Stefano Casini, tra il futuro e l’Avana

Stefano Casini, tra il futuro e l’Avana

Gli inizi, lo stile, Bonelli e oltre: intervista a Stefano Casini.

Casini a Cuba

Livorno, classe 1958. Dopo una gavetta “di lusso” in coppia con Marcello Toninelli per “Foxtrot” e “Fumo di China”, e sul “Giornalino” allora coordinato da Gino D’Antonio,
Stefano Casini diventa popolare sulle pagine di Nathan Never, del cui parco autori fa parte fin dagli inizi. Il suo tratto dinamico, spigoloso e personalissimo rappresenta un marchio di fabbrica inconfondibile che arricchisce la testata Bonelli e rende ancora piu’ vario l’ottimo apparato grafico della serie. Negli anni si dedi dedica anche ad altre storie, fuori dal circuito popolare, come la serie “Digitus Dei” con Michele Medda o la recente saga in formato francese dedicata a Cuba, “Hasta la victoria!”.
GLI INIZI

Come hai imparato ad amare il fumetto, quali sono state le tue prime letture a vignette e come è nata in te la volontà di fare fumetti?
Credo sia nata contemporaneamente alle mie letture, unita la fatto che disegnavo già piuttosto bene anche da bambino, per cui mi era naturale cercare di emulare ciò che vedevo e che leggevo. Le mie letture erano i settimanali in voga all’epoca: il Monello Jet, Corriere dei Piccoli, il Giornalino, Rin Tin Tin, Blek, la Super Eroica tutto quello che si poteva trovare, ed erano veramente tante pubblicazioni, potrei farti un elenco che neanche t’immagini.

Fino al tuo ingresso in Bonelli il tuo rapporto con i fumetti è stato un “tira e molla”, se posso usare il termine; una carriera alternata spesso ad altri lavori (seppure nel campo della grafica e del design o della pubblicità). Quanto è stato difficile trovare la possibilità di mantenersi come fumettista, o quantomeno crederci fino in fondo?
Guarda che io mi sono posto il problema solo nel momento in cui mi sono trovato di fronte ad un bivio e dovevo a prendere la decisione se continuare quello che facevo o cambiare, io sono uno dei pochi tra i miei colleghi a non avere fatto gavetta, la prima grande opportunità mi è arrivata praticamente con Bonelli, ma prima avevo voluto fare di tutto e di più.
Ero molto curioso e avrei fatto mille cose diverse e perciò ho voluto mettere il naso dove mi è stato possibile, la mia “fortuna” è stata quella di poterlo fare. Il fumetto era stata sempre una grande passione ed avevo anche realizzato qualcosa ma, per un certo periodo, non mi è interessato farlo come lavoro, mi sembrava una conseguenza fin troppo logica alle mie caratteristiche. In fondo chi mi conosceva da sempre ha trovato naturale questa mia professione, ma ti garantisco che non è stato sempre così scontato, anche il mio percorso di studi è lì a dimostrarlo, infatti non ho fatto scuole artistiche fino all’I.S.I.A. (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche – ndr).

Che importanza ha avuto la scuola per la tua maturazione come autore? Credi siano importanti le scuole per chi vuole fare fumetti?
L’eventuale maturazione di un autore avviene attraverso molte esperienze, tra queste credo anche la scuola, ma nel mio caso non credo che sia stata fondamentale, è stata importante come maturazione nel suo complesso, ma non nella specificità della professione.
Non so se le scuole per chi vuole fare fumetti siano importanti, questa è una domanda che mi sono posto molte volte avendone una (anche se devo dire che il fumetto alla scuola Nemo non solo è marginale, ma lo si ritrova solo inserito in altre discipline), di sicuro corrispondono alla domanda di persone che ne sentono la necessità, e già questa potrebbe essere una ragione più che valida per legittimarne l’esistenza.
Vedi, la nostra è una società che cerca di convincere ognuno di noi che, volendo, e quasi in tutti i casi pagando, può fare praticamente di tutto, e l’istituzione scolastica rappresenta un modello perfetto per soddisfare certe esigenze. Poi per fare il fumettista in particolare credo ci sia bisogno di caratteristiche che difficilmente si possano acquistare pagandosi un corso, o le hai, o non le hai, di certo frequentando una scuola puoi prendere visione di aspetti che altrimenti non avresti modo di conoscere, puoi muoverti in un mondo che magari immaginavi solo marginalmente, puoi vedere come funzionano certe cose, oltre se capire se hai le capacità per farle, se hai delle potenzialità puoi sfruttarle nel migliore dei modi, ma per diventare veramente un professionista devi avere certe caratteristiche già nel tuo DNA.

Hai lavorato molto come designer e grafico. Queste professioni hanno influenzato il tuo stile di disegno? In particolare, a causa dei tuoi lavori nel campo dell’automobile e della moda, quante attenzioni dedichi al disegno di macchine, macchinari e nei vestiti dei personaggi?
Io credo che ogni esperienza della vita si riversi inevitabilmente nel proprio stile di disegno, anche quella che sembra la più lontana, io ho fatto lavori creativi dove il disegno aveva la sua importanza, è naturale che tutto ciò sia confluito nel mio stile, così come è logico che abbia naturali attenzioni ad abiti e macchinari, ma non tanto per l’aspetto esteriore quanto per quello funzionale, mi preoccupo di più che le forme siano credibili e che le macchine funzionino (o che diano almeno l’impressione di farlo) piuttosto che relegare tutto al valore estetico.

Il tuo primo fumetto è apparso sulla fanzine Hidrogeno. Oggigiorno le fanzine si sono trasferite in massa su internet. Pensi sia stata la loro naturale evoluzione, o qualcosa secondo te si è perso in questo passaggio?
Che il web sia stata la naturale evoluzione delle fanzine non c’é dubbio, che cosa si sia perso non saprei dirti, sicuramente l’idea pionieristica di fare qualcosa che odorava di stampa e che nella stampa vedeva la legittimazione di tutti i propri sforzi, anche se era ciclostilata o fatta di semplici fotocopie. Oggi è tutto perfetto, ci sono programmi per impaginare, altri di grafica che ti permettono di trovare il carattere più nuovo ed appropriato, è tutto molto più facile, e spesso la facilità di fare le cose le priva di quella sofferenza che le rendeva più vere.

Tappa importante per la tua crescita sono state le Edizioni 50, fondate con Toninelli e Di Pietrantonio, e la nascita della rivista “Prova d’autore”, che diventerà poi “Foxtrot”. Quali sono i ricordi più intensi di quel periodo?
Le sere passate a comporre le pagine, incollare gli articoli con la colla removibile Cow (che già allora era vietata per le esalazioni venefiche), a ridere e a scherzare, a pensare a che cosa avremo fatto, ai sogni, alla voglia di fare. In quel periodo abitavamo tutti e tre a Milano, e facevamo tutti altri lavori (a parte Toninelli), ed avevamo un giorno prestabilito per vedersi, era il Giovedì, si mangiava, si beveva e si finiva sempre tardissimo, Marcello poi mi accompagnava sempre a casa, a quell’ora trovare i mezzi pubblici era impossibile e lui abitava fuori Milano, mi faceva da taxi, era molto gentile.

Foxtrot negli anni è diventato Fumo di China, rivista di critica che tuttora sopravvive in edicola. Che effetto fa vedere oggi cosa è nato dalla vostra passione di tanti anni fa?
Quando le due riviste si fusero io mi ero già ritirato dalla società, avevo visto chiudersi un ciclo e preferii rimanere fuori da esperimenti che, al momento, non mi interessavano più. Quindi personalmente è un processo al quale non mi sento di appartenere.

Fumo di China pubblica al suo interno sempre meno fumetti (anzi, quando capita è l’eccezione). In edicola resistono Skorpio e Lanciostory. È sufficiente l’autoproduzione, o il web, perché un esordiente abbia i suoi spazi e si faccia le ossa?
Non so perché FdC non pubblica più fumetti, forse non ne trova abbastanza di buoni o ai lettori interessano meno delle critiche, non so, poi realizzare storie brevi che siano carine e dicano qualcosa non è così semplice. Comunque sia, è chiaro che le due testate della Lancio sono insufficienti per i giovani che vogliono farsi notare, ma è tutto il fumetto che ha visto ridursi progressivamente il numero di testate in modo impressionante, e di conseguenza, in spazi ridotti quelli a rimetterci sono gli esordienti che non ne trovano più. Ma qui dovremmo aprire una parentesi sul fumetto in genere, e non ne usciremmo facilmente….
Per quanto riguarda l’auto-produzione non saprei che dirti, non ho modo di frequentare le fumetterie e non sono molto al corrente sui nuovi progetti; certo, se un disegnatore è bravo, vederlo stampato fa sempre il suo effetto ed è gratificante per lui, ma a Lucca ad esempio ho visto un sacco di stand di giovani case editrici che pubblicavano varie cose, anche carine, per carità, ma mi domandavo:- “Una volta terminata l’euforia lucchese, dove sembra che tutto vada bene ed ogni pubblicazione abbia un seguito di appassionati incredibile, alla fine, questi qui, che fine fanno?

Dopo una pausa dal fumetto, sei tornato attraverso “il Giornalino”, che allora veniva coordinato da Gino D’Antonio, il grande maestro recentemente scomparso. Come nacque questa collaborazione?
Ci arrivai dalla Bonelli, mi dissero che era diventato il direttore artistico de “il Giornalino” e siccome avevo conosciuto D’Antonio anni prima, speravo si ricordasse di me. Se ne ricordo’. Mi dette grandissima fiducia e mi consegno’ una sua sceneggiatura, lo ricordo benissimo, ero entusiasta. Poi invece le cose andarono per le lunghe, io rimasi imbrigliato in altre questioni e trascurai il lavoro, alla fine preferii lasciare. Stavo attraversando un periodo un po’ particolare e non facile, alla fine del quale pero’ venni assunto dalla 3M. Quella storia è l’unico lavoro che mi è stato dato che non ho portato a termine, ed ancora adesso mi dispiace, specialmente perché adesso la vedo come una grande occasione perduta, e rimpiango così di non avere avuto il mio nome accanto ad uno degli autori che più avevo amato nella mia infanzia. Peccato. Poi quella storia venne realizzata da Sergio Toppi, pensa un po’.

Che ricordo hai di D’Antonio?
L’avevo conosciuto 10 anni prima, nel ’78 più o meno, ero un ragazzino che per la prima volta entrava negli uffici di via Buonarroti, avevo portato dei disegni e volevo avere una opinione a riguardo. Mi indicarono una saletta appartata, lui si trovava lì. Lo riconobbi subito perché mi ricordavo del suo autoritratto che si era fatto in quarta di copertina sul numero 100 della “Storia del West”. L’ho conosciuto così.
Era una persona mite, pacata, comprensivo ed attento, di quelle che non immagini neanche per un minuto che siano capaci di arrabbiarsi. Era piacevole conversare con lui, riusciva a metterti a tuo agio, e a me sembrava di parlare con mio nonno. Mi confessava di come, ai suoi tempi, i disegnatori della sua generazione trovavano enormi difficoltà nel reperire documentazione per il loro lavoro, di come erano costretti ad andare al cinema per immagazzinare immagini che potessero servigli per disegnare. Altri tempi, eh?

Ci vuoi parlare dell’esperienza con la Scuola Nemo NT di Firenze, scuola di fumetto e cinema d’animazione, di cui sei uno dei fondatori? Come è nata, cosa significa, come vivi il lavoro di insegnante.
È nata più per la volontà dei miei soci che per la mia, ma mi ci sono trovato dentro ed adesso sono contento di quella scelta. È stata un’occasione per mettere a disposizione la professionalità al servizio di quei giovani che ne potevano farne richiesta, anche se già precedentemente avevo insegnato per qualche anno in un’altra scuola di fumetto. Alla Nemo abbiamo orientato i nostri corsi di studi più sull’Animazione che sul Fumetto, e abbiamo dato ai nostri corsi una caratterizzazione orientata al digitale, oltre all’Animazione abbiamo Corsi di Web design, Cinema F-X, E-Design e facciamo corsi su programmi specifici.
Vado mediamente una volta alla settimana a Firenze e il mio coinvolgimento nella scuola spesso è vincolato dai miei impegni di lavoro, ma per fortuna ho soci non solo bravi, ma anche molto comprensivi e mi concedono queste libertà. Il rapporto con i ragazzi è da sempre molto stimolante, e spesso è una vera e propria boccata di ossigeno tra le giornate trascorse al tavolo da disegno, mi chiedo spesso se queste ore servono più a me che a loro. No, sto scherzando, a dire la verità risultano sempre piuttosto soddisfatti, a volte vorrei avere la possibilità di stare anche più lezioni con loro, spesso lo richiedono anche, ma i programmi hanno le loro scadenze.

QUESTIONI DI STILE

Quali sono state le influenze che hanno condizionato il tuo stile di disegno?
Moltissime, ogni disegnatore che si vede o sul quale mi sono soffermato ad osservare ed a pormi domande su come realizzava le sue cose, mi ha portato un tassello di quello che sono. Ogni cosa, ogni dettaglio sul quale mi sono soffermato mi ha fatto crescere, mi ha dato qualcosa. Non solo non potrebbe essere altrimenti, ma deve essere così.

Quali autori e quali scuole?
Scuole nessuna, autori moltissimi. Se vuoi l’elenco posso anche fartelo (D’Antonio, Giraud, Toppi, Battaglia, Hermann, Tha, Mignola, Breccia, Magnus, Sienkiewicz etc, etc.) ma si tratta in realtà di decine di nomi. Su molti di loro mi sono soffermato, li ho studiati e, in certi casi, ho cercato perfino di imitarli, ed ognuno di loro appunto, mi ha lasciato qualche frammento, un pezzettino della loro esperienza, della loro visione del mondo.

Preferisci esprimerti da autore completo rispetto al ruolo di disegnatore e basta?
No, faccio volentieri entrambi, certo come autore lavori su cose tue, per cui il coinvolgimento è totalmente diverso, più intimo. Ma adesso sto lavorando su un romanzo a fumetti scritto da Paola Barbato e, ad esempio, mi diverto moltissimo a realizzarlo, anche se è una cosa di cui avevamo parlato qualche anno fa ed è, in pratica, un po’ cresciuta con noi, ma ho ritrovato stimoli che in certi momenti credevo di avere perduto.

Come affronti una sceneggiatura altrui? Quanta libera interpretazione applichi alle indicazioni dello sceneggiatore?
Credo di avere un approccio professionale e credo altresì di avere un enorme rispetto per lo script dello sceneggiatore, per cui tendenzialmente mi attengo alle richieste dell’autore, salvo cambiare qualcosa che serva ad una migliore comprensione della storia. Non prediligo mai l’aspetto grafico su quello narrativo, sono sempre disposto a sacrificare qualcosa purché la storia fluisca per il meglio, ma è una cosa che non mi costa fatica, mi viene naturalmente, sarà per questo che credo non ci siano mai stati sceneggiatori che si sono lamentati di me, e forse sarà per lo stesso motivo che dopo anni di disegni mi sono cimentato anche dietro la macchina da scrivere…

Quando lavori come autore completo, scrivi una sceneggiatura dettagliata, usi uno storyboard, o cosa?
Quando dopo la stesura del soggetto mi metto a scrivere la sceneggiatura, questa non viene scritta a macchina, ma manualmente, e inserisco didascalie e balloons direttamente sul foglio dove prevedo gli spazi delle vignette. Non ho bisogno di visualizzare le vignette perché quelle hanno già la loro forma nella mia immaginazione, devo fermare solo le parole che le animano. Praticamente faccio un pre-storyboard solo di testo, poi trascrivo il tutto inserendo perfino le descrizioni delle vignette, come se la sceneggiatura venisse scritta per un altro disegnatore. Poi prima di disegnare realizzo un normale storyboard.

Come si svolge la tua giornata lavorativa tipica?
Molto semplicemente: dopo la colazione mi metto al tavolo da disegno più o meno fino all’ora di pranzo, ascoltando la radio e con rarissime pause, dopo il pranzo dedico un po’ di tempo (sempre troppo) ad internet, al disbrigo della posta elettronica, aggiornamenti del sito e cosucce varie, poi mi rimetto al tavolo fino alla sera. Come vedi, niente di che.

Quali sono i tuoi strumenti del mestiere?
I più semplici del mondo: carta (Fabriano F4 -ruvida e liscia-, una volta Schoeller G6, ma adesso non la fanno più, e comunque non disdegno quelle che mi passano sotto le mani), matite 3B, pennelli Windsor&Newton o Da Vinci ( grandezza 2 o 3), china Pelikan o Talens e pennarellini Sakura, Staedtler, Rotring (da 0.05 a 0,8), e altri pennarelli di media grandezza. Per i colori quelli tradizionali, acquerelli Talens o W&N, acrilici e oli Maimeri, e tempere sempre della Maimeri. Per la colorazione digitale il solito Photoshop e Painter 9.

MONDO BONELLI

Sei probabilmente conosciuto ai più come disegnatore di Nathan Never, forse il meno “canonicamente bonelliano”. Come sei entrato nello staff della serie?
Conoscevo i tre autori sardi da prima che entrassero in Bonelli, perché erano lettori di “Foxtrot”! E quando vennero a Milano vennero ad incontrare Toninelli e me, prima di passare da Castelli e alla Bonelli, e già all’epoca apprezzavano molto la nostra rivista e il mio stile. Quando anni dopo venni a sapere del loro progetto, sul subito gli detti un peso relativo, poi parlai con Antonio Serra che mi descrisse i particolari di “Nathan Nemo” (così si chiamava in un primo momento). I particolari mi piacquero e decisi di sottostare alla prova. Eravamo in dieci e venimmo presi tutti.
Nello staff di Nathan c’erano disegnatori con stili molto diversi tra loro, questa oltre che una novità fu una caratteristica vincente del personaggio, la poliedricità di chi lo interpretava segno’ l’affrancamento da stili abbastanza omogenei sulla stessa testata che fino a quel periodo era una specie di regola della casa editrice (anche se “Dylan Dog” aveva già cominciato a tracciare un solco), e in un ottica di questo tipo il mio stile anche se un po’ fuori dai quei canoni che tu definisci “bonelliani”, ci stava benissimo.

Sei un appassionato di fantascienza? Tra i vari generi e le varie influenza che convergono nella serie (dalla space opera al cyberpunk), qual’é quello con cui ti senti più affine?
Una volta leggevo molta più fantascienza di adesso, forse perché ne circolava meno, adesso è ovunque, e di conseguenza credo di essere andato un po’ in overdose e come spesso capita nel manifestarsi degli eccessi, ti rivolgi altrove, magari all’opposto, e finisci per interessarti alla Storia. Inoltre sono tendenzialmente allergico al termine “genere”, per cui cerco sempre di rifuggire alle catalogazioni, a me piacciono le belle storie, e per belle intendo quelle che riescono a coinvolgermi emotivamente nella lettura, di qualunque tipo esse siano. Giusto per tua curiosità, credo che l’ultimo libro di fantascienza che ho letto sia Asimov, il mio primo libro di Asimov, pensa un po’, “Abissi d’Acciaio”, regalatomi da un amico “asimoviano” che lo ha caldeggiato con convinzione, e devo dire a ragione.

Il tuo stile spigoloso ha accompagnato alcuni degli episodi più noir e malinconici del personaggio. Forse sono un nostalgico, o più probabilmente non seguo più il personaggio in maniera fissa, ma penso a Gli occhi di uno sconosciuto, Il campione, L’ultima onda, Le tre verità. Pensi con il tuo tratto di aver saputo sottolineare determinati aspetti del futuro di Nathan Never e dei personaggi rispetto ad altri?
Non ne sono certo, ma concedimi di sperarlo. Di sicuro i miei concept dell’open space e dell’Alfa Building che misi nelle tavole di prova furono quelli che vennero usati poi per la serie e che oggi sono stati ridisegnati perché evidentemente considerati obsoleti.
Pero’ i titoli che tu hai citato appartengono ai primi episodi della serie, in quel periodo tutti eravamo molto coinvolti nella sua realizzazione, io ad esempio non dividevo il mio tempo che con Nathan, praticamente mi sentivo in simbiosi con lui, c’era un’intensità nella sua realizzazione che oggi si è un po’ perduta. Certo, ha lasciato spazio alla professionalità, ma io che sono un romantico amo pensare che quel periodo si stato un po’ magico per tutti noi, abbiamo un po’ tutti prodotto forse non le storie migliori, ma sicuramente quelle più intense, ma questo aspetto è tanto valido per noi che le abbiamo realizzate quanto per i lettori dell’epoca per i quali rappresentavamo una novità.

Hai anche disegnato episodi dove le arti marziali erano protagoniste. Sei stato scelto per questi episodi per una tua particolare predilezione sull’argomento?
No, è stato un caso la prima volta, una normale conseguenza la seconda.

Recentemente sei entrato nello staff di Dampyr. Hai approcciato il lavoro in maniera diversa per questo personaggio?
No, ho usato gli stessi principi che uso con Nathan, con in più l’entusiasmo di disegnare un personaggio diverso con ambientazioni più realistiche. Amo questo tipo di cambiamenti, lo trovo estremamente stimolante e costruttivo, dovrebbero essere una costante nella carriera di un disegnatore, i grandi disegnatori sono proprio quelli che hanno avuto la possibilità di sperimentarsi su molti fronti.

Su quale personaggio vorresti lavorare? Hai mai pensato di proporti in Bonelli come autore completo, o preferisci rimanere solo disegnatore?
Mi è stata rivolta spesso questa domanda e ogni volta ci penso sempre un po’, per vedere se nel frattempo ho cambiato idea. Poi mi ritrovo a dare sempre la stessa risposta. Mi piacerebbe lavorare su altri personaggi, certo, ma solo per curiosità, per la voglia di cambiare soggetti ed ambientazioni, ma non è che ne abbia di preferiti. Come autore molti anni fa mi proposi anche come sceneggiatore e, a dire la verità, mi venne detto di sì (si parla di Nathan Never), ma poi sono stato io che non ho mai dato seguito a questa mia proposta, non ne ho mai avuto il tempo, non mi è venuta l’idea giusta, non so…forse più semplicemente quando penso ad una storia la penso ex-novo, e non da inserire su un solco tracciato da altri.

In casa Bonelli stanno per prendere il via nuove miniserie dopo Brad Barron e Demian, come quella fantascientifica alla “Verne” di Serra, e la collana di volumi autoconclusivi. Sei coinvolto in alcuni di questi progetti?
Nei volumi autoconclusivi. Sto realizzando una storia appunto, con Paola Barbato.

Puoi dirci qualcosa di più su questa storia? Di cosa parlerà?
Non posso dire molto, praticamente quasi niente, anche Paola è stata molto ermetica a tale proposito, ed io mi guardo bene di aprire lo scrigno dei segreti. Comunque si tratterà di una sorta di fanta-thriller con risvolti da romanzo di formazione, lo so, è un po’ pochino. E poi sai, è giusto che tu mi faccia una domanda del genere, ci mancherebbe, ad ognuno il suo mestiere, pero’ oramai si tende a dire quasi tutto in anticipo, in certi casi troppo, si finisce per dare degli elementi ai lettori che poi magari rimangono delusi perché s’immaginavano chissà cosa, stiamo sempre di più perdendo il fascino del mistero e dell’attesa. È vero che le regole del marketing ci dicono che il sano stato dell’attesa fa alzare la febbre dell’acquisto e della curiosità, ma alla fine credo che tutto ‘sto parlare sia un modo per gli autori per essere sempre al centro dell’attenzione.

È la prima volta che lavori con Paola Barbato, vero? Come ti sei trovato?
Sì, è la prima volta e mi sono trovato benissimo. Non l’ho trovata neanche eccessivamente descrittiva (mentre lei si era dipinta così), specialmente tenuto conto del fatto che si tratta di disegnare cose che hanno concezioni articolate e talvolta da inventarsi di sana pianta.

OLTRE IL FUMETTO IN BONELLI

“Maschere senza luce”, “Digitus Dei”, “Il Buio alle Spalle”, “Moonlight Blues”. La tua produzione extra-bonelli non è stata prolificissima ma comunque non vi hai mai rinunciato: cosa rappresenta per te il fumetto fuori dai vincoli di un seriale?
L’uscita dai vincoli del seriale. La libertà di fare quello che voglio, personaggi nuovi, formati diversi, il colore invece del b/n, avere la possibilità di fare altro, perfino misurarsi su mercati diversi. In tutta la mia vita ho cercato di fare quello che mi piaceva cambiando spesso percorsi a favore di altri, è una costante di discontinuità che do al mio modo di vivere e di lavorare.
Comunque l’idea che tu non trovi la mia produzione non “prolificissima” è piuttosto inconsueta tenuto conto che nel frattempo ho disegnato più di trenta albi della Bonelli tra giganti e speciali vari (ad occhio e croce credo che saremo intorno alle 4000 tavole), dove avrei potuto trovare del tempo per fare altro? Sei il primo che considera il mio lavoro (seppur extra-Bonelli) non prolifico, è una curiosa novità.

Negli ultimi anni i tuoi lavori escono prima per la Francia e poi per l’Italia. Che accoglienza hanno le tue opere oltralpe? Il mercato francese per un certo tipo di fumetto continua a essere più ricettivo?
Io con “Mambo Cubano” (il secondo volume della serie “Hasta la Victoria!” uscito in Francia da un paio di mesi) sono già al mio quinto volume francese (tenendo fuori le pubblicazioni di Nathan con Glenat), ma di questi cinque i primi tre sono stati one-shot, che per il mercato francese equivalgono ad uno sparo nel buio, gli unici legati da continuità sono i due volumi della mia serie cubana. Questi vengono pubblicati da una piccola casa editrice, molto conosciuta e con un gran catalogo, ma piccola nei numeri e di conseguenza questo si riflette sulla quantità di copie che stampano e sul relativo venduto. Tuttavia i riscontri che abbiamo sono lusinghieri, i volumi piacciono molto, i commerciali sono soddisfatti e le recensioni sono ottime, inoltre sono un paio di anni che promuovo il mio lavoro in varie manifestazioni d’oltralpe (una pratica molto usata e pare piuttosto producente), e questo mi da modo di vedere, in un’occasione dopo l’altra, l’aumento costante di lettori e di consensi. Direi che sono mediamente soddisfatto, il mercato è molto difficile e in questo periodo si stanno producendo talmente tanti albi che non esiste materialmente lo spazio utile per poterli vendere tutti, per cui è un gioco al massacro anche solo per farsi vedere e guadagnare spazi sugli scaffali delle librerie ma, contrariamente a quello che potrebbe sembrare, non sta attraversando un bel momento.
Per il resto il mercato francese è diverso sotto quasi tutti i punti di vista dal nostro: nel formato, nella distribuzione, nel prezzo, nella considerazione degli altri media, praticamente ci differenziamo in tutto. Anche su questo argomento andrebbe aperta un’ampia parentesi, e ne uscirebbe un discorso piuttosto lungo.

Il tuo rapporto con Michele Medda è proseguito oltre Nathan Never con “Digitus Dei“. Come è nato questo fumetto? È previsto un qualche seguito?
È nato dall’idea che si potesse realizzare un personaggio che si muovesse in un panorama italiano, con le caratteristiche dei personaggi che facevamo per il mercato seriale e con connotazioni di genere. Nacque così padre Sertori, un prete esorcista che combatteva il male per quanto fosse emarginato dalla Curia Ufficiale, un personaggio scomodo da utilizzare come ultima ratio. L’idea ci parve interessante, ma i risultati sono stati invece deludenti. Forse la versione che ha avuto più successo (ma i risultati alla fine non li abbiamo mai conosciuti del tutto) è stata quella realizzata dalla Magic Press, la prima, quella della graphic novel in b/n. Poi Michele, non soddisfatto di quell’esperimento e convinto ancora della bontà del progetto, mise su la sua casa editrice per poter pubblicare i due episodi successivi, questa volta a colore ma nel formato comic-book. Altro errore. I due episodi credo siano stati notati da pochissimi, qualcuno ancora mi chiede se sono stati pubblicati… Che vuoi che ti dica? Qualcosa avremo anche sbagliato noi, per carità, ma sia il pubblico che gli addetti ai lavori hanno comunque dimostrato poco interesse verso il progetto. Ulteriori seguiti, ovviamente, non sono stati previsti.

Ricordo nel secondo numero di “Digitus Dei” una colorazione effettuata al computer che personalmente trovai un po’ pesante, fin troppo coprente, ben lontana da quella che si può vedere in Hasta la victoria!, per esempio. Fu un esperimento o era mirata a comunicare una particolare sensazione nel lettore?
Coprente e pesante li trovo due aggettivi poco appropriati alla descrizione di quella colorazione, forse non sono stati di tuo gradimento, e la cosa è più che legittima, ma non credo fosse una colorazione dai toni eccessivi, semmai diversi, questo sì. Fu il tentativo sia di cambiare registro sulle colorazioni, e quindi in sé un esperimento, sia la possibilità di comunicare una maggiore drammaticità ad una storia che, a parte alcuni momenti topici, era basata su situazioni abbastanza statiche.
In “Hasta la Victoria!” pur usando un programma dalle mille possibilità, oltre alla rigorosa attenzione ad una cartella colori, ho preferito l’uso di colorazioni piatte e sotto certi aspetti regolata da parametri piuttosto rigidi, ma è stata una scelta dettata dallo stile grafico usato per realizzarlo, ho cercato la massima compatibilità tra il tratto e il suo colore.

Moonlight Blues” esprime il tuo amore per la musica: come è nata questa tua passione? Pensi ad altre storie a sfondo musicale?
Moonlight Blues“, al di là del mio amore per la musica, è stata una storia molto importante per me, perché è stata concepita e realizzata in un momento di riflessione, in un momento nel quale mi sono voluto fermare per capire cosa stavo facendo, che cosa volevo fare e dove volevo andare. È una storia di ripartenza, che questa sia legata alla musica forse non è un caso, la musica fa parte della nostra vita e scandisce i momenti come il ritmo delle sue note, ecco, le “note” di “Moonlight Blues” hanno scandito un momento difficile e mi hanno indicato una rotta, se ce ne fossero altre che potessero indicarmi una nuova direzione, forse disegnerei un’altra storia sulla musica, perché no?

Queste sono osservazioni molto interessanti: rispetto alle professioni “normali”, quelle artistiche danno la possibilità di essere valvole di sfogo per i momenti difficili o di passaggio. Quanto di te traspare nei tuoi fumetti?
Bé, in certi casi sono anche valvole di sfogo – ed è sempre curiosa la definizione di “normalità” per un lavoro, sapessi quanti colleghi amerebbero che fosse più normale e meno “artistica” questa professione- ma sono sempre lavori, per cui spesso sono anche loro stessi i fattori scatenanti di certi stress, forse hanno il vantaggio che all’interno di essi si possono trovare anche le relative cure, e forse non molte professioni hanno questa caratteristica. Attraverso il segno grafico prende forma l’interpretazione della nostra realtà personale, l’estensione del nostro inconscio che si fa materia per rappresentare le nostre visioni, pur ammettendo l’impossibilità di trovare qualcuno in grado di analizzare queste influenze, rimane il fatto che il nostro disegno non solo delinea la nostra personalità, ma ci descrive in modo piuttosto preciso per cui sì, direi che il mio segno grafico mi rappresenta parecchio.

HASTA LA VICTORIA! E CUBA

Hasta la Victoria!Hasta la Victoria!” è nato, come hai raccontato in altre interviste, in maniera assolutamente casuale, lasciandoti ispirare da un libro trovato a metà prezzo in un autogrill. Una curiosità mi è rimasta: di che libro si tratta?
Palmeiras de Sangre“.

Come ti sei documentato? Cosa ti ha colpito di Cuba e della sua storia?
Su internet per quanto riguarda il materiale di documentazione fotografica, internet per questo è fondamentale e vi si trova veramente di tutto, basta avere la pazienza di cercare poi, via, via mi sono comprato dei libri e ho cominciato a leggerli, due biografie su Che Guevara e vari altri tomi, poi ho visto e registrato alcuni film, fino a un mese fa, in occasione del mio viaggio che ho fatto a Cuba, dove mi sono girato l’isola in modo da conoscerla direttamente. Una grande esperienza.
Nella vicende di Cuba ci sono tutti gli elementi per scrivere una grande storia d’avventura, il contesto storico giusto, ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, e questa distinzione è quasi didascalica nella sua attribuzione, poi un manipolo di uomini che da soli attraversano il mare per sbarcare su un’isola, che dopo tre anni conquisteranno, combattendo contro un esercito armato fino ai denti e composto da migliaia uomini.
E tu mi domandi che cosa mi abbia colpito? Sono io che mi domando come mai nessuno prima di me era stato colpito da una storia basata su prerogative simili?

Se a volte uno spunto può essere sviluppato a prescindere dall’ambientazione e dal genere e quindi permettere una ampia libertà per il suo trattamento, in questo caso lo scenario reale e storico ti ha costretto a cercare quanto più possibile l’aderenza al vero, a documentarti profondamente. Un lavoro più scrupoloso rispetto ad altri, o sei solito documentarti comunque ampiamente anche per il mondo di fantasia di Nathan o storie come Digitus Dei dove la componente storico-reale non è strettamente presente?
No, l’approccio su questa serie è stato completamente diverso, prima perché in questa non ero solo il disegnatore, poi perché quando si narra di periodi particolari con simili contestualizzazioni non si può far finta di niente, e per quanto ami divagare sulla documentazione, su certi episodi e su certe cose ho cercato di mantenere un rigore maggiore.

Ti è stato di peso il pensiero di sviluppare in maniera scrupolosa un’ambientazione conosciuta solo in maniera indiretta? Che riscontro hai ricevuto sulla tua ricostruzione del mondo cubano?
Io tra le mie caratteristiche (ma io lo considero un difetto), ho l’idiosincrasia verso l’idea di copiare qualcosa, che si tratti di auto o vestiti, abitazioni o panorami, sono allergico, rifuggo. Per cui cerco sempre di interpretare le cose, ci metto del mio cambiando qualche particolare, un dettaglio, anche quando per forza devo disegnare un oggetto preciso che ha caratteristiche non trascurabili, l’importante è che dia l’idea di… Anche su questo lavoro ho preso foto e ho reinterpretato molto, quasi tutto, ma i riscontri sono pero’ stati incredibili. I primi due albi della serie sono stai realizzati empiricamente, da materiale fotografico e in più, con tutti i cambiamenti che il sottoscritto ha fatto. Pero’ nonostante i miei cambiamenti, le mie arbitrarie interpretazioni, ho sempre cercato di restituire la veridicità dell’isola, di quello che mi aveva trasmesso vedendo, leggendo ed osservando, questo lo definisco appropriarsi dell’ideale di un posto, trasfigurandolo attraverso la propria sensibilità e realizzandolo mediante la propria immaginazione, sintetizzandolo attraverso l’idea che ne abbiamo avuto e che abbiamo interiorizzata.
Bene, tutte le persone che sono state a Cuba e che hanno letto l’albo lo hanno trovato incredibilmente pertinente e non solo, molti di loro ci hanno ritrovato le stesse atmosfere che ricordavano dell’isola. Curioso, vero?

Dopo l’uscita del primo volume di “Hasta la victoria!” e aver già scritto il secondo, sei andato a vedere coi tuoi occhi Cuba. Che differenze hai trovato tra la Cuba che ti eri immaginato e quella reale?
Bé, farei una distinzione, L’Avana l’ho trovata più o meno come me l’aspettavo, il resto dell’isola no, anche perché si trova moltissima documentazione sulla capitale, molto meno sul resto infatti, come spesso accade anche altrove, la capitale ha una rappresentatività diversa da tutto il resto del paese. Nel mio viaggio, oltre che nella capitale, ho fatto un ampio giro all’interno della parte centrale dell’isola toccando Cienfuegos, Trinidad, Sancti Spiritus, Remedios e Santa Clara e molti altri centri, e in queste località come anche da noi, i ritmi, comunque lenti ovunque, lo sono ancor di più di quelli de L’Avana, in pratica lo stress e la frenesia della quotidianità, rallenta all’allontanarsi dalle grandi metropoli, ed è un fenomeno riscontrabile ovunque, anche a Cuba.

Cosa ti ha lasciato dentro questa terra? Tornerai ancora a visitarla?
La bellezza di un viaggio fatto con i criteri del viaggiatore e non del turista, la convinzione di essere entrato -per quanto il tempo a disposizione me lo abbia concesso- un po’ all’interno di un’isola che negli ultimi decenni è rimasta mito ed esempio per gli entusiasti del socialismo, e luogo di limitazioni, sacrifici e privazioni per i detrattori, e ne sono uscito con la convinzione che probabilmente non è né l’una né l’altra, ma sicuramente rimane splendida. Ne sono anche uscito con la consapevolezza che spesso se ne parla male ed a sproposito, soffermandosi solo sulle particolarità che interessa sottolineare, ad uso e consumo di lettori o spettatori dell’una o dell’altra parte e, così facendo, non gli si rende la giustizia che merita.
Cuba è una realtà che ci ha provato, ha commesso degli errori e, come accade spesso, paga per le sue colpe ma anche per colpe non sue, io l’ho trovata tanto splendida nella sua storia e tragica nella sua decadenza quanto ricca nei suoi valori umani e sociali. Quando un posto ti è piaciuto molto, e dove hai lasciato degli amici, speri sempre di poterci tornare, in più, a me è mancata tutta la splendida parte orientale di Santiago de Cuba e di Barracoa, e conterei la prossima volta di visitarli.

Dopo questo viaggio, è cambiato qualcosa nell’approccio o nella storia dei due conclusivi volumi di Hasta la victoria! ?
No, non è cambiato niente, tieni presente che al momento ho già terminato la scrittura del terzo volume, per cui nel caso ci fosse qualche cambiamento questo potrebbe avvenire nel quarto che per adesso è solo abbozzato. Certamente è cambiata la “visione d’insieme” del panorama, la realtà si è scontrata con l’idealizzazione che ne avevo fatto, di quella che prima era, per quanto affascinante, una ricostruzione dell’immaginario, adesso ne ho una consapevolezza diversa, adesso ho una percezione definita dei luoghi, e ti confesso che sono il primo ad essere curioso di vedere questa nuova condizione in che cosa si tradurrà.

Infine una domanda di rito: oltre ad “Hasta la victoria!” e Nathan Never, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
A dirti la verità non ho progetti nel cassetto, ho una sceneggiatura di fantascienza scritta almeno una decina di anni fa, un one-shot, che pero’ non ho la minima voglia di riprendere. Per cui al momento non ho progetti futuri, sono tutto teso a terminare questa mia serie che, credimi, mi sta prendendo parecchio tempo, ma che per fortuna mi sta ripagando dandomi soddisfazioni che non avrei mai creduto. Poi ho sempre molto da fare, mi rimangono ancora due albi da realizzare, di cui dell’ultimo già mi preoccupa la complessità, oltre al volume da realizzare con Paola che dovrebbe uscire nel 2008, praticamente dopodomani, oltre ad altre, come direbbe Toto’, quisquilie e pinzillacchere, per cui, dove lo trovo il tempo per pensare ad altri progetti?

Riferimenti:
Stefano Casini, sito ufficiale: www.stefanocasini.com
Hasta la victoria!, sito ufficiale: www.stefanocasini.it
Scuola Nemo: www.scuolanemo.com
Sergio Bonelli editore: www.sergiobonellieditore.it
Grifo Editore – Edizioni DI: www.grifoedizioni.com

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