Antonio Solinas: dall’altra parte della barricata – 1a parte

Antonio Solinas: dall’altra parte della barricata – 1a parte

Antonio Solinas è oggi uno degli editor di Panini Comics, ma in passato ha vissuto le esperienze di fanzinaro e di critico agli albori del web. Prima parte.

Antonio SolinasLaureato e PhD in Chimica Organica, Antonio Solinas ha lavorato nel campo bio-organico prima nel Regno Unito e poi in Italia. Dopo essere stato impiegato, fra il 2009 e il 2012, presso un’azienda privata, dal 2013 ha cambiato completamente settore, diventando editor e traduttore per Panini Comics.
Fanzinaro e fondatore del primo circolo dedicato ai fumetti in Sardegna a metà anni ’90, il circolo
Metropolis, ha pubblicato come sceneggiatore per la casa editrice Liberty di Ade Capone ed è stato tra i fondatori di alcune storiche webzines dedicate al fumetto, Rorschach, Comics Code e De:Code.
Ha collaborato alla rivista 
Scuola di Fumetto e ha redatto pezzi di critica per iniziative editoriali importanti fra cui Alan Moore: Portrait of an Extraordinary Gentleman (Abiogenesis Press), Jack Kirby: Tributo al Re(Comicus Publishing) e L’Incredibile Marvel – 75 Anni di Meraviglie a Fumetti (Comicon Edizioni).
È co-autore di libri dedicati a due figure chiave del fumetto britannico moderno, Dave Gibbons e Grant Morrison
Lezioni di Fumetto: Dave Gibbons, in collaborazione con smoky man, è uscito per la Coniglio Editore nel 2008, mentre Grant Morrison: All Star, scritto insieme a Giovanni Agozzino e Nicola Peruzzi, è stato edito nel 2010 dalla Double Shot Edizioni.
In Panini Comics dedica particolare attenzione al campo dei fumetti “indie” americani. Fra le opere da lui curate c’è la pubblicazione, per la prima volta in modo organico e completo, del corpus editoriale del pluripremiato 
Concrete di Paul Chadwick, la prosecuzione di Love and Rockets dei fratelli Hernandez, la gestione (insieme a Nicola Peruzzi) del monumentale ciclo di Grendel, la proposta per la prima volta in Italia di Zenith di Grant Morrison e Steve Yeowell e la supervisione di diversi volumi prodotti da Brandon Graham e Jonathan Hickman.
Antonio Solinas è anche un grande appassionato di hip hop americano, per anni ha tenuto un blog personale dedicato alla musica che ama, 
Canteen of the Deranged/La Mensa dei Diseredati, ha collaborato con altre interessanti realtà del mondo italiano online della doppia h e ha scritto per la rivista Superfly. Nel 2015, la passione per il fumetto e quella per l’hip hop si sono fuse quando è stato il curatore/traduttore dell’edizione italiana  di Hip Hop Family Tree, il fumetto di Ed Piskor che narra la nascita del movimento hip hop.
A breve, poi, per Becco Giallo uscirà una biografia a fumetti dedicata al rapper Tupac Shakur, scritta da Solinas per i disegni di Paolo Gallina.
Di tutto questo, e anche di più, abbiamo parlato in una lunga chiacchierata con Antonio1.

Ciao Antonio e ben ritrovato su Lo Spazio Bianco.
Partiamo dagli albori. Hai iniziato a scrivere di fumetto ben 25 anni fa, nel 1991: ancora non c’era internet e tu hai iniziato a muovere i primi passi nella critica.
Gli inizi per me sono stati abbastanza casuali: nonostante l’amore per i fumetti (quelli di supereroi in particolare), non avevo mai pensato a un ruolo diverso da quello di lettore. Le persone che mi coinvolsero nella prima avventura editoriale, una fanzine chiamata SeD – Storie e Disegni, erano dei perfetti sconosciuti (oggi sono diventati alcuni dei miei migliori amici) che a una mostra del fumetto di Lucca avevano assistito all’esplosione del movimento delle fanzine. Queste persone – tra le quali c’era Emiliano Longobardi, l’unico altro ancora oggi “attivo” nel fumetto – avevano già creato un numero zero e mi chiesero se fossi interessato a far parte di questa avventura amatoriale: io accettai e da lì è iniziato tutto quanto.

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Rorschach #1

Nella tua esperienza amatoriale, l’ultimo decennio del secolo scorso è stato ancora caratterizzato dalla carta, mentre a partire dal nuovo millennio è arrivato lo spartiacque dato dall’affermazione di internet. Oggi come oggi, un percorso come quello da te seguito pensi sia replicabile?
No, non credo. In quei primi anni ’90, l’unico modo per interfacciarsi con i professionisti era andare alle fiere, unico luogo dove si potevano incontrare gli autori e prendere contatti con loro per poi condurre interviste telefoniche: un meccanismo molto più lungo e involuto rispetto a quello di oggi.
Idem per quanto riguarda la scrittura “attiva”. I miei primi contatti professionali, infatti,sono avvenuti tramite l’incontro di persona, e non postando immagini su internet, come si può fare oggi (meno male).
Mentre facevamo la nostra fanzine, avevamo avuto l’idea della creazione di un nostro universo fumettistico, che poi però non partì mai perché troppo ambizioso.
Emiliano ed io eravamo però entrati molto in sintonia per quello che riguardava lo sceneggiare e avevamo iniziato a proporre le nostre idee a case editrici e sceneggiatori. Puntualmente venivamo rimbalzati – anche giustamente – visto che le nostre proposte non avevano alcun appeal dal punto di vista commerciale, come una serie che era caratterizzata da non avere un protagonista fisso ma il cui personaggio principale era invece una città. Oggi sarebbe molto più vendibile, ma allora era un suicidio!
A un certo punto, però, arrivò anche qualche riscontro positivo, in particolare da parte dello scomparso Ade Capone, che in quegli anni era tra gli autori italiani di fumetto più popolari, con idee originali e per certi versi rivoluzionarie rispetto a quello che era il canone del fumetto italiano popolare dell’epoca.
Ricordo ancora la sorpresa di una telefonata ricevuta a casa da Capone che si era preso la briga di chiamarmi per espormi le critiche e i limiti (ma anche qualche pregio) delle proposte che gli avevo lasciato a una mostra di Lucca.
Questo spronò Emiliano e il sottoscritto a lavorare ancora più duramente alle nostre idee e, in occasione di una sua presenza ad Alghero decidemmo di proporre ad Ade qualcosa di più “commerciale”. Stavolta il progetto gli piacque e nacque Xiola – Primo sangue, pubblicato dalla Liberty e disegnato da Werther Dell’Edera (successivamente diventato un beniamino dei lettori di almeno due continenti), che all’epoca vendette sulle 2000 copie.
Quell’esperienza però si fermò lì perché, dopo essermi laureato in chimica, nel 1998 partii per l’Inghilterra per un dottorato di ricerca a Southampton.

…e la lontananza da Sassari significò anche l’inizio dell’esperienza sul web, giusto?
Sì. Partito da Sassari con la ferma decisione di non impelagarmi più in nessuna fanzine cartacea, alcuni amici, (fra cui sempre Emiliano e Simone Satta, con cui poi avremmo fatto altro, come De:Code) mi coinvolsero nel progetto Rorschach, che sarebbe diventata la prima prozine digitale italiana sul fumetto, un foglio elettronico settimanale inviato per posta elettronica a circa 400 persone, molte delle quali erano professionisti del settore (fra i lettori c’erano addetti ai lavori influenti come M.M. Lupoi, Andrea Plazzi, Luigi Bernardi, e tanti che dimentico).
Anche questa si rivelò un’esperienza pesantissima, sia per i limiti tecnici della tecnologia digitale dell’epoca, sia per la cadenza settimanale delle uscite. Nonostante questo, riuscimmo ad andare avanti per tre anni e 150 numeri, anche con discrete soddisfazioni e alcuni scoop editoriali: per esempio, fummo i primi in Italia a dare la notizia della pubblicazione di The Dark Knight Strikes Again di Frank Miller.

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L’ultimo aggiornamento del sito Comics Code

Poi ci fu il passaggio dalla newsletter al sito.
Decidemmo di cimentarci nella realizzazione di un sito, in quella che fu l’epoca d’oro della nascita di esperienze tuttora attive come Comicus e Lo Spazio Bianco, ma anche altre che hanno lasciato un segno come Glamazonia.
A differenza degli altri siti con cui eravamo in amichevole “competizione”, che davano spazio alle notizie e puntavano sull’attualità, noi avevamo optato per una linea editoriale basata sull’approfondimento, per certi aspetti con un taglio quasi da rivista cartacea trasposta in digitale.
Tra l’altro, avendo io in quegli anni l’obbligo e la fortuna di dovere parlare per forza di cose inglese tutti i giorni, iniziai a contattare vari autori statunitensi e britannici e, fra e-zine e sito, ci togliemmo la soddisfazione di intervistare, spesso per la prima volta per quanto riguardava l’Italia, artisti del calibro dei fratelli Hernandez, Dan Clowes, Matt Wagner, Joe Quesada e tanti altri.

Tutta questa esperienza di critica fumettistica, prima su carta e poi sul web, ti ha poi portato al traguardo della pubblicazione di due saggi, quello dedicato a Dave Gibbons, con smoky man, e quello su Grant Morrison, scritto insieme a Nicola Peruzzi e Giovanni Agozzino.
La mia esperienza universitaria inglese si concluse nel 2004 quando decisi di rientrare in Italia, accettando un assegno di ricerca all’Università di Siena. In quel periodo ho iniziato a collaborare con Scuola di fumetto, rivista tuttora esistente, per la quale conducevo interviste ad autori di lingua inglese, alcune insieme a smoky man, altro personaggio che anima da sempre il mondo digitale del fumetto e con il quale c’è un’amicizia ultradecennale.
Le interviste che venivano pubblicate sulla rivista si aggiravano intorno alle 6000-7000 battute. Quando intervistammo Dave Gibbons (tra l’altro inviandogli le domande per mail e ricevendo le risposte sotto forma di file mp3 da sbobinare), eravamo arrivati a mettere insieme un pezzo di circa 35000 battute: fare l’editing per farlo rientrare nelle 7000 necessarie sarebbe stato impossibile.
Allora smoky, sempre un vulcano d’idee, propose alla Coniglio Editore, che aveva anche una collana di saggi, di raccogliere l’intera intervista in un libro, completando il volume con altri materiali tra cui una lezione che Gibbons aveva tenuto sull’uso del digitale nel fumetto.
Nello stesso periodo, presa la rincorsa, ci lanciammo e contattammo anche Alan Moore, a cui facemmo un’intervista telefonica di circa un’ora e mezzo (immaginatevi il delirio a sbobinarla!), poi pubblicata in due parti su Scuola di fumetto e su Blue. Anche quell’intervista sarebbe potuta tranquillamente essere un libretto.
Per quanto riguarda il libro Grant Morrison: All Star (Edizioni Double Shot), sono sempre stato un grande appassionato dell’opera di Morrison, ed ero andato vicino a intervistarlo in più di un’occasione senza mai riuscirci. E lo stesso si dica per Nicola e Giovanni, gli altri due autori del libro.
Nel 2009, trovandomi per lavoro a Pavia, lontano da mia moglie che era rimasta a Siena in attesa del nostro secondo figlio, decisi che il momento di scrivere un libro su Morrison era arrivato. Per una meravigliosa coincidenza, anche Nicola e Giovanni avevano deciso che lo avremmo fatto, eventualmente anche senza editore. Fortunatamente, il progetto ha avuto un epilogo felice visto che invece l’editore con cui pubblicarlo invece lo abbiamo trovato e quel libro è ancora oggi una delle cose di cui vado più fiero, nella mia attività sullo scrivere di fumetto ma non solo.
Indirettamente, probabilmente quella pubblicazione, molto ben recepita da tanti di quelli che hanno letto il libro, è stata anche un biglietto da vista per la odierna carriera in Panini.

All Star Morrison_CvrQual è a tuo avviso la differenza più grande tra fare critica e divulgazione su carta e sul web?
Sinceramente, non credo di avere mai usato approcci diversi. Certo, se dovessi iniziare oggi mi troverei in una situazione diversa, visto che l’attuale fruizione su internet è diventata molto veloce, quindi non ti puoi permettere di utilizzare più di 5000-6000 battute per parlare di un argomento.
Oggi i lettori hanno cambiato abitudini e non ce la fanno a leggersi una pagina intera scritta in modo fitto, mentre sono interessati a modalità di lettura più agili. Credo che questa sia la differenza fondamentale.
Ovviamente anche nell’agilità e nella brevità si può essere incisivi e si può dare lo spunto per accendere la curiosità del lettore e spingerlo ad approfondire l’argomento per conto proprio.
Che poi è sempre stata la convinzione del sottoscritto e degli altri che hanno fatto un percorso con me fin dai tempi di SeD: non abbiamo mai avuto la presunzione della completezza, volevamo fornire spunti e portare il lettore a riflettere.
Lo scorso anno ho scritto un capitolo per il catalogo della mostra del Comicon dedicata alla Marvel e ai suoi 75 anni di vita. Parlando della scienza nei fumetti, ovviamente non ho ricercato l’esaustività, ma ho provato a portare il semplice punto di vista di un ex-scienziato a riguardo di quel particolare aspetto, implicitamente invitando i lettori a esplorare per conto loro, se incuriositi dalle mie parole.

Le tre strade che fino a oggi hai seguito nella tua vita – la carriera universitaria, le piccole esperienze di sceneggiatura e la critica fumettistica – hanno trovato una sintesi oggi nel tuo lavoro di editor in Panini.
L’ultimo capitolo della mia esperienza professionale, dopo i miei studi universitari, mi aveva fatto rientrare in Sardegna, tramite un’azienda privata localizzata nel parco scientifico di Porto Conte. Al tempo non pensavo assolutamente di continuare la mia esperienza fumettistica in maniera professionale: le ultime esperienze con il sito De:Code (insieme a Nicola Peruzzi e Simone Satta) erano molto rilassate e diluite. Non mi sarebbe dispiaciuto lavorare saltuariamente in quel campo, anche per farci qualche soldino in più, e infatti ho continuato a collaborare con alcune realtà professionali, anche se in modo molto “soft”.
Chiaramente, essendo l’ambiente della critica fumettistica sul web abbastanza ristretto, ero in contatto con molte persone che in quell’ambiente avevano mosso i primi passi e poi erano finiti per trasformare la loro passione in un lavoro vero e proprio. Tra questi c’era anche il già citato Nicola Peruzzi, oggi mio boss alla Panini.
Avevo già avuto un contatto con Panini durante una Lucca Comics (forse 2010?) ma i tempi editoriali, generalmente lunghi, e i problemi lavorativi e familiari dell’epoca avevano creato una situazione di stallo, che si è risolta quando Nicola è entrato in Panini.
Sentendoci spesso per chiacchierate extrafumettistiche, una volta per caso venne fuori il discorso del mio colloquio a quella famosa Lucca. Nicola, preso atto del fatto che mi interessava ancora collaborare con la casa editrice, si informò della situazione e le cose si rimisero in moto. Feci una prova di supervisione sul primo volume di Concrete, che fu apprezzata, dopo di che fui assunto con un contratto di collaborazione continuativa a progetto.
Nel frattempo, l’azienda farmaceutica con cui lavoravo in seguito mi aveva proposto un rinnovo di contratto insoddisfacente: a quel punto, ho rischiato un po’ e ho deciso di fare il “grande salto”. Fortunatamente con Panini sono sempre state solo rose e fiori e adesso faccio solo l’editor.
Devo ammettere che una parte del credito che mi è stato dato riguardava la mia esperienza sulla critica web, ma, ripeto, probabilmente l’avere anche una pubblicazione cartacea come il saggio su Morrison nel curriculum ha avuto un certo peso.

The MassiveIn che cosa consiste il tuo lavoro? Ti va di spiegarlo ai nostri lettori?
Io svolgo due diversi tipi di lavoro per Panini. Uno che riguarda la traduzione e qui è presto detto: traduco il fumetto e poi passo la traduzione, corredata di un file con l’ordine dei balloon (il cosiddetto “balloon placement”), all’editor.
L’altro riguarda la supervisione, soprattutto di volumi da fumetteria e libreria, fatta eccezione per la mia esperienza su The Massive, serie che però non ha avuto una grossa fortuna in edicola.
Tornando ai volumi, essi ripropongono o l’edizione italiana di un’opera già uscita in volume nel mercato originale, oppure sono la raccolta di varie storie apparse originariamente in albi singoli, come nel caso di Providence di Alan Moore. I due tipi d’approccio ovviamente pongono problemi di adattamento diversi.

Preferisci di più il lavoro di traduzione o di supervisione? Quali sono, di queste due attività, le difficoltà e gli aspetti che ti danno più soddisfazione?
Personalmente, mi piace di più il lavoro di editing, che non si riduce soltanto alla supervisione di una traduzione. Può sembrare banale, ma di solito l’inglese scritto esprime gli stessi concetti in frasi molto più corte rispetto all’italiano, dunque la traduzione deve anche essere adattata allo spazio fisico dei balloon nati per contenere il testo originale.
Io normalmente lavoro con ottimi traduttori, quindi il mio ruolo è semplificato, però in un volume di 96 pagine con una media di dieci balloon per tavola ci può stare di trovare qualche refuso di traduzione o una frase in italiano che non entra nella nuvoletta. A quel punto, il mio intervento è quello di accorciare o di trovare una frase più rispondente alla realtà. Inoltre, è dalla consultazione fra editor e traduttore che spesso nascono le traduzioni più riuscite di certi nomi o frasi. Dato il lavoro di squadra a monte, solo in pochissimi casi (a volte però decisivi) mi prendo la libertà di cambiare la traduzione di una frase, se non suona appropriata.
Oltre a questo aspetto, l’editing presuppone la redazione di uno schema che contempli esattamente cosa contenga ogni pagina del volume: si fa, cioè, il cosiddetto timone, un file excel dove sono riportate i contenuti dalla prima all’ultima pagina, sia le parti del fumetto vero e proprio che le parti editoriali. Questo è un lavoro stimolante e a volte anche difficile, perché spesso devi vedertela con dei limiti cui sei costretto dal fumetto originale, come la presenza per esempio di splash page doppie, che impongono che tu studi la versione italiana in volume in modo che la tavola non venga spezzata.
Inoltre, l’aspetto che curo particolarmente nei volumi dei quali mi è affidata la supervisione è quello di fornire ai lettori delle note che inquadrino l’opera, magari scrivendo un’introduzione che la presenti e, se lo spazio lo consente, una postfazione che analizzi gli aspetti più interessanti del fumetto.
Anche il lavoro di traduzione è per me stimolante, ma personalmente lo trovo più stressante anche proprio dal punto di vista di energie fisiche e mentali da spendere. Con un’analogia calcistica, preferisco fare il regista che il centravanti.

HIP-HOP-FAMILY-TREETi è stato mai chiesto di ricoprire entrambi gli aspetti del tuo lavoro contemporaneamente?
Talvolta mi è capitato di fare per uno stesso volume tanto la traduzione quanto l’editing, anche se ha più senso che siano due persone diverse a svolgere questi lavori, proprio per evitare sviste o errori. Per Hip Hop Family Tree mi è stato chiesto di assommare i due ruoli perché era un fumetto molto particolare come traduzione e ci voleva qualcuno con conoscenze approfondite sulla musica hip hop, altra mia grande passione al di fuori del fumetto. Ho comprato il mio primo disco di musica hip hop nel 1987 e da allora non ho mai smesso di ascoltarla.
Tra l’altro, per Hip Hop Family Tree era stato anche pensato di rivolgersi a un traduttore esterno alla casa editrice e al mondo del fumetto, guardando proprio verso i professionisti e gli studiosi in campo musicale. Questo però avrebbe potuto creare altri problemi (proprio per quanto detto prima), e quindi in Panini è stato deciso di affidarmi la gestione completa.

Che cosa del tuo bagaglio di esperienze quale critico e divulgatore sul web ti sei portato dietro nel tuo attuale lavoro e ti sono tutt’oggi d’aiuto nella tua professione?
Come dicevo anche prima, quando posso cerco di fornire ai lettori un apparato redazionale esplicativo nei volumi che curo. Questa mia tendenza deriva in primis dal mio retaggio di lettore che si è formato con le pubblicazioni supereroistiche che invasero nuovamente le edicole (e poi le fumetterie) italiane dalla metà degli anni ’80 in poi. Gli albi editi da Star Comics e Play Press offrivano ai lettori un apparato di note curate da editor appassionati ed esperti, quali Luca Scatasta o lo stesso M.M. Lupoi, che servivano luce sui passaggi più oscuri e meno noti al pubblico dei fumetti contenuti nell’albo e che contestualizzavano gli eventi anche in relazione a eventuali richiami alla realtà statunitense.
Dato questo imprinting come lettore, nel momento in cui ho cominciato a scrivere pezzi di critica e analisi ho pensato di pormelo come obiettivo. Divulgare, o comunque dare un “salvagente” al lettore è un’idea che non mi ha mai abbandonato ed è stato quindi naturale utilizzare un metodo lavorativo analogo anche nel momento in cui la passione è diventata lavoro.
Discorso simile può essere fatto per le interviste: sin dai trascorsi di fanzinaro, ho sempre visto nella possibilità di dialogare e interrogare un autore un mezzo per approfondire le storie a fumetti che leggevo, scoprendone i meccanismi interni o arcani dalle parole di coloro che li avevano creati. Per tale motivo, quando ne ho la possibilità, continuo a inserire nei volumi che curo anche interviste agli autori. È successo, solo per fare un esempio, nei volumi dell’omnibus dedicato a Grendel, che hanno ospitato interviste ad artisti del calibro dei fratelli Pander, Tim Sale e John K. Snyder III.

Fine prima parte


  1. Si ringrazia Emiliano Longobardi per aver concesso l’autorizzazione a usare alcuni stralci della conversazione tenutasi tra lui e Antonio Solinas il giorno 16 gennaio 2016 presso la libreria Azuni di Sassari 

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