Sean Chuang (1968) è un fumettista e regista taiwanese. È l’autore di A Filmmaker’s Notes, appunti sulla sua esperienza di regista sotto forma di fumetto e di The Window, con cui ha vinto il GIO’s Graphic Novel Award. I miei anni ’80 a Taiwan è il suo terzo libro, il primo a godere di una edizione italiana (add editore). Abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo dal vivo durante l’edizione 2018 di Lucca Comics & Games.
Nel suo fumetto ci sono molti ricordi legati all’infanzia e all’adolescenza, dai film di Bruce Lee ai Robot giapponesi. Che aspirazioni aveva nel dare vita a “I miei anni ’80 a Taiwan”?
Per quanto riguarda le mie aspirazioni, in realtà non avevo la percezione di quello che stavo scrivendo, non stavo scrivendo in maniera consapevole, non stavo riflettendo su questo. In quel momento la mia attenzione era sui cambiamenti vissuti da Taiwan negli Anni Ottanta, che per me erano assolutamente interessanti e che volevo fermare sulla carta.
Interessanti per due motivi: il primo è che negli Anni Ottanta Taiwan viene liberata dalla legge marziale e questo ha delle conseguenze, perché ha dato la possibilità a tutti i giovani taiwanesi di sentirsi liberi dal giogo in cui si trovavano, liberi di divertirsi per strada. Il secondo motivo è l‘arrivo del canale di MTV e di tanti altri media che hanno permesso ancor più questa liberazione spirituale del pensiero.
Prima che la legge marziale venisse abolita, a Taiwan non si poteva neanche tenere i capelli della lunghezza desiderata, e se erano più lunghi del consentito bisognava nasconderli nel colletto della camicia. Ancora, non si poteva ballare e se si veniva colti a farlo si veniva arrestati. I canali della televisione erano soltanto tre, tutti gestiti dal governo; quando si andava al cinema bisognava alzarsi a cantare la canzone nazionale che andava in loop alla tv.
Fu come quando tieni un cane alla catena per tanto tempo e poi lo lasci andare: lui parte e corre in piena libertà. Per questo motivo ho scritto qualcosa di davvero allegro ed esuberante.
Quali sono state le opere e gli autori che hanno influenzato il suo percorso? Che importanza hanno avuto (e hanno) i fumetti in Taiwan?
Per quanto riguarda le opere che mi hanno influenzato: a quell’epoca, siccome c’era la censura per la legge marziale, leggevamo soprattutto manga giapponesi, che andavano in stampa dopo esser stati corretti dagli editor taiwanesi affinché passassero la censura. Il manga era percepito come una cosa quasi proibita che veniva letta dai ragazzini, un tipo di intrattenimento spicciolo, quasi frivolo. Invece adesso la percezione è diversa, i manga sono sempre più curati e quasi tutti possono leggerne di buona qualità.
Accenna ai fatti politici che circondando la sua vita e quella della sua famiglia, ma i cambiamenti della società restano spesso sullo sfondo. Ha mai pensato di realizzare un’opera a fumetti sulla storia del Taiwan (sulla falsariga di Una vita cinese di Li Kunwu per la Cina o di L’arte di Charlie Chan Hock Chye di Sonny Liew per Singapore)?
Scrivere la storia di un paese è il lavoro di uno storico, non di un mangaka. Credo che voler consegnare la storia di Taiwan sia un compito troppo grande per me, non potrei mai mantenere uno sguardo obiettivo sui fatti narrati, quindi preferisco dare la mia versione delle cose, dal mio punto di vista soggettivo.
È curioso ripercorrere un immaginario diverso eppure simile in qualche modo al nostro, emergono dei paralleli tra gli anni ’80 a Taiwan e gli anni ’80 per noi occidentali: la cultura di massa può essere un veicolo di unione, o rischia di appiattire troppo le tradizioni e la cultura?
Questa è una delle ragioni per cui ho disegnato questo fumetto. Una ragione è quella di unire generazioni diverse parlando ai nostri figli di ciò che eravamo noi da giovani; un’altra è collegare culture diverse, perché vorrei mettere in mostra come in realtà gli anni Ottanta hanno portato cambiamenti importanti a livello sociale non solo per noi taiwanesi, ma anche per il resto del mondo. Per esempio, quando sono stato in Germania mi hanno detto di provare molta empatia con la mia opera, perché nel 1989 cadeva il muro di Berlino e anche loro hanno vissuto sensazioni simili a quelle presenti nel fumetto. Oppure, quando sono stato in Francia un lettore mi ha detto di aver apprezzato il capitolo sul baseball perché, pur non sapendo come si giocasse a baseball, lui aveva quella stessa passione per il calcio.
La nostalgia ha un ruolo sempre più importante nel mercato culturale mondiale: remake cinematografici, il culto musicale per il passato, l’incapacità a volte di cercare il meglio del nuovo per tuffarsi piuttosto in quel che già conosciamo e che ci mette in relazione con il nostro “io” di gioventù. Artisticamente, la vedi come un’opportunità per rivivere il passato con occhi maturi, o c’è piuttosto il rischio di fossilizzarsi sul passato?
La questione non è che ci fossilizziamo sul presente o sul passato, ogni epoca deve affrontare problemi diversi. I ricordi sono importanti, perché in realtà di essi possiamo avere ferma consapevolezza, mentre non abbiamo piena consapevolezza di quello che viviamo nel momento in cui lo viviamo. Non ne abbiamo la visione completa. Per esempio questo si palesa quando noi diciamo ai nostri figli: “quando avevo la tua età mi davo molto più da fare”. Però i giovani di oggi potrebbero dirci: “anche noi ci diamo da fare, solo che lo facciamo in un modo diverso dal vostro”.
Per ricostruire la sua infanzia ha lavorato solo di memoria personale?
Sono tutti ricordi miei. Certo, mi è capitato di parlare con i miei amici, soprattutto con quelli della mia età, di alcuni capitoli che stavo disegnando, per esempio di quando giocavamo nelle sale giochi o del capitolo sui robot: mi è capitato di discuterne con amici ma se una cosa ti rimane dentro, ne sei certo e la scrivi con il tuo ricordo.
La memoria spesso non rappresenta una reale ricostruzione di quanto accaduto, la mente tende a “romanzare” un poco la nostra stessa vita. Si è ritrovato a ricostruire alcuni episodi per poi accorgersi che non erano andati esattamente come ricordava?
Non so neanch’io, perché alla fine le ho narrate dal mio punto di vista, quindi per me sono cose vere. Ci sono dei lettori che, in effetti, mi hanno detto: “ma in quel caso era davvero così?”. Non lo posso sapere con certezza proprio perché ho narrato il mio punto di vista.
Mi incuriosisce il suo ruolo di regista, qual è il rapporto tra il lavoro da fumettista e il lavoro da regista? Rispondono a due esigenze diverse di esprimerti, sono complementari?
Il lavoro da regista è quello che mi permette di avere uno stipendio e mantenere una famiglia. Lavoro con un team, con altre persone, devo confrontarmi con i clienti, con il capo, con chi mi dà il lavoro e con chi lo riceve. Invece il mestiere del mangaka ti permette di fare la tua opera come la pensi tu e solo per te stesso. È un lavoro più personale. Effettivamente, però, i due lavori comunicano tra loro perché, per esempio, mentre sto lavorando come regista pubblicitario, a volte per far capire la mia idea la disegno, la mostro ai miei colleghi e loro capiscono che cosa voglio fare, che cosa voglio realizzare in quella pubblicità; mutualmente, quando lavoro come mangaka mi succede di utilizzare delle cose che mi sono venute in mente o degli influssi che mi hanno colpito dal mondo della pubblicità.
Intervista tenuta dal vivo a Lucca Comics & Games 2018.
Si ringrazia per il lavoro di interprete Martina Renata Prosperi.