Durante la terza giornata del Napoli Comicon 2025 abbiamo avuto il piacere di incontrare Johnny Mox e Chiara Fazi per parlare del loro graphic novel d’esordio, Polifonia, edito da Coconino Press. Una storia che racconta di migrazione senza paura di indagarne i lati più complessi, ma anche una narrazione in cui la musica colora e pervade ogni tavola, assorbendo il lettore in quella stessa passione profonda e totalizzante che il protagonista vive. Ne è nata una conversazione ricca di spunti: sulle infinite potenzialità dei linguaggi, sull’universalità della musica e sulla necessità di raccontare sempre senza riserve. Anche, e soprattutto, ciò che ci appare più oscuro.
Chiara, Johnny: benvenuti su Lo Spazio Bianco e grazie mille per il vostro tempo.
Ho molto apprezzato il vostro fumetto Polifonia: la prima cosa che volevo chiedervi è, banalmente, com’è nato e come siete finiti a lavorare insieme?
Johnny Mox (JM): Allora, noi siamo stati messi assieme come un Frankenstein da Ratigher, uno dei direttori editoriali dell’epoca per Coconino. Questa è la mia prima esperienza come autore di graphic novel; io sono musicista e ho un background, per così dire, legato all’immigrazione e alla musica, utilizzato in contesti sociali. Però sono anche un autore e con Chiara ci siamo conosciuti in questo modo. Inoltre entrambi abbiamo un background musicale molto forte.
Chiara Fazi (CF): Si, penso che sia anche per quest’ultimo aspetto che ci siamo messi insieme. Sicuramente la musica è stato un fattore determinante, perché anche io ho lavorato molto con essa, nel senso che all’inizio della mia carriera facevo locandine per i concerti, copertine di dischi: insomma, ho sempre un avuto un legame con la musica.
E come si arriva dunque dalla musica al fumetto e dalle illustrazioni alla prima vera graphic novel?
JM: Il mio è un percorso strano, perché oltre a essere musicista sono un giornalista (è questo il mio “vero” lavoro), e negli anni mi sono avvicinato sempre di più a diverse forme di narrazione. Adesso mi occupo di cura editoriale, di podcast, anche narrativi, e ho quindi a che fare con storie originali. Anche in virtù di questo siamo arrivati a quest’idea, che è venuta a Rathiger e alla quale io non avevo mai pensato, cioè di farmi provare a scrivere una storia su dei temi che più o meno conoscevo.
Chiaramente ho dovuto acquisire il linguaggio da zero, ho fatto un periodo di studio e di lettura estensiva di graphic novel. Il linguaggio, almeno dal punto di vista di un autore, è molto simile a quello cinematografico e con Chiara poi abbiamo iniziato a discutere di alcuni aspetti della storia e dei personaggi, delle inquadrature: di colpo è come se avessimo buttato giù il muro. Per quanti mi riguarda ho lavorato in maniera abbastanza scorrevole, non ho avuto grossi problemi, soprattutto perché il fumetto ti offre un sacco di opportunità come mezzo artistico. Per esempio, gli effetti speciali sono gratis: si può veramente portare il lettore dappertutto e la fascinazione enorme era fare una storia complessa che parlasse anche di musica, in cui in realtà la musica non c’è, non si sente ma si percepisce, che è un po’ quello che io sento da musicista. La musica veicola dei contenuti che non sono espliciti ma si percepiscono; quindi l’idea era quella di ribaltare la gerarchia di questo rapporto.
CF: Come illustratrice mi sono sempre ritrovata a raccontare, a sintetizzare, e soprattutto, prima di fare questo libro, anche a confrontarmi con altre discipline, come la musica, il teatro o la televisione. Mi è stato sempre chiesto di raccontare, quindi io non vedevo l’ora di mettermi alla prova: non mi sono mai sentita all’altezza di scrivere qualcosa di mio però ero prontissima a raccontarlo visivamente, quindi per me questo incontro è stato un “Natale”. Quindi è andata bene così.
Ritornando a quello che dicevate prima, una delle cose che mi ha colpito di più, e in realtà una delle domande che mi faccio anche più spesso sia da lettrice che da appassionata di musica, è proprio riguardo la difficoltà teorica di rappresentare graficamente qualcosa che è puro suono. Mi chiedevo com’è stato farsi questa domanda e trovare la soluzione giusta: durante la lettura, mi è parso che sicuramente sia stato anche il colore a giocare in questo un ruolo importante.
CF: Sì, infatti ne abbiamo parlato insieme, perché Johnny voleva che ci fosse questo elemento magico della musica e che si sentisse: quindi, come ho già detto in altre occasioni, se inizialmente avevo pensato di fare tutto in bianco e nero, c’era un elemento che mancava ed era proprio il colore, che infatti cambia ogni volta che succede qualcosa, come una piccola colonna sonora di sottofondo.
Sì, i colori in qualche modo sembrano modulare anche l’intensità di volta in volta, proprio come i “forte” o “piano” di una partitura musicale. Tra l’altro mi ha colpito molto come per la violenza molto spesso esplodano in maniera anche più “canonica” il rosso e il nero, mentre per i momenti più teneri e intimi si siano scelti toni freddi, che però trasmettono inevitabilmente una sensazione di tranquillità, un attimo di calma nel caos.
CF: Sì, ho cercato anche di uscire dallo standard solito del significato che si dà ai colori: ho cercato anche io di studiarmi prima il susseguirsi dei colori. Quindi se in alcuni punti l’accostamento è stato casuale, in altri l’ho anche usato nella maniera che dici. Sono contenta che l’hai evidenziato perché vuol dire che si percepisce.
Per quanto invece riguarda la sceneggiatura: innanzitutto, il titolo Polifonia già rende l’idea di una narrazione che si poggia su tanti stimoli diversi e che trovano comunque una loro collisione. È una storia che parla di immigrazione, di violenza, ma anche di amore, di musica e di passione. Come si è trovato un giusto equilibrio tra tutti gli stimoli narrative e le possibili sottotrame? Come avete capito qual era la strada giusta?
JM: Volevamo in tutti i modi togliere ogni scusa a tutto quello che viene costruito intorno al tema dell’immigrazione. Togliere tutti i punti di riferimento: perché viene rappresentata chiaramente la difficoltà di chi accoglie, ma anche quella di chi viene accolto. Spesso, tra l’altro, abbiamo una concezione unidimensionale dell’accoglienza, materialistica ed eurocentrica, e non consideriamo che le persone che arrivano possono anche avere alle spalle un passato complesso, che rischia di perseguitarli, come nel caso del nostro protagonista. Un po’ c’era l’idea di ricalcare anche la funzione del coro nella tragedia greca. Io sono un grande fan delle storie che non ti lasciano appigli, che non ti lasciano alibi, perché in qualche modo ti devi mettere in discussione. A questo sono sempre servite le narrazioni: la vera realtà virtuale è quella, andare dove non hai mai osato andare. L’altro tema è quello della musica, che nel libro riveste un ruolo importantissimo perché crea uno spazio, ed è uno spazio di cui ti puoi appropriare imparando un linguaggio nuovo, che è quello che poi fanno Koko e tutta la comunità di Grae. Imparano una lingua nuova e questo è esattamente quello che succede quando c’è la vera accoglienza perché, dico una banalità, ormai mangiamo il cibo tailandese e ascoltiamo la musica K-pop, ed è considerata una cosa normalissima, che fa parte delle nostre vite. Questo dimostra che quando questo spazio si allarga a sufficienza, l’accoglienza si compie in maniera spontanea e la musica in questo è il linguaggio più importante che abbiamo, perché si riesce a dire anche quello che non c’è, che non esiste: tutte le microsfumature.
Sempre riguardo la musica, a un certo punto si contrappone un po’ alla realtà statica del coro un determinato personaggio che porta con sé invece un altro tipo di musica, rappresentando una sorta di punto di rottura. Mi chiedevo quanto è stato importante per la sceneggiatura – ma anche a livello grafico – lasciarsi guidare da stimoli musicali diversi, dalle infinite possibilità che la musica stessa offre?
CF: Per me quel personaggio è come se uscisse fuori anche un po’ dal mio passato, perché anche io avevo un amico metallaro che andavo a sentire alla saletta e che mi passava i cd metal, mi faceva sentire nuova musica, ed era sempre il più “bonaccione” di tutti. Quindi in Polifonia non si parla solo di coro polifonico, perché la musica è anche tanto altro. Johnny è andato a parlare anche di tutto il resto di quella che è la musica che può andare bene per un ragazzo dai 14 anni in su: perché anche io non ascolto solo un genere, ma sperimento continuamente. Quindi secondo me quella parte è fondamentale.
JM: La cosa bella è che il protagonista scopre quelle che sono per noi le basi della musica popolare all’incontrario, visto che non conosceva neanche i Beatles o i Beach Boys. Ma in realtà non c’è nessuna differenza tra il coro polifonico, il metal e l’orchestra che suona: c’è sempre un elemento spirituale generale nella musica ed è un elemento talmente semplice da far entrare nella propria vita che è per questo che trovo che sia il linguaggio più importante che abbiamo. E probabilmente uno dei personaggi più spirituali è proprio Chris, il metallaro, perché porta una specie di gioia di scoprire ma anche di trasgredire. La musica ha tantissime facce ma allo stesso tempo è uguale: la scena dell’orchestra che va a vedere la prima volta Bach non è diversa nella mente di Koko dalla scena in cui sperimenta la sala prove con i volumi alti. È quel tipo di trascendenza lì ed è la stessa cosa almeno per me, ma credo anche per Chiara. Io ho questo rapporto con la musica, quindi non c’è mai “alto” e “basso”, c’è solo una terza dimensione che non riusciamo mai a vedere, quella che senti quando vai a un concerto e vieni spinto dalle vibrazioni. Senti che gli altri provano delle cose simili alle tue e nel cuore questa roba viene sublimata al massimo perché realmente non distingui più qual è la tua voce e quale quella dei tuoi vicini. La musica, quindi, fa la stessa cosa, indipendentemente dallo stile.
CF: Per esempio, quando andavo in giro per i festival, la cosa preferita era sentire i cantanti per i quali tu specificatamente andavi e poi scoprirne di altri incredibili casualmente, che sul momento ti colpiscono. E da lì ti si apre una porta su una serie di mondi paralleli, tutti esistenti allo stesso tempo.
Rispetto al finale, che ha sicuramente una certa drammaticità, era qualcosa che avevate già in mente fin dall’inizio di questa storia o in qualche modo ci si è arrivati in maniera naturale?
JM: A me colpisce molto il lato oscuro dell’immigrazione, che è un tema di cui si parla troppo poco. Penso, per fare un esempio, alla storia di Saman Abbass, la ragazza pakistana uccisa dalla sua famiglia. Quindi volevamo questo tipo di finale, un finale tragico, per non dare proprio nessun appiglio. Perché sì, la vittima è vittima, ma alla fine della storia tutti sono vittima di qualcosa, quindi il tentativo era proprio quello di spogliare la storia per non dare appigli, ma cercare invece di mettere in luce queste contraddizioni. Si tratta di persone che nell’arco della propria vita compiono un tragitto umano che copre quello di due, tre, quattro generazioni. Il protagonista parte dal suo villaggio, con le sue tradizioni, per finire a dirigere l’orchestra di Stuttgart: questo grosso spostamento spesso ha un prezzo alto da pagare.
È una storia effettivamente che non elude mai la complessità e le contraddizioni, perché non c’è necessariamente una relazione divisiva tra una parte e l’altra, tra immigrati e non immigrati, ma sono dei mondi che entrano in collisione. E delle volte anche dei mondi interni a loro stessi che entrano in collisione: una delle cose che mi ha fatto riflettere è anche il fatto che da un punto di vista occidentale spesso guardiamo e narriamo tutto secondo questa divisione. Non pensiamo mai che anche l’altra parte abbia le sue ulteriori e specifiche complessità, che sono ancora più difficili da sviscerare.
JM: Assolutamente, è per questo che è importante imparare un linguaggio diverso, cioè iniziare ad avere a che fare con linguaggi diversi, perché se noi ci apriamo, poi le cose lentamente poi diventano naturali e normali. Se invece chiudiamo tutto a chiave, rischiamo di essere travolti all’improvviso da ciò che può arrivare. Quindi è fondamentale perdere un po’ di “italianità”, un po’ di eurocentrismo, e questo è un momento storico in cui si deve provare a farlo, il perché è evidente. Dall’altro lato, io ho avuto a che fare con tante persone richiedenti asilo; durante il periodo del Ramadan, a volte mi dicono “Quest’anno lo faccio diversamente, non sono obbligato perché lavoro alla pressa, e quindi non posso non mangiare e non bere…“. Penso che sia una cosa importante da raccontare, perché non vuol dire che non c’è rispetto per il Ramadan o altre tradizioni, ma semplicemente che le persone trovano una loro strada in mondi diversi mantenendo la propria integrità. Ho trovato sempre ingiusto che questo venisse poco raccontato.
Invece, da un punto di vista grafico, Chiara volevo chiederti se la rappresentazione della violenza, che è inevitabilmente uno dei fulcri di questa storia, sia stata difficile. Mi è sembrato fosse una rappresentazione che decide di non esplicitare tutto, risultando allo stesso tempo molto forte, anzi forse ancora più forte.
CF: Riguardo la violenza abbiamo pensato che non fosse necessario essere espliciti, perché bastava il minimo. Tutti i giorni ci troviamo davanti ogni tipo di violenza, ce la mostrano in tutti i modi, quindi è inutile poi esplicitarla. Anche lì ho cercato di farlo in maniera un po’ musicale: dare il “la” e poi lasciare fare il resto al lettore, che magari all’inizio non capisce, ma poi riguardando la tavola sì.
Siamo molto desensibilizzati ormai e forse ci colpisce di più quello che paradossalmente non ci è “lanciato” in faccia magari.
CF: Sì, c’è molta più violenza in uno sguardo del papà di Koko, ad esempio, che nell’azione violenta in sé.
L’ultima domanda sarà forse la più difficile, ma non posso evitarla considerato anche la natura del fumetto: se doveste scegliere una canzone che rappresenti Polifonia, quale sarebbe?
JM: Allora, io sicuramente direi una canzone di Nina Simone, un po’ perché viene citata, un po’ perché la sua musica è sempre come un polifonia, e il colore di questo libro è forte, è potente, mette in luce le contraddizioni però è anche fragile: insomma, Nina Simone la vivo così. E la canzone potrebbe essere forse My Father.
CF: Ce ne sono talmente tante… io ho disegnato tanta natura, tante foreste, quindi forse A Forest dei The Cure.
Grazie mille a Johnny Mox e Chiara Fazi per tutta la disponibilità e, soprattutto, per la ricchissima conversazione.
Intervista svolta dal vivo al Napoli Comicon il 3 maggio 2025.
Johnny Mox
Johnny Mox, nome d’arte di Gianluca Taraborelli, è musicista, giornalista, autore e produttore. Ha pubblicato quattro album, l’ultimo, Anni venti, uscito nel 2023, e fondato il duo elettronico Addio. È il fondatore di Stregoni, un progetto che ha portato sul palco più di 5000 migranti e richiedenti asilo. È anche autore di diversi podcast narrativi. Polifonia è il suo primo fumetto.
Chiara Fazi
Chiara Fazi è illustratrice e artista visiva per editoria, mass media e autoproduzioni. Ha realizzato diversi set e illustrazioni per la Rai e ha curato per due anni l’immagine della Multipiattaforma Rai1. Segue il progetto europeo nelle scuole Silence Hate per Amnesty International. Ha illustrato il libro Il lago che combatte per Momo edizioni. Ha realizzato due campagne per Romaeuropa Festival, per Laterza, e curato la creatività per eventi dell’Assessorato alla cultura di Roma come “La Festa Di Roma”. È anche storyboard artist per diverse agenzie. Polifonia è la sua prima graphic novel.