La lettura di Vuoto a rendere, l’ultimo fumetto di Silvia Rocchi (24 Ore Cultura), ha un po’ il sapore di un’occasione persa. Il fumetto è ambientato in un mondo allagato a seguito di una catastrofe e racconta il viaggio della protagonista, Eva, attraverso questa realtà dominata dall’acqua. Si intuisce immediatamente come il fumetto voglia ingaggiare un tema contemporaneo come la crisi climatica, in uno scenario che attinge alla vasta produzione del genere postapocalittico e a quella, meno ricca in italia, dell’eco-distopia.
Sui contenuti della storia torneremo, perché ciò che sorprende a un primo sguardo è il disegno: non si può non provare ammirazione, infatti, per le tavole realizzate in monotipia dall’autrice, alternate da altre in vividi colori pastello per le parti di flashback dei personaggi. Le prime riescono a comunicare con forza evocativa la condizione di chi attraversa questo mondo sommerso: il blu e l’azzurro dominano la pagina, i contorni del paesaggio e dei corpi si sfumano. I disegni sono impregnati di un senso di perdita che assume toni poetici, una pace malinconica che chiede di essere esplorata. Complice in questo senso l’utilizzo di un tratto grezzo che dona un’aria antica ai disegni di Silvia Rocchi, quasi da graffiti rupestri, e fanno pensare a come la catastrofe abbia ridotto l’umanità ai minimi termini, a bisogni primari quali la sopravvivenza, la relazione e il racconto. È una storia antica quella raccontata in Vuoto a rendere, che attraversa tempi e spazi immensi come l’orizzonte e il cielo di questo mondo allagato.
Eppure, proseguendo con la lettura qualcosa comincia a stonare. Eva incontra tre personaggi, li vediamo dialogare, ne leggiamo il passato, e vengono alla mente situazioni simili, quelle di un racconto di viaggio in uno scenario postapocalittico scandito da incontri inaspettati (due testi cui si pensa facilmente sono La strada di McCarthy e La terra dei figli di Gipi). I riferimenti però, sembrano anche quelli di situazioni allegoriche, di personaggi che sono più dei simboli da interpretare, ciascuno con un proprio messaggio. Si tratta di un’impostazione dei racconti di viaggio con radici profonde che affondano nel mito: viene in mente Ulisse, anche lui alle prese con una vasta distesa d’acqua da attraversare
. Tuttavia (e forse anche per queste ragioni), nel fumetto di Silvia Rocchi si fatica ad affezionarsi ai personaggi, i dialoghi suonano fuori luogo, poco realistici, come se i protagonisti stessero appunto recitando una parte, quella di una tappa in un viaggio di formazione. D’altra parte, non risulta facile nemmeno empatizzare con la protagonista, dato il poco tempo che viene dedicato a farci capire il suo stato d’animo e le sue motivazioni. O meglio, queste si possono capire dalle spiegazioni che fornisce nel suo monologo interiore, ma le sue emozioni vengono dette, raccontate, in maniera esplicita e anche un po’ didascalica, senza arrivare a essere rappresentate, complici il disegno scarno e un racconto comunque breve scandito da tappe serrate.
In generale, il testo dà l’idea di voler spiegare la situazione e chiarire i riferimenti di cui sopra, risultando poco naturale. In una situazione come quella rappresentata, ragionamenti e dialoghi così lucidi suonano sopra le righe, i personaggi raccontano pensieri e sensazioni in maniera molto selettiva (anche attraverso flashback puntuali, concentrati su situazioni tipiche che vorrebbero riassumere l’intera condizione del personaggio), con il risultato di esplicitare metafore e riferimenti già di per sé chiari (come i personaggi minacciosi che vogliono ristabilire i confini).
In realtà però, mi rendo conto che il problema non è neanche questo: i testi, presi da soli, potrebbero anche funzionare. È dal loro rapporto col disegno che emerge una profonda differenza di registri: lo abbiamo detto, il disegno è poetico, evocativo, rarefatto, mentre i testi sono eccessivamente narrativi ed espliciti. I primi lasciano uno spazio sterminato a chi legge, un terreno in cui perdersi e vagare insieme alla protagonista, mentre i secondi impongono una direzione precisa, chiudono l’orizzonte di esplorazione. Se i primi si proiettano fuori dal tempo e dallo spazio, i secondi sembrano voler toccare a tutti i costi certi riferimenti (il postapocalittico, il clima, il viaggio, i confini, la famiglia, le relazioni). Ecco, forse più che spiegare la situazione, i testi spesso danno l’impressione di voler spiegare i disegni, una dinamica che nel fumetto inevitabilmente appesantisce e limita l’esperienza di lettura. Questo accade a maggior ragione quando ci troviamo davanti a disegni lirici che invitano all’interpretazione, facendo affidamento su una funzione più emotiva che narrativa.
Mi vengono in mente due fumetti che, per come gestiscono il disegno e la narrazione, hanno dei tratti in comune, e citarli forse aiuta a chiarire il punto. In Anche le cose hanno bisogno, Eliana Albertini (Rizzoli Lizard 2022) propone una narrazione rarefatta, cadenzata, anche in questo caso con una protagonista che vaga in un mondo tra il poetico e l’ostile. In questo caso, l’autrice dà una voce credibile alla protagonista attraverso un lavoro che si muove su più livelli: a essere personali qui sono il modo di pensare e di scrivere, vengono riportati errori grammaticali e di sintassi, il lettering stesso della grafia ci dice molto della protagonista. A livello di contenuti, del resto, non è necessario che il personaggio ci spieghi cosa sta facendo: siamo noi a dover intuire come si sente sulla base di una serie di indizi che l’autrice dispone lungo il racconto.
Il secondo esempio è Da sola di Percy Bertolini (Diabolo 2021): qui l’autor* è molto consapevole del portato evocativo dei propri disegni, che sono, come in Vuoto a rendere, a tutta o a mezza pagina; ed è per questo motivo che per accompagnarli sceglie un testo già esistente, senza nessuna relazione di contenuti costruita su misura per la storia narrata e con una prosa estremamente poetica (i Diari del ballerino russo Nijinsky). Qui gli spazi tra testo e disegno sono siderali, il dialogo va costruito e scoperto pagina dopo pagina, con una libertà data anche dai testi graficamente poco invadenti, riportati in una sottile linea nera in fondo alle tavole. Si tratta anche di dare fiducia al lettore in questo senso: è vero che un disegno poco trasparente e/o poco narrativo può spaventare chi legge (e spaventare chi lo disegna e lo pubblica), ma affiancarlo a un testo didascalico non è un modo equilibrato per risolvere la questione e rischia di frustrare l’intelligenza del lettore.
Insomma, un disegno forte impone equilibri delicati. In Vuoto a rendere, l’autrice realizza tavole di grande potenza, ma insieme a quel tipo di testo risultano come indebolite, neutralizzate: la sensazione è che si sarebbe potuto scoprire qualcosa di nuovo, ma ci si è trovati a leggere qualcosa di già sentito. Nello specifico, si vede molto di La terra dei figli di Gipi, un testo che ha ispirato l’autrice: ma appunto, se a livello grafico si trovano delle soluzioni molto personali, dal punto di vista della trama e dei riferimenti Vuoto a rendere non aggiunge nulla alla storia dell’autore toscano.
Queste considerazioni, a mio avviso, pongono delle domande anche rispetto al lavoro editoriale, (almeno) su due versanti. Il primo è proprio il rapporto tra testo e immagine, in cui si ravvisa la mancanza di un buon lavoro di editing per aggiustare il tiro in questo senso. Il secondo, che è strettamente legato al primo, sta nelle intenzioni: nell’intervista sopra citata, l’autrice spiega come il fumetto le sia stato commissionato con la parola tematica “clima”. Forse pecco di malizia, ma ho l’impressione che fare un fumetto (anzi, con tutta probabilità un graphic novel) su un tema su cui c’è (giustamente) molta attenzione, nasca dalla volontà di incontrare due tendenze di mercato (quella del graphic novel e quella delle narrazioni a tema “clima”). Il che non è necessariamente un male, ma non basta: fare un’opera di fiction (che sia un fumetto, un romanzo o un film) che parli di una questione specifica, nella maggior parte dei casi suona retorico, ridondante o forzato. Un racconto riuscito non parla di un tema, ma porta a riflettere creativamente su molti temi. Ed è qui che, di nuovo, torna lo spazio di lettura e di interpretazione.
Un problema che quindi può avere le sue radici anche nella committenza: il fiorire di collane di fumetti (anzi, di graphic novel) in un mercato iperproduttivo e sempre più saturo ha dato spazio e risorse al fumetto tutto, certo, ma porta anche a linee editoriali e produzioni che paiono pensate per cercare di inserirsi in fretta e furia nel panorama contemporaneo, a scapito, spesso, del risultato finale che raggiunge lettori e lettrici. Insomma, non riesco a smettere di pensare a Vuoto a rendere come all’occasione persa di fare un bel fumetto, per fare un graphic novel “sul clima”.
E anche su questo è il caso di fermarsi un attimo a pensare: siamo sicur3 che i disegni di Silvia Rocchi fatti per Vuoto a rendere (come i disegni di Eliana Albertini per Anche le cose hanno bisogno e quelli di Percy Bertolini per Da sola) siano i disegni di un graphic novel? Io del romanzo ci vedo molto poco, proprio per il loro essere più evocativi e pittorici che narrativi. Mi riferisco qui al graphic novel come a un insieme di caratteristiche molto varie e spesso fumose, che portano a includere nella categoria i testi più diversi: la questione è annosa e se ne potrebbe discutere a lungo, rimane il fatto che il graphic novel è considerato a seconda dei casi e dei contesti un formato editoriale, un fenomeno o un movimento interno al fumetto, uno stile o addirittura un genere (la varietà di queste prospettive è ben restituita dal volume curato da Hamelin, Fare spazio).
In questo scenario, il rischio è di cercare di adattare i fumetti a un modello fumoso, di cui si ha poca consapevolezza. Un aspetto esemplare riguarda proprio il paragone con il romanzo, di cui il graphic novel è e rimane portatore: ormai si pubblicano fumetti con questa etichetta anche se non hanno nulla a che vedere con un ipotetico modello di romanzo eppure (e qui sta il corto circuito) si spinge spesso sui suoi aspetti narrativi, sul raccontare una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. Perché il graphic novel è “letterario” e con questa nobilitazione è arrivato agli scaffali delle librerie e ai suoi pubblici. Il fumetto, però, se può avere molte cose in comune con il romanzo, può averne (e ne ha necessariamente) di molto diverse. A me sembra che certi fumetti siano molto più vicini alla poesia che al romanzo ed è uno dei motivi per cui il millantato graphic novel andrebbe discusso, o almeno usato con più parsimonia. E non è solo una questione di che “etichetta” dare a un libro: il rischio è di forzare certe sfumature per una storia che abbia un racconto e dei contenuti chiari, che tocchino questo o quel tema, senza rendersi conto che proprio quelle sfumature sono la linfa vitale del testo.
Abbiamo parlato di:
Vuoto a rendere
Silvia Rocchi
24 ORE Cultura, 2023
112 pagine, brossurato, colore – 22,50€
ISBN: 978-88-6648-723-4