Per la mia generazione di quasi quarantenni, il wrestling – e la sua versione giapponese, il catch – rappresenta uno dei miti pre-adolescenziali che, al fianco di cartoni giapponesi e maratone tv horror, hanno formato il nostro immaginario. Come non ricordare Dan Peterson commentare con quel misto di epica e ironia, mai sopra le righe, gli scontri ammantati di retorica hollywoodiana tra quei pittoreschi energumeni? Era un’epoca ancora innocente per molti versi, nella quale agli atleti non era chiesto il fisico quasi sovraumano, scolpito muscolo per muscolo, dei protagonisti di oggi.
Se agli occhi di tanti ragazzi italiani questo insieme di retorica, spettacolarità, azione fisica – al di là della tecnica, a volte più vicina al “giochiamo alla lotta” che a una parvenza di arte marziale – e personaggi improbabili esercitava un fascino innegabile, chissà che cosa poteva rappresentare a quelli di un ragazzo americano dell’epoca. Il wrestling in fondo può essere visto come la (naturale?) evoluzione degli spettacoli di cowboy sul finire dell’era del Far West, uno spettacolo capace di celebrare e/o creare leggende viventi a uso e consumo degli spettatori e dei loro sogni.
Box Brown sceglie di raccontare una fetta di questo mondo usando come chiave la vita di una delle figure più particolari e peculiari del wrestling degli anni ‘80, Andrè the Giant. Un uomo enorme e sgraziato, costretto da una rara malattia a crescere oltre i limiti sostenibili dal proprio fisico, che, a differenza dei tanti lottatori in costume, con storie bizzarre e colorite, era per sua stessa natura un personaggio capace di colpire la fantasia degli appassionati.
La vita di questo moderno freak ha rappresentato per molti versi uno specchio fedele degli eccessi e del business di un mondo votato allo spettacolo e all’eccesso, più che allo sport. Ma allo stesso tempo ne ha incarnato anche quella sorta di codice d’onore tra atleti ben distante dal circo di meschinità e rivalità che veniva confezionato e trasmesso al pubblico.
Un ritratto sicuramente benevolo, che accenna appena ai problemi personali dell’uomo, tra abusi d’alcool e un figlio abbandonato, e che si limita a registrare le poche testimonianze negative senza approfondirle. L’autore sottolinea piuttosto le difficoltà fisiche e sociali di Andrè, il suo rifugiarsi nel mondo della lotta come fosse l’unico adatto a un uomo cosi grande, le sue qualità di atleta fedele alle regole del gioco fino a mettere a discapito la sua immagine pubblica. D’altra parte, viene da immaginare leggendo queste pagine che il suo mondo fosse quello degli spogliatori e del ring, più che quello fuori dai palazzetti, dove il confronto con le altre persone lo portava a ricordargli costantemente la sua natura.
La dicotomia tra Andrè sul ring e Andrè come persona, come interprete di una parte, rappresenta una delle parti più interessanti di questo ritratto.
Il fumetto si muove alternando scene di vita reale, dove non sembra esserci spazio per troppa introspezione o per pietismo, ad altre nelle quali viene ripercorsa la cronaca fedele degli incontri maggiormente iconici del Gigante, come quello storico contro Hulk Hogan.
Box Brown è un paladino dell’autoproduzione negli USA, oltre che grande appassionato di wrestling; il suo stile, cartoonesco nelle mimiche facciali, sgraziato e legnoso nel disegnare i movimenti, è semplice e immediato. Per arricchire la narrazione fa largo uso di tecniche come le linee ciniche, per poter sottolineare le espressioni si affida a poche linee nette sui volti dei personaggi.
La vita di Andrè che emerge da queste pagine si muove sul confine tra tragedia e commedia, tra sport e finzione, tra onore e dissolutezza. Una rappresentazione parziale e affettuosa che non nasconde la soggezione nell’affrontare una icona dell’immaginario popolare delle ultime decadi.
Abbiamo parlato di:
André the Giant – La vita e la leggenda
Box Brown
Traduzione di Aurelio Pasini
Panini Comics, 2014
240 pagine, brossurato, bianco e nero – 15,00€
ISBN: 9788891207661