In occasione del Treviso Comic Book Festival 2024, abbiamo intervistato Marco Taddei e Maurizio Lacavalla, autori di HPL. Una vita di Lovecraft (Edizioni BD), presentato in anteprima al festival trevigiano. Il fumetto, che vede Taddei alla sceneggiatura e Lacavalla ai disegni, propone un’operazione originale rispetto alla possibilità di raccontare la vita del celebre scrittore americano: come descritto da Marco Peano nella prefazione, si tratta infatti di una “biografia onirica” di Lovecraft, intinta “nel suo inchiostro”, in cui frammenti dell’esperienza dello scrittore vengono rivisti alla luce di eventi immaginati. La realtà e l’immaginazione di Lovecraft sono mescolate in una sola amalgama oscura, in un fumetto che tenta la difficile impresa di raccontare un autore non attraverso la sua storia, ma le sue storie, coagulate attorno a una vita possibile. Le parole puntuali di Marco Taddei risuonano negli inchiostri profondi e incisivi di Maurizio Lacavalla. Il risultato è una “retroingegneria dell’immaginario”, uno sguardo nuovo e riuscito su uno scrittore influente come pochi nel suo dare vita a immaginario denso, pulsante, che continua a essere fonte di infinite rielaborazioni, racconti e fantasie. Abbiamo fatto alcune domande ai due autori, incuriositi sia dalla materia che hanno deciso di raccontare, sia dagli strumenti che hanno scelto per maneggiarla.
HPL. Una vita di Lovecraft: il titolo fa sorgere una domanda che non si può evitare facilmente. In che senso “una vita” di Lovecraft? Cos’è questo fumetto? E come nasce
Maurizio: L’obiettivo era quello di raccontare una delle possibili vite di Lovecraft, la possibilità che la sua vita sia andata in questo modo. Si tratta di un escamotage narrativo che abbiamo trovato calzante, anche perché Lovecraft ha avuto un’esistenza piuttosto ordinaria. Non ha mai potuto viaggiare come avrebbe voluto, per esempio. Le sue relazioni famigliari erano incatenanti e nemmeno la sua esperienza sentimentale lo ha fatto uscire dal nido. Potremmo dire che ha vissuto in una serie di gabbie. D’altra parte, però, la vita del suo immaginario, la sua esistenza onirica, è stata estremamente prolifica, al punto da far venire dei dubbi su cosa accadesse davvero nella sua testa. A un certo punto diventa legittimo chiedersi: “Ma certe cose le ha soltanto pensate o le ha anche viste? E qual è la differenza?”. È da queste domande che ci siamo mossi per dare vita a una narrazione: ci siamo immaginati che Lovecraft incontri davvero Cthulhu, a Boston, e da quel momento la sua vita prende una certa piega.
L’orrore che descrive nei suoi racconti, del resto, è così potente, arriva in maniera così… non evitabile per chi legge, che sembra davvero di vederlo. Abbiamo pensato che, come lettori, siamo portati a ipotizzare che anche Lovecraft deve averlo visto, con i suoi occhi.
Marco: A mio avviso era anche un orrore liberatorio. La sua vita, come ha detto bene Maurizio, forse era incatenante, piena di gabbie, ma quell’orrore era liberatorio rispetto alla sua esistenza.
Si tratta di un aspetto che in effetti emerge in maniera molto forte dal fumetto. E si intuisce come lasciando fuori ciò che riguarda il suo immaginario, il materiale che Lovecraft ha riversato nei suoi racconti, si sarebbe finiti per escludere una parte significativa della sua vita, forse la più densa. Includerla in una biografia era necessario, forse inevitabile, appunto.
Marco: Credo che per un autore, per uno scrittore, pensare e vedere siano la stessa cosa, ed è anche questo che abbiamo cercato di rendere in HPL. Una vita di Lovecraft. Del resto, il suo immaginario ha vinto, e non tanto per lo stile di scrittura, ma per i suoi contenuti. Per questo abbiamo pensato che dovesse essere l’immaginario a essere reso visibile: lui, in qualche modo, è riuscito a cogliere qualcosa di nuovo. Certo, sarebbe interessante analizzare come è nato, quell’immaginario: Lovecraft era appassionato di chimica, scienza, filosofia, astronomia. È comunque un procedimento scientifico il suo, tutto nasce da un apparato realistico che da quelle premesse arriva a qualcosa di completamente nuovo.
Inoltre, è interessante pensare come sia arrivato fino a noi passando di scrittore in scrittore, per gli scambi epistolari che ha intrattenuto o per l’influenza che ha avuto su numerosi suoi colleghi in vita, ma anche e soprattutto dopo. Lovecraft ha avuto una vita ritirata, ma ha scritto circa centottantamila lettere, una cifra notevole per uno che è morto a nemmeno cinquant’anni. Erano lettere lunghe, monumentali (tra l’altro lo si trova l’epistolario: c’è una bella selezione di Edizioni Mediterranee). Noi abbiamo cercato di ricostruire una vita potenziale di Lovecraft inventando un solo evento, una lettera scritta dal padre morente e indirizzata a lui che però non gli è mai stata recapitata. Questa lettera si nasconde finché non ricompare nel momento cruciale nella vita di ognuno di noi, quando non c’è più tempo. Così Lovecraft scopre in ritardo qualcosa di incomparabilmente giustificativo di quello che ha fatto in tutta la sua vita, di quella che è stata la sua esistenza.
A posteriori, questo evento diventa il fulcro della sua esistenza: noi abbiamo ricostruito la sua vita con i pezzi che avevamo, quelli appartenenti alla sua biografia, ma riposizionandoli, riformulandoli e rinarrandoli attorno a questo evento. Il collante è stata la nostra esperienza: abbiamo cercato di entrare nella mente di Lovecraft, ma mantenendo il riferimento alle nostre esperienze, al nostro essere autori, scrittori e creativi a nostra volta. Questo è forse l’aspetto più eretico, ma anche avventuroso, della realizzazione di questo fumetto.
Lovecraft, del resto, ha vissuto una vita abbastanza grama da scrittore. Più che quello che è diventato, il mito, la leggenda, a noi interessava l’uomo che era. Perché lui è diventato eterno, sì, ma solo dopo la sua morte. Se fosse qui al Treviso Comic Book Festival, non starebbe nemmeno nell’area self, capisci? Questo ti dà l’idea di quanto sacrificio c’è nella vita di uno scrittore come lo è stato lui. E crediamo che possa ispirare una forma di immedesimazione. Io ad esempio sento che il mio rapporto con l’editoria è gramo, questo nonostante mi dia tante soddisfazioni, come la realizzazione e la pubblicazione di un libro come questo e la collaborazione con autori capaci come Maurizio e tutti gli altri e le altre con cui ho avuto la fortuna di lavorare. Io sento che tanti autori e tante autrici oggi possono sentire la sottile umiliazione che poteva sentire anche Lovecraft. La possibilità di immedesimazione ci ha dato una chiave per entrare nel suo mondo e inventare un tessuto connettivo che ci ha aiutato a rimettere insieme quei pezzi della sua biografia di cui parlavo.
L’idea quindi è di raccontare Lovecraft intingendo la sua vita dello stesso inchiostro con cui sono scritte le sue storie, un’immagine usata da Marco Peano nella prefazione e che trovo molto calzante. In questo modo la vita dello scrittore viene, almeno in apparenza, nascosta, mistificata, ma è un modo efficace (forse l’unico?) per raccontare un personaggio dallo sguardo e dalla mente così profonda e inquieta. Avete fatto vostra la riflessione che gli attribuite: “Le parole che vergavo venivano per sommergere, non per rivelare”. E in effetti, i testi di Marco Taddei e gli inchiostri pesanti di Maurizio Lacavalla sono come una marea oscura. Mi sembra che il processo sia stato quello di nascondere qualcosa che avete trovato. Come è stato lavorare in questo modo?
Maurizio: È vero, la nostra collaborazione è stata di scrittura e riscrittura l’uno sull’altro: in questo modo alcune cose sono state nascoste e altre scoperte. Ho trovato la sceneggiatura di Marco molto magmatica e di conseguenza anche malleabile. Tante volte mi sono permesso di prendere alcune parole e di farle diventare disegno. Faccio un esempio che mi è piaciuto particolarmente: Marco nella sceneggiatura mi aveva indicato che la madre di Lovecraft in quella scena doveva avere il “sogghigno di un’arpia”. Quell’espressione mi ha colpito così tanto che gli ho mandato uno storyboard in cui la madre diventa effettivamente un’arpia. Così è stato spesso: a volte mi sono aggrappato a delle parole o a delle frasi per amplificarle attraverso il disegno, altre invece i disegni hanno coperto parti di sceneggiatura. Altre ancora è stata la sceneggiatura a coprire i passaggi che non volevo disegnare, perché pensavo che il testo reggesse di più. Un esempio è la lettera nell’epilogo: ho preferito che quella parte diventasse quasi un libro illustrato, perché le parole di Marco erano potenti a sufficienza. In una delle prime mail che ci siamo scambiati avevo suggerito di lavorare come se ci mandassimo delle cassette su cui ogni volta l’altro sovrascriveva una nuova parte e poi la rimandava all’altro. Una sovrascrittura continua, che sedimentava.
Marco: Va anche considerato che la lavorazione di cinque anni ha portato il libro a essere ridisegnato e ripensato completamente. Il testo originale l’ho scritto dieci anni fa.
Maurizio: Poi ci siamo incontrati a Bari, e lì Marco mi ha chiesto di disegnargli una delle 88 bestie, ha anche comprato il mio fumetto Due attese (Edizioni BD, 2019). Ci siamo rivisti al Lucca Comics quello stesso anno e lui mi chiese se avessi mai letto Lovecraft. Io ho risposto che no, molto poco, e lui ribatte che ero il disegnatore che cercava, perché ero vergine da quel punto di vista, non ero influenzato dal modo di raccontare di Lovecraft e da come era stato raccontato.
Marco: Il testo che avevo scritto non era di nessun interesse per un appassionato di Lovecraft, o meglio, per un disegnatore che aveva già una sua forma costruita attorno a Lovecraft. Io avevo bisogno di un immaginario su cui poter costruire quasi da zero, anche perché Lovecraft è stato già raccontato da una marea di autori, primo su tutti ovviamente Alberto Breccia con I miti di Cthulhu.
Maurizio: Io infatti Breccia non l’ho riaperto per questo lavoro, lo avevo letto a quindici anni e poi l’ho ripreso durante l’Accademia, rimane uno dei miei riferimenti, ma averlo davanti per questo fumetto diventava… troppo. Infatti, non so se ci sono riuscito, ma ho optato per una strada più razionale, più ordinata. Marco per indirizzarmi mi ha regalato La pietra della follia di Benjamin Labatut, un saggio che si apre parlando proprio di Lovecraft per arrivare a trattare i tempi contemporanei, anche attraverso una serie di appunti sulle vite di fisici e di matematici.
C’è un lavoro attento, in effetti, sulle ombre e sui chiaroscuri. Ci sono addirittura fasci di luce che sono neri. È un lavoro in cui sono state utilizzate diverse tecniche che donano alle ombre e al nero diversi registri. Danno la sensazione che ci sia qualcosa dentro, un mistero oscuro, quasi brulicante. Quindi, e mi rivolgo più a Maurizio, che tecniche hai usato per ottenere questo effetto e come hai lavorato all’atmosfera e alle ambientazioni del fumetto?
Maurizio: Avendoci lavorato per cinque anni, naturalmente l’inizio è stato molto diverso dalla fine. Le prime tavole che avevo proposto a Marco nel 2019 erano fatte in maniera completamente diversa: utilizzavo dei fogli molto lucidi e la china era quasi acquerellata. Era uno stile un po’ figlio di Breccia, in effetti. Ma quando abbiamo realizzato che diventava un libro corposo, ho capito che più di duecento pagine con quella tecnica non erano sostenibili. Quindi ho dovuto fare marcia indietro e secondo me questo è uno degli aspetti più interessanti del fumetto: a un certo punto devi saper togliere per riuscire a restare sulla lunga durata. Perché un conto è la storia breve in cui ti puoi permettere una certa sperimentazione, con anche tecniche molto complesse, ma se il fumetto è lungo, devi riuscire a mantenere una costante, anche a livello di stile. Quindi togli, asciughi, cercando di conservare quello che ti piace, quello che sembra funzionare meglio. Io poi sono figlio dell’incisione, l’ho studiata in Accademia per diversi anni. Per tanto tempo ho cercato di fare fumetti come se facessi incisione, ma già all’Accademia avevo capito che non sarei durato più di 8 pagine in quella maniera. Allo stesso tempo ho cercato di mantenere un retrogusto di quella esperienza. In generale, ho utilizzato pennello e pennino, ci sono solo certi neri dati con il pastello litografico che è un tipo di pastello molto grasso, l’ho usato per certi effetti di texture, come la roccia. Altre parti sono fatte attraverso delle spatolate con pezzi di cartoncino, per certe architetture. Però ho cercato di essere il più asciutto possibile sulla tecnica, per avere un’idea di ordine e rigore che normalmente il mio tratto, di suo, non ha. Per queste ragioni ho limitato gli strumenti, ma ho cercato comunque di avere diversi effetti e diverse superfici all’interno di quei limiti che mi ero imposto.
L’altro versante è quello della voce narrante, che è quella di Lovecraft mentre parla in prima persona. E mi rivolgo più a Marco per questa domanda: che lavoro hai fatto per calarti nella voce e nella prospettiva dello scrittore di Providence? Come è andata?
Marco: Un elemento importante di questo libro è stato cercare di immaginare quello che gli passava per la testa. Infatti, certi passaggi sono strani o anche volutamente provocatori, perché era importante raccontare uno scrittore all’opera nel quotidiano, non nel mito. È stato impegnativo pensare a Lovecraft come una persona qualsiasi, tenendo presente che allo stesso tempo era anche geniale, visionario, con interessi multiformi, un grande conversatore.
Era uno che stava per i fatti propri, ma non un ritirato sociale. Anche nel periodo più cupo della sua vita a New York, è rimasto quasi da solo per un anno intero: la moglie era andata in California, aveva trovato lavoro da un’altra parte. Lui è rimasto a New York, la moglie pagava l’affitto, perché lui aveva gravi difficoltà economiche, tanto che a un certo punto è costretto a vendere i mobili di casa per avere almeno la carta su cui scrivere. In quel periodo, che è forse il momento più difficile della sua vita (anche se secondo me il momento più duro è stato quando è tornato a Providence) aveva comunque rapporti con gli altri scrittori di New York e non solo, con tantissimi altri. Anche perché il suo era un mondo amatoriale, proprio come lo possiamo immaginare, diverso dal mondo ufficiale: c’era un rapporto amicale, sodale tra gli scrittori.
Nella scrittura ti sei ispirato anche questo materiale? Alle lettere che scambiava con gli altri scrittori?
Marco: No, nel fumetto quella parte abbiamo cercato di lasciarla sullo sfondo perché era fin troppo conosciuta. Ci sono un paio di personaggi della sua sterminata lista di conoscenti, quello è uno dei pochi elementi che non abbiamo riscritto e che abbiamo preso da una lettera. È la scena della passeggiata per Providence nel quartiere italiano e irlandese, ci serviva per dare una rappresentazione del suo rapporto con la città natale. Quel quartiere è a quindici minuti a piedi da casa sua, ma lui non l’aveva mai visitato. Tanto che lui stesso nella lettera ha scritto “Ci ho messo vent’anni ad attraversare la strada”, come a dire che non sapeva che lì fuori, a pochi metri da casa sua, c’era un mondo per lui assurdo.
Maurizio: Rispetto a questo, un elemento interessante è la sua passione per i modellini plastici: creava intere città in cui muoveva i suoi personaggi. Nel fumetto abbiamo rappresentato un plastico che teneva in casa, da piccolo, perché già allora aveva questo desiderio di creare mondi. Eppure ci mise vent’anni per andare nel quartiere di fronte.
C’è un lavoro complesso e interessante sul tempo, che è un grande tema nei testi e nella scrittura di Lovecraft. Nel vostro fumetto troviamo tavole strutturate come una clessidra, Lovecraft manifesta questa sua ossessione per la rarefazione, il decadimento, il corpo umano come meccanismo, senza contare la lettera del padre che viaggia attraverso tutta la sua vita. Ho trovato molto efficace la sequenza del pendolo, sintetizza l’intera atmosfera del fumetto: sospeso, proiettato fuori dal tempo. Come avete lavorato su questo aspetto? Vale a dire il tempo di Lovecraft e il tempo in Lovecraft.
Maurizio: Io lavoro spesso con il tempo, è una tematica che trovo affascinante. Quando affronto questo tema, ho due capisaldi: T.S. Eliot, in generale, e Kurt Vonnegut con Mattatoio n. 5. Quindi l’eterno presente, periodi che si sovrappongono, un tempo che non esiste e che può essere titanico, gigantesco, oppure può svanire in un niente infinitesimale. È una delle caratteristiche anche dei racconti di Lovecraft, con i suoi infiniti, l’immensamente piccolo e l’immensamente grande. Anche nel fumetto siamo andati in questa direzione, stiamo leggendo la sua morte e subito dopo troviamo lui che scrive. Essere sempre in un solo punto, tutto quanto si svolge lì.
In effetti, si dice che nel fumetto il tempo è spazializzato. Quale pensate che sia il potenziale del fumetto nel poter raccontare queste temporalità non lineari, non canoniche? E come le avete sfruttate?
Marco: È vero, il fumetto è uno dei pochi mezzi che riesce a rendere questo aspetto del punto nel tempo: in un punto passano infinite rette, così come in un punto temporale passano infiniti tempi, in continuazione. In altre parole, il punto è sia eterno che istantaneo. Il fumetto definisce questa cosa in maniera perfetta: in una vignetta Lovecraft è seppellito, nell’altra è giovane. Puoi tornare indietro, puoi andare avanti, è tutto quanto nella pagina.
L’aspetto interessante è che c’è un limite nelle pagine, il lettore deve spaginare in un certo ordine, dall’inizio alla fine, e può vedere le pagine due alla volta. Che è anche un limite della nostra mente, ma il fumetto ha un potenziale in questo senso, può giocare con questi aspetti temporali. Noi ci abbiamo provato, abbiamo lavorato in quella direzione. Alla fine si tratta di ingannare il tempo, scrivendo una storia: è una cosa che facciamo costantemente.
Maurizio: Come dice Elliot “Il tentativo è l’unica cosa che ci appartiene”.
In un passaggio del fumetto, la madre di Lovecraft gli dice che le sue sono solo “miopi illusioni”. Lui risponde: “non è l’illusione una forma di salvezza?”. Voi avete creato una vita di Lovecraft, un’illusione che attinge al suo immaginario. Volevate salvare Lovecraft, in qualche modo?Marco: Forse noi ci siamo salvati con Lovecraft.
Maurizio: Sicuramente abbiamo ingannato il nostro tempo e noi ci siamo salvati facendo questo fumetto, negli ultimi 5 anni. Non c’è metodo in quello che faccio perché è il disegno stesso il metodo e, in fondo, è un modo per salvarmi. Questa storia ha salvato me, non Lovecraft. Disegnarlo e ridisegnarlo mi ha fatto compagnia, è stato anche tragico a volte, ne ho ridisegnato l’80%. Ma insomma, il processo è lo scopo.
Intervista realizzata il 28 settembre 2024 al Treviso Comic Book Festival
BIOGRAFIE
Marco Taddei (1979) è scrittore e sceneggiatore. Esordisce nel 2008 con In DOSI MInime, una raccolta di poesie pubblicata per Firenze libri. Sui disegni di Simone Angelini pubblica nel 2012 Storie Brevi senza pietà e, l’anno successivo, Altre storie brevi e senza pietà, che vale agli autori il premio Rivelazione al Treviso Comic Book Festival 2014. Nel 2015, sempre con Angelini, pubblica Anubi (GRRRZ Comic Art Books, ristampato da Coconino Press), premio Boscarato a Treviso come Miglior Fumetto italiano nel 2016 e Miglior fumetto del 2015 per i lettori di Repubblica XL. Tra gli altri suoi lavori ricordiamo la scrittura per La Nave dei Folli e Il nuovo palazzo della sirenetta, per Orecchio Acerbo, Malloy, Gabelliere Spaziale uscito per Panini, 4 Vecchi di Merda, Coconino Press. Nel 2020 scrive Il Battesimo del Porco, disegnato da Samuele Canestrari e pubblicato da MalEdizioni, mentre l’anno successivo esce La Quarta Guerra Mondiale con i disegni di Spugna, edito da Feltrinelli Comics, cui segue, per lo stesso editore, Vita da soldatinen.
Maurizio Lacavalla (1992) si forma all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Spazia tra disegno, illustrazione, pittura e incisione. Nel 2016, insieme ad altri tre autori, fonda Sciame, collettivo di fumetto e illustrazione con sede a Bologna che ha dato alle stampe, tra le altre pubblicazioni, la rivista Armata Spaghetto. Ha lavorato con Emidio Clementi dei Massimo Volume per la realizzazione di Hotel Massilia. Ha all’attivo diverse collaborazioni con festival e realtà di autoproduzione. Nel giugno 2019 pubblica il suo primo fumetto di ampio respiro come autore unico, Due attese, per Edizioni BD. L’anno successivo dà alle stampe per lo stesso editore, Alfabeto Simenon, sui testi di Alberto Schiavone. Vive e lavora a Bologna.