Lelio Bonaccorso (1982), illustratore, è docente alla Scuola di Fumetto di Palermo. Ha collaborato alle antologie Zero Tolleranza e Resistenze (BeccoGiallo). Su testi di Marco Rizzo ha illustrato i volumi Que viva el Che Guevara (BeccoGiallo), Primo (Edizioni BD) e Gli ultimi giorni di Marco Pantani (Rizzoli Lizard). Di prossima pubblicazione il libro L’invasione degli scarafaggi.
Una narrazione può essere affrontata graficamente in modi diversi, dal disegno realistico a quello caricaturale, passando per illustrazioni allegoriche e simboliche (animali e toni favolistici). Quale pensi si adatti meglio al graphic journalism, una narrazione con un retroterra di cronaca?
In questi giorni io e Marco (Rizzo, ndr) abbiamo annunciato un libro nuovo libro sulla mafia; è una sorta di manuale, la mafia spiegata ai bambini, e i personaggi sono degli animali, mentre negli altri lavori ho utilizzato un tratto più stilizzato, più cartoonesco per certi versi.
Io credo che in base al tipo di storia da raccontare si vada a cambiare anche il segno. Penso che le immagini siano dei segni archetipici, che rimangono di più nell’immaginario collettivo. L’ho potuto verificare col libro su Peppino Impastato: al di là del fumetto, moltissima gente ha assunto l’immagine della copertina e l’ha utilizzata in manifestazioni dedicate alla sua figura ma slegate dal fumetto. Inoltre qualche tempo fa, quando il luogo in cui Peppino è stato ucciso si stava trasformando in una discarica, ho contattato tutti i disegnatori che conoscevo e ho chiesto loro un’illustrazione di Impastato da inserire in un blog (Immagini della memoria). Questa operazione ha dimostrato che le immagini che sono nella nostra memoria sono dentro e nessuno può togliercele, per quanto si cerchi di delegittimare o eliminare segni puramente materiali, e che la figura di Peppino è assolutamente viva. Ciascun artista ha dato una rappresentazione diversa, ma lui era sempre riconoscibile.
Tu e Marco Rizzo vi siete concentrati su episodi accaduti in Italia nella nostra storia recente. Credi che i margini di ricezione siano positivi verso questi temi e queste vicende, soprattutto alla luce dei ripetuti successi di programmi televisivi d’inchiesta (per esempio gli speciali di Carlo Lucarelli)?
C’è stato parecchio interesse, tanto che il libro su Impastato, per esempio, si vende soprattutto in libreria, dove il pubblico è diverso da quello della fumetteria. Il fumetto appare più semplice, più rapido rispetto a un libro, ma ha comunque la capacità di suscitare la curiosità della persona. Magari uno conosce la storia, ma quando comincia a guardare, a sfogliare, poi comincia a interessarsi e appassionarsi. Credo che la forza del fumetto sia questa: arriva più velocemente e con più impatto. Questa forza è dimostrata anche dalla quantità crescente di titoli del genere in uscita, vuoi perché si vendono e l’editoria ci si dedica, vuoi perché hanno un vero valore aggiunto e fanno davvero ciò che Lucarelli fa nelle sue trasmissioni. C’è semplicemente una differenza di linguaggio.
C’è anche una dimensione di partecipazione civile che va oltre il profilo autoriale?
Sì, è un genere di fumetto che non può prescindere dalla partecipazione personale e dall’esporsi, cosa che magari non avviene sempre in altre tipologie di fumetto. Si tratta di un impegno civile continuo; capita spesso che ci invitino per usare il fumetto come medium e parlare di mafia e fenomeni delicati. Ormai abbiamo fatto parecchi incontri di questo tipo e non erano in programma, non erano calcolati, ma siamo contenti di farli quando è possibile.
Essendo il giornalismo grafico un tipo di narrazione legata al reale, come avviene il lavoro sulla documentazione e quanto vincola il disegno?
Credo che la documentazione sia la parte più importante, assieme alla progettazione delle pagine. Per arricchire una storia, sia dal punto di vista grafico sia dal punto di vista narrativo, si deve andare a guardare più cose possibile. Nel caso di Peppino, prima di disegnare avevo visto le foto, il film (I cento passi, ndr), mi ero fatto spedire foto dell’epoca, ero andato a Cinisi, il paese di Peppino, e anche a casa sua, per respirare quell’aria, oltre a vedere delle immagini. Questo allarga la consapevolezza di quel che si sta facendo e dà possibilità in più nella raffigurazione delle vignette e delle illustrazioni. È anche un procedimento assolutamente indispensabile, soprattutto quando si raccontano storie vere, dove bisogna fare attenzione a quello che si disegna e a quello che si scrive. Io faccio una distinzione tra persona e personaggio: Peppino Impastato, per esempio, non è un personaggio, è una persona e come tale bisogna trattarlo.
Per Primo, sempre su testi di Marco Rizzo, hai dovuto recuperare un personaggio nato in ambiente fascista con specifiche intenzioni propagandistiche. Come hai affrontato e come valuti la ripresa e l’aggiornamento di questa figura?
Con Primo mi sono divertito moltissimo, perché c’era più azione e si potevano esagerare determinati standard rispetto alle altre cose che avevamo fatto. Credo sia molto interessante quando si fa un restyling o si fanno operazioni di rivisitazione storica. Con Primo siamo riusciti a fare un fumetto di supereroi ambientato in Italia che non sembra un prodotto locale; ho questa sensazione quando riguardo le pagine. Marco nella sua formazione è molto legato ai supereroi americani ed è un grandissimo conoscitore del mercato del fumetto americano. In quel libro, siccome potevamo lasciarci andare e divertirci, Marco ha trasferito tutta la sua cultura in materia. Sicuramente si sente l’influenza dei personaggi Marvel e DC. Io mi sono trovato bene, anche se credo che i supereroi siano come la pasta: la pasta è italiana, i supereroi sono americani, non c’è niente da fare!
Tu e Marco Rizzo avete lavorato spesso insieme. Come funziona il vostro affiatamento artistico e quale è il rapporto disegnatore/scrittore?
Io e Marco ci conosciamo da quando io frequentavo la scuola di fumetto a Palermo, dove lui insegnava. Siamo diventati amici, quindi di base c’è un rapporto di amicizia caratterizzato da una certa comprensione reciproca. Il meccanismo è molto semplice: lui sa quello che mi piace disegnare e quello che mi viene meglio disegnare, e mi favorisce in questo nella sceneggiatura; io so come è lui, come vuole che siano interpretate e disegnate certe cose, e gli vado incontro da questo punto di vista. Si è creata un’alchimia che permette a entrambi di esprimerci senza troppi limiti.