Dalla frenesia della Marvel nel tentativo, condotto in maniera piuttosto bislacca, di allargare i propri confini narrativi, sono spuntate diverse vecchie/nuove serie: tenendo infatti per molti versi i piedi in due staffe, piuttosto che esplorare nuovi generi, la dirigenza della “Casa delle Idee” ha preferito riesumare personaggi e titoli di non primissimo piano, reinterpretandoli alla luce delle ultime tendenze, o lanciare l’ennesima serie dedicata al mutante di turno, approfittando di una libertà creativa certamente maggiore rispetto a quella permessa dalle serie più blasonate. Invaders, Tomb of Dracula, Starjammers, Namor sono solo alcuni dei titoli proposti. Esperimenti che in pochi casi sono stati accolti con favore dal mercato, e che d’altra parte, al di là della qualità più o meno buona d’ognuno, hanno spesso sollevato le proteste dei lettori storici, dei fans di vecchia data della continuity Marvel, procurandone, anche per lo scarso appeal nei confronti degli altri lettori, la loro prematura chiusura.
In effetti, in questo momento alla Marvel non sembra che ci siano i presupposti per puntare con decisione su dei progetti che non sappiano, entro un anno dal loro lancio, conquistarsi una fetta consistente di pubblico. Un chiaro indice della necessità di fare cassa, ma soprattutto della volontà di trovare nuovi titoli da dare in pasto a una industria cinematografica avida del recente “fenomeno fumetto”, tanto da coinvolgere per questo personaggi di secondo piano, come ad esempio The Man-Thing, emulo dello Swamp Thing DC, o altri.
Due di queste serie hanno fatto recentemente e quasi contemporaneamente capolino nella collana da libreria della Panini, due serie dalla contrapposta fortuna in patria. Se Silver Surfer infatti non è andato oltre il quattordicesimo numero, la miniserie di Supreme Power ha avuto quel tanto di successo necessario da produrre uno spin-off e soprattutto da trasformarsi in una serie regolare, almeno fino a quando le vendite saranno confortanti.
Il surfista d’argento
Prodotto autentico degli anni ’60, l’ennesimo figlioccio dei vulcanici Lee e Kirby, questo personaggio rappresento’ alla nascita una metafora di quella cultura liberal figlia del surf e del rock. Araldo dai poteri al di là della comprensione umana, personaggio misterioso delle insondabili (e spesso variopinte) profondità siderali, Silver Surfer ha sofferto il passare degli anni e la mancanza di una serie capace di rivitalizzarlo e ampliarne gli orizzonti narrativi, ironicamente ristretti nonostante la vastità dell’universo in cui si muove. La nuova serie, scritta dalla coppia formata Dan Chariton e Stacy Weiss, parte con l’intento di ridefinire il ruolo del personaggio, compito non certo facile anche per la collocazione occupata all’interno dell’Universo Marvel, fin dagli albori di quest’ultimo.
Nella visione dei due autori, Silver Surfer riacquista quel senso del mistero e dell’ignoto che gli si addice particolarmente, ispirandosi ai racconti delle cosiddette “abdjuction”, dei rapimenti misteriosi da parte degli extraterrestri. Egli diventa così la rappresentazione dell’alieno per antonomasia, freddo, insondabile, apparentemente crudele nel sottrarre dei normalissimi bambini ai loro genitori. La sua ampia assenza dalle pagine invece che ridurne l’importanza ne aumenta il peso, incentrando la storia su di una madre disperata alla ricerca della figlia e dell’essere che l’ha rapita. Servono diverse pagine affinché la panoramica si allarghi e il lettore sia fatto partecipe del significato delle gesta del surfista d’argento.
Come sempre più spesso avviene nel fumetto supereroistico, specie quando intende rivolgersi a un pubblico più maturo, gli autori dilatano i tempi, curano ampiamente l’interazione tra i personaggi, cercando di avvicinare la narrazione e i dialoghi verso un gusto più cinematografico. Tutto funziona ed è funzionale alla trama, la quale si dipana lentamente e, mano a mano che si svela, aggiunge al quadro generale nuovi tasselli che invogliano a proseguire la lettura.
I disegni rafforzano le sensazioni date della storia. Alle matite, che per scelta stilistica vengono chinate al computer per ottenere un effetto particolarmente ricercato, si alternano diversi disegnatori, a partire da Milx (allontanatosi dalla serie dopo il primo numero per una crisi nervosa), passando per David Yardin e arrivando soprattutto a Lan Medina (disegnatore di Fables); autori stilisticamente vicini, dal tratto realistico ed espressivo.
Molti lettori hanno storto il naso di fronte a questa rivisitazione del personaggio, differente dalle sue ultime apparizioni, e per un presunto distaccamento dalla “famigerata” continuity Marvel (peraltro più per le tematiche trattate che per una vera incongruenza), ma questa serie si pone come interessante variazione sul tema, spingendo molto sulle atmosfere fantascientifiche e misteriose, e abbandonando praticamente del tutto quelle supereroistiche. Ma questa stessa storia poteva essere narrata anche senza Silver Surfer? Probabilmente sì, e più che un’offesa al personaggio questo è stato sicuramente un limite alla diffusione di un’opera interessante, che invece, per come è stata gestita, avrà finito per allontanare molti lettori Marvel senza, d’altra parte, avvicinarne di nuovi, probabilmente “spaventati” dalla presenza di un personaggio non conosciuto, ma la cui familiarità, a conti fatti, non era assolutamente necessaria.
Il potere supremo
Ben altri rispetto a Silver Surfer i risultati di vendita di Supeme Power, motivati probabilmente anche dai nomi coinvolti: infatti, a scrivere e disegnare quest’opera troviamo rispettivamente JM Straczynski e Gary Frank, il primo creatore della serie TV di culto Babylon 5 e sceneggiatore della serie regolare dell’Uomo Ragno, il secondo disegnatore del celebre ciclo di Hulk di Peter David e, tra le altre cose, di un’altra mini molto apprezzata, come Midnight Nation, sempre per i testi di Straczynski. Ai due è andato il compito di riproporre una miniserie storica della Marvel, quello Squadrone Supremo nato come emulo della JLA di casa DC, che venne reso famoso dall’inventiva di Mark Gruenwald e che influenzo’ pietre miliari del comicdom statunitense e mondiale, come Watchmen o MiracleMan di mister Alan Moore.
Compito non certo facile, quindi, ma tutto sommato assolto, soprattutto perché di quella gloriosa opera viene ripreso solamente lo spunto iniziale mescolato ad una moderna visione del concetto del supereroe, peraltro già affrontata dallo scrittore nella travagliata pubblicazione di Rising Stars. Il tema di fondo è praticamente lo stesso, anche se chiaramente sviluppato in maniera diversa: cosa accadrebbe nel nostro mondo se veramente nascessero persone dotate di poteri oltre l’umano? La risposta dei primi fumetti supereroistici, oggi forse ingenua, ma non certo priva di fascino, viene rinnovata all’insegna di una ricerca di un disincantato realismo, adeguandola ai tempi del villaggio globale, del potere delle multinazionali, delle guerre preventive. Una visione meno ingenua, dicevamo, ma anche molto meno rassicurante.
In questo contesto, il bambino giunto dalle stelle, epigono di Superman e come lui rappresentazione moderna del mito antico del superuomo o del figlio degli dei, non vive la sua infanzia tra le amorevoli cure di una coppia di genitori adottivi nella bucolica campagna americana, ma viene prelevato dal governo USA e allevato in un mondo di finzioni perché cresca come un perfetto patriota americano e ne diventi il portabandiera con il nome di Hyperion. Il giustiziere mascherato, il difensore degli innocenti al di là della legge (da Robin Hood fino a Batman, una figura classica della tradizione letteraria), l’ipertecnologico Nighthawk (Nottolone, per ribadire il gioco di parole con l’uomo pipistrello), è spinto dal desiderio di vendetta che sfoga contro i crimini a sfondo razziale, dopo che i suoi genitori furono uccisi per il colore della loro pelle; nella sua vendetta non insegue la giustizia o l’equità, ma solo la sua personale ossessione ancora più marcata che nella sua controparte DC. Ancora, Blur, velocista come il noto Flash di casa DC, diventa un prodotto mediatico, sponsor perfetto al soldo delle multinazionali di abbigliamento sportivo. Proprio questo ribaltamento della storia e della mentalità classica d’icone supereroistiche rappresenta uno dei valori aggiunti e degli spunti più gustosi del volume. Nascosta poi dietro l’abile narrazione di Straczynski, che per quanto senza picchi di originalità si dimostra valida e interessante, avanza un’altra e più inquietante sottotrama: quante facce può avere un’ invasione? Come affronterà un’umanità tanto spaventata, ferita, timorosa dello straniero e del diverso, il pensiero che questa volta i suoi confini siano violati da qualcosa giunto dalle stelle?
I disegni di Gary Frank sono all’altezza del testo, e rappresentano forse la punta più alta della sua carriera, assecondati inoltre da una buona colorazione al computer, per una volta tanto non eccessivamente invasiva. Un volume quindi che, per quanto non sia una lettura innovativa o fondamentale, conferma la buona mano di uno scrittore che rappresenta uno dei nomi migliori del fumetto mainstream americano degli ultimi anni; d’altra parte non si può nascondere che proprio questa mancanza di originalità, l’ennesima interpretazione di temi oramai sempre più abusati, è il peggior handicap della serie.
Abbandonare l’etichetta di sottogenere?
Due opere diverse, quindi, eppure legate dalla ricerca di una “new wave” del genere. Ma il fumetto supereroistico ha bisogno di queste rivisitazioni? La domanda appare oziosa e francamente inutile, almeno per chi è interessato, prima di ogni altra cosa, a fruire racconti ed emozioni ben scritte. Ma non mancano alcune riserve, piuttosto, sull’utilizzo di personaggi già esistenti in maniera più o meno coerente con le loro precedenti avventure, o sulla scelta di innovare mai fino in fondo le proprie proposte da parte di una casa editrice da troppi anni ferma su se stessa, fagocitata dalle sue stesse storie (e forse dai suoi lettori), incapace di cambiare veramente la propria line editoriale e di variare la sua offerta. Difetto che appare ancora più evidente se si mette a confronto la linea Marvel con quella della rivale di sempre, la DC Comics, capace di affiancare all’universo di Batman e Superman le sottoetichette Vertigo, ABC, Wildstorm, e recentemente anche le produzioni francesi e giapponesi.
In conclusione dell’analisi di questi due albi, è possibile sottolineare un altro aspetto. A ben pensarci, questi due volumi sembrano gli ennesimi tasselli di un processo attraverso il quale le storie supereroistiche si stanno evolvendo, trasformando quello che è comunemente considerato un “sotto-genere”, dall’orizzonte e dalle tematiche limitate, in un genere di più ampio respiro, all’interno del quale alternare registri e tipologie di storie diverse. Quello che ha portato certa narrativa, come la fantascienza, o l’horror, o il giallo, a guadagnare lo status di letteratura a pieno titolo, diventando veicoli attraverso i quali raccontare più e altro rispetto ai topoi classici. Senza voler esagerare, serie come queste contribuiscono a contaminare l’idea base del supereroe con altre influenze, allontanandolo da anni di stereotipi e da una stagnazione a cui, a volte, sembra tendere.