l’innocenza di una ragazzina (la gravidanza inspiegata della nipote di Burroughs), e in cui i soggetti vengono masticati, ingoiati, digeriti ed espulsi dalla società, i rapporti umani si dispiegano in un infinito arcipelago di individui separati.
I reietti “sociopatici” si ghettizzano stringendosi fra loro, e nel frattempo il mondo “se la gode” col suo perbenismo, coi suoi sistemi di regole tranquillizzanti, coi rapporti familiari posticci di tessuto acetato sintetico. A volte questo sistema artificiale e perfettissimo mostra però le sue falle, e qualcuno (come l’assistente sociale nel racconto) esce di testa e ammazza sua moglie, un parente, un passante, o inizia a fantasticare sui modi più fantasiosi per estinguere l’intera razza.
È proprio a questo punto che tutti si girano dall’altro lato per non vedere, con un inquietante, isterico, finto e rassicurante sorriso che è in realtà un grido di paura. Questo esatto paradigma è rispecchiato dal modo di vivere di Horus, raffigurato sempre nell’atto di ridacchiare, persino in punto di morte, ma con una perenne inquietante e indicativa goccia di sudore sul viso:
«È facile Anubi, è come per tutti. Quando rido sto bene. (eh eh eh) Quando non rido sto male.»
Le città moderne sono dunque i nuovi deserti, ma mentre questi erano colmati in antichità dalla speranza del divino, ad essa si è ora sostituito un incolmabile e confondente vuoto.
Nessuno ormai aspetta più Godot, nessuno lo cerca né spera di essere salvato, e l’incomunicabilità e la solitudine regnano sovrane.
Se la religione era oppio dei popoli, questa è stata oggi rimpiazzata dal consumismo e dall’idea infrangibile di capitalismo come sistema assoluto e unico modo di concepire il vivere in comunità, giungendo al paradosso di autocelebrarsi. La società è dunque divenuta droga, narcotico, idolo e oppio sé, come un enorme serpente che si morde la coda e dal cui circolo è impossibile uscire.
Il mondo non ha più bisogno di dèi in Terra, e anzi li prende a cazzotti e gli fa sputare fuori i denti (come avviene ad Anubi nel pestaggio sul treno); la divinità subisce la vita stessa e non la sovrasta più.
È con questa consapevolezza che Anubi decide di fuggire; ma la società moderna gli ha proliferato addosso, è nata dalle sue carni e si è sviluppata sulla sua schiena, schiacciandolo come un virus purulento. Ha inglobato tutto in sé, anche la divinità stessa, e dunque la fuga non è nemmeno pensabile.
Proprio per questi motivi Anubi si vede costretto nel finale a gettare via la sua maschera nera con l’occhio a stella e ad arrendersi a diventare un semplice essere malmenato e pieno di lividi, mostrando il suo vero volto carnale. Questo passaggio segna il ritorno della divinità alla sua ipostasi, la sua fase originale, cioè l’uomo comune che aveva ideato la divinità stessa.
Dopo aver compreso la sua inutilità e l’inefficacia di qualsiasi tipo di sacrificio rituale, l’umanificazione del dio è completa, e Anubi rappresenta ora la forma massima di sconfitta: chi può soffrire maggiormente di divenire un pariah nella società se non proprio una divinità, forma massima di elevazione?
A questo punto le strade percorribili erano solo due: abbassare la maschera e vivere da uomo, procedendo verso il nulla di un buco nero (come decide di fare Anubi nel finale, con il binario del suo treno che porta verso una enorme massa oscura); o, come Horus che si illude della sopravvivenza in Egitto del culto delle divinità antiche, fuggire fra le Piramidi sperando di tornare ai vecchi fasti e morire invece in preda a una risata isterica, dopo aver constatato che quelle costruzioni maestose non sono più casa di dèi, ma meta di edonisti del blogging con le loro impassibili macchine fotografiche.
In entrambi i casi la fine è rovinosa e apocalittica, e a nulla vale lo spunto di Taddei sul finire, che si chiede se tutto ciò non sia causato dalla società nel suo complesso, ma dal vittimismo e dall’inettitudine di ognuno di noi.
Anubi è dunque un pianto disperato, una preghiera per l’appunto, un quadro attualissimo.
Sicuramente uno dei titoli più interessanti e imperdibili degli ultimi anni, e probabilmente il migliore dell’anno. Da rileggere più e più volte per coglierne ogni singola e sottile sfumatura: una sbalorditiva sorpresa.
Abbiamo parlato di:
Anubi
Marco Taddei, Simone Angelini
GRRRz Comic Art Books, novembre 2015
320 pagine, brossurato, bianco e nero – 13,90 €
ISBN:9788896250242