Dopo aver apprezzato la particolare bellezza di Prima della prigione, racconto costruito su tre piani narrativi apparentemente slegati fra loro, abbiamo ora la possibilità di leggere quello che è considerato il capolavoro di Kazuichi Hanawa e cioé in Prigione, romanzo grafico che ha fatto conoscere questo importante mangaka anche al di fuori del Giappone.
A differenza dell’altra sua opera già citata, che in qualche modo ne fa da prologo, In prigione è molto rigoroso nella costruzione narrativa, quasi metodica nell’esporre i fatti, nel descrivere cose e ambienti, nell’elencare i più insignificanti aspetti della quotidianità carceraria giapponese.
È molto curioso, nonché eccentrico, questo metodo narrativo, molto distante dalla scrittura fumettistica occidentale, ma altresì differente dalla maggior parte dei manga che mensilmente siamo abituati a trovare nelle librerie. Cio’ che più colpisce questo racconto fatto di pura descrizione, quasi totalmente didascalica nella forma, è la straniazione dell’autore, quasi un atteggiamento di freddezza o di distaccata partecipazione, come se fosse l’osservatore di un esperimento in laboratorio nel quale è prevista anche la sua partecipazione come fenomeno da osservare, studiare e capirne il comportamento. Questa scelta è guidata probabilmente dalla necessità di rapportarsi al tema del racconto, cioé l’esposizione della vita all’interno di un carcere, senza mostrare la minima parvenza di sentimentalismo e drammaticità, come di solito si è portati a fare soprattutto in occidente.
Da questa premessa, appiattire la narrazione, e ridurla a elenchi di cibi consumati (vera ossessione che scandisce il dipanarsi della detenzione) e all’esasperata descrizione di ogni singolo aspetto della vita carceraria, serve ad ossessionare la lettura e il lettore stesso. In questo modo esso assimila e condivide epidermicamente l’assurdità e la disumanità che si celano dietro a regole apparentemente stupide, ma che sono propedeutiche ad un processo di spersonalizzazione del detenuto e all’elaborazione del reato commesso, che da colpa senza scampo si trasforma in vergogna e lutto. Sentimenti che di solito ricadono anche sui congiunti e gli amici del carcerato, che, senza soluzione di continuità, una volta libero si troverà isolato da tutti, ancora prigioniero di convenzioni e usi per noi abitanti dell’occidente cattolico, protestante ed illuminista, inconcepibili.
Ed è più o meno quello che Hanawa ha passato, e che ora è qui a raccontarci, anche grazie all’aiuto di una rete di conoscenti e ammiratori del suo lavoro, che hanno cercato di impedire, invano, la sua carcerazione per detenzione di armi da fuoco (in Prima della prigione, viene raccontata la sua mania per i modelli di pistole che lo porterà ad essere incriminato), sostenendolo poi durante la prigionia e all’uscita dal carcere.
Un autore complesso, dalle tematiche e dal disegno di non facile lettura, spesso entrambi sgradevoli, che non regalano nulla all’estetismo di maniera e all’ammiccamento commerciale. Un fumetto che non è pensato per il semplice intrattenimento, ma per destabilizzare e scandalizzare la società giapponese, perché possa conoscere e interrogarsi sulla situazione carceraria. Letto a migliaia di chilometri di distanza ha il merito di svelare un altro aspetto del paese del sol levante, probabilmente neanche immaginato qui da noi, e nello stesso tempo di mostrarci un altro modo di fare manga.
Una libertà di pensiero e un coraggio artistico poco comuni, che scardinano ancora una volta il concetto secondo cui i fumetti, e soprattutto i manga, sono parenti poveri di ogni altra forma e rappresentazione artistica. La forza e se vogliamo anche la sottintesa violenza di queste pagine sono qui a dimostrare che se in questo campo c’é ancora qualcosa da sperimentare allora possiamo parlare di “arte”. Hanawa non è da considerarsi inferiore a qualsiasi romanziere nel descrivere ciò che ha vissuto. Semmai possiamo dire che usa il mezzo per il quale si è sempre espresso, quello di cui conosce le tecniche e le capacità espressive. Ma questo è tutt’altro che un difetto, semmai nel caso specifico lo considero un vantaggio ben utilizzato.