Il fumetto al cinema, tra transmediazione e intermediazione

Il fumetto al cinema, tra transmediazione e intermediazione

Con l'intenzione di fornire una semplice definizione, in questo articolo analizziamo la differenza tra i due processi antitetici alla base del processo di adattamento dalla tavola disegnata alla pellicola, fenomeno quanto mai attuale e degno d'attenzione.

Il processo sinergico che vede confluire in vari media versioni alternative di uno stesso prodotto (meglio, di un franchise1 ) dell’industria culturale ha conosciuto negli ultimi anni uno sviluppo inarrestabile.
Il fenomeno dell’adattamento, o traduzione intersemiotica2, da tavola disegnata a pellicola, live action o d’animazione che sia, ne costituisce solo un caso particolare, ma di recente è stato in grado di catalizzare l’interesse di vari settori accademici. Grazie al successo popolare di numerose produzioni cinematografiche, soprattutto americane e giapponesi, le tecniche adattive hanno conosciuto una rapida evoluzione, in contemporanea allo sviluppo di forme ibride come gli animated comics3, spesso inseriti nei dvd di alcune pellicole – non necessariamente tratte da fumetti – sotto forma di extra o utilizzati come trailer. Inevitabile quindi che sempre più ricercatori abbiano cominciato a dedicarsi in modo sistematico all’analisi del linguaggio del fumetto alla ricerca dei punti di contatto con la settima arte.

Il processo di adattamento, secondo André Gaudreault4, implicherebbe il passaggio forzato della fabula “nel corsetto di un altro medium” attraverso una sorta di scrittura intermedia che permette all’icona di un testo (cioè l’idea che se ne fa il suo lettore) di conoscere nuova forma in un altro medium lasciandovi la propria impronta. Tale impronta può essere il semplice nocciolo duro della fabula o un testo differente.

Nel tentativo di definire le macrofasi del processo Thierry Groensteen prima di tutto distingue gli elementi su cui operare: la fabula – o soggetto – che l’opera narra e sviluppa, il medium nel quale s’incarna, il discorso che tiene esplicitamente o implicitamente, e infine il testo che costituisce la superficie fenomenologica (parole, ma anche immagini o suoni). Queste componenti si possono considerare come intrinseche all’opera sorgente anche se non le appartengono in modo esclusivo. Una stessa fabula difatti può aver ispirato numerose opere, su medium differenti.

Da non dimenticare inoltre che l’opera adattata è posteriore al suo referente, determinato dalla condizione del medium nel momento storico in cui è stato prodotto, all’interno di un contesto insieme artistico, culturale, sociale, economico e ideologico. Le scelte e le soluzioni artistiche saranno delle risposte a questi mutamenti. Ecco allora emergere il primo ordine di variazioni: il contesto, l’autore – il discorso veicola sempre, coscientemente o meno, una parte di soggettività individuale5 – e il medium, e ciò implica un’organizzazione differente del discorso e del contenuto di partenza: i topoi e i simboli non sapranno infatti essere identici in due media differenti, ma saranno solo capaci di presentare delle equivalenze approssimative. Bisogna infine tener conto delle differenze nelle condizioni di ricezione dell’opera, anche in termini di attese. Queste differenze inducono, nel ricevente, una percezione e una riformulazione differenti del discorso tenuto.

Per quanto concerne la fabula le modifiche alle quali essa può essere sottoposta sono diverse. Senza pretesa di esaustività Groensteen in La transécriture6 ne menziona quattro: può trattarsi di cambiamenti delle situazioni drammatiche (dare una soluzione diversa a una scena o a un conflitto), di variazioni della struttura enunciativa (ad esempio quando si sopprime la voce narrante in un film adattato da un romanzo scritto in prima persona), di modifiche ai personaggi o di trasposizioni diegetiche (cambiamenti d’epoca o di quadro geografico). Tali differenze possono arrivare a rendere irriconoscibile la fabula di partenza. Inoltre una terza opera, con o senza alcun particolare rapporto con l’ipotesto, può servire come riferimento implicito e contribuire al lavoro compiuto; quest’operazione mobilita spesso degli stati secondari (o forme derivate) del testo di partenza, o alcuni suoi corollari (come elementi biografici dell’autore) aprendosi così al territorio illimitato dell’intertesto.

Il processo adattativo non avviene mai in modo “neutro”, ma ha implicazioni ben precise sui modi di rapportarsi con l’opera precedente:

“[…] come sottolinea Umberto Eco, sarebbe forse più corretto parlare almeno di due postmoderni: uno, artistico, inventato dagli architetti e adottato poi in letteratura, tendente a instaurare con il passato un rapporto armonioso basato sulla rivisitazione, sul pastiche, sulla citazione affettuosa ed ironica; l’altro, di natura nichilistica, elaborato da filosofi come Lyotard, Derrida, Vattimo, fondato sulla messa in questione dell’eredità del pensiero precedente.”7

Gino Frezza, in un recente contributo redatto per il XV Convegno Internazionale di Studi sul Cinema, nel 2008, arriva ad affermare che: “Cinema e fumetto si raggruppano quasi in un unico ipermedium.8 individuando, a livello narratologico:

“Il nodo strettissimo fra sceneggiatura e racconto audiovisivo; i fumetti hanno alimentato le narrazioni del cinema senza che vi fosse il bisogno di farli divenire oggetti di traduzione specifica, ma in modo più fondamentale, per le procedure di fondo della narrazione per immagine. In tal senso il repertorio dei fumetti è un magazzino inesauribile – più che di storie – di fondamenti visivi e di escogitazioni narrative.”9

Il concetto non è distante da quel “network di rimediazione10 teorizzato da David Bolter e Richard Grusin, in cui i nuovi media rimodellano i vecchi per costituire forme ibride multimediali, ma alla base di queste riflessioni troviamo la geniale intuizione di Marshall McLuhan: “il ‘contenuto’ di un medium è sempre un altro medium.11

In questo senso ci viene suggerito che nella nostra cultura un singolo medium non agisce in forma isolata, perché: “si appropria di tecniche, forme e significati sociali di altri media e cerca di competere con loro e di rimodellarli.12

Ecco allora che in un’epoca di comunicazione integrata, l’industria culturale declina le proprie icone in più versioni, anche con il rischio di contraddire l’universo narrativo di partenza, per raggiungere pubblici ideali differenti. Diventa allora necessario, anche alla luce delle considerazioni sulla doppia natura della narrativa post-moderna, distinguere due processi fondamentali: transmediazione e intermediazione.

Per transmediazione (o crossmediazione), secondo Henry Jenkins, intendiamo:

“[…] un processo in cui gli elementi costitutivi di una narrazione vengono dispersi sistematicamente attraverso molteplici canali di trasporto allo scopo di creare un’esperienza d’intrattenimento unificata e coordinata.13

L’autore individua nella sinergia e nella coerenza interna gli elementi fondanti di un sistema transmediale, in cui ogni singolo frammento deve essere leggibile di per sé, anche se inscritto nella continuità narrativa globale. La comprensione degli elementi intertestuali, in ogni caso, rende più completa l’esperienza dell’utente disposto a una fruizione multimediale dello stesso universo narrativo.
In questo senso, il franchise Matrix, suddiviso in tre pellicole, una serie a fumetti, cortometraggi animati e un videogioco, rappresenta un esempio efficace di transmedialità, con ogni singolo evento mediale fruibile di per sé e dotato di coerenza interna, seppur inserito in un disegno complesso e articolato.

Per intermediazione, d’altro canto, definiamo in via generale:

“il processo di trasferimento e di migrazione, tra i media, di forme e contenuti.”14

In quest’ottica il concetto di transmediazione appare prossimo a un suo sottoinsieme, ma una serie di studi recenti, raccolti dal professor Luciano De Giusti nel volume Immagini migranti – Forme intermediali del cinema nell’era digitale, aiutano a circoscrivere il campo d’azione. Federico Zecca nota subito come:

“Negli ultimi anni la nozione si è imposta come l’upgrade version, in epoca digitale, di quella di intertestualità che, nata in ambito letterario e trasposta al cinema con alterni risultati, viene ormai impiegata per descrivere quasi esclusivamente i rapporti testuali endolinguistici, vale a dire interni allo stesso medium.”15

Insieme all’autore, la totalità degli studiosi è concorde nel definire l’intermediazione un processo di comunicazione tra due o più media, distinguendola dall’intertestualità. Ma per fare un passo avanti, dobbiamo leggere tra le righe e notare come nei loro interventi gli autori spesso individuino nel termine la tensione dialettica della rimediazione; uno dei temi caldi della discussione è proprio la sua valenza nel processo di ibridazione e nel confronto mediatico, individuando ambiguità, variazioni, fratture, incertezze nelle opere di adattamento.

In questa problematica sta la chiave della differenza tra la transmediazione – una pratica multimediale strategica e simultanea, integrata e coerente, in cui ogni elemento costituisce un pezzo chiave di un unico, ampio puzzle – e l’intermediazione, processo comunicativo a posteriori, dialettico e ambiguo, che individua nel conflitto mediatico il suo territorio di analisi.

Da qui, una sostanziale differenza d’approccio nella comprensione di un fenomeno adattivo: la lettura del frammento all’interno di un quadro definito e previsto o l’individuazione degli elementi di contrasto emersi in seguito al tentativo di “traduzione”.


  1. Il termine inglese media franchise indica la costituzione di un marchio destinato a uno sfruttamento di vari prodotti tramite diversi canali dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento. 

  2. Nell’originale definizione di Jakobson la traduzione intersemiotica o trasmutazione è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di sistemi di segni non verbali, ma nel recente dibattito sul fenomeno viene esteso anche alle trasmutazioni tra i soli sistemi non verbali. Cfr. Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, in Reuben A. Brower, On Translation, Harvard University Press, Cambridge (1959), pp. 232-39. 

  3. Ovvero storie a fumetti le cui sequenze di vignette – con tanto di baloon e didascalie – sono animate digitalmente. 

  4. Cfr. Thierry Groensteen, André Gaudreault (A cura di), La transécriture. Pour une théorie de l’adaptation. Littérature, cinéma, bande dessinée, théâtre, clip. CNBDI (Centre National de la Bande Dessinée et de L’image), Éditions Nota bene, Angoulême 1993. 

  5. A meno che non si tratti di un autoadattamento (come in Sin City, dove Frank Miller ha portato sullo schermo le proprie creazioni). 

  6. Cfr. op. cit. 

  7. Barbara Maio, Christian Uva, L’estetica dell’ibrido. Il cinema contemporaneo tra reale e digitale, Bulzoni, Roma 2003. 

  8. Gino Frezza, L’immagine, il percepibile, il narrabile, in Leonardo Quaresima, Laura Ester Sangalli, Federico Zecca (a cura di), Cinema & Fumetto, Forum, Udine 2009, p. 

  9. Ibidem. 

  10. Cfr. Jay David Bolter, Richard Grusin, Remediation – competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 2002. [1999] 

  11. Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 1967, p. 16. [1964] 

  12. Jay David Bolter, Richard Grusin, op. cit., p. 93. 

  13. “a process where integral elements of a fiction get dispersed sistematically across multiple delivery channels for the purpose of creating a unified and coordinated entertainment experience.” Henry Jenkins, Transmedia Storytelling 101, da Confessions of an Aca-Fan – the official weblog of Henry Jenkins, 22 marzo 2007. www.henryjenkins.org/2007/03/transmedia_storytelling_101.html  

  14. André Gaudreault, Postfazione del 1998, in Id., Dal letterario al filmico, Lindau, Torino 2006, p. 207. 1989, seconda edizione ampliata 1998 

  15. Federico Zecca, Elementi per una genealogia intermediale, in Luciano De Giusti (a cura di), Immagini migranti – Forme intermediali del cinema nell’era digitale, Marsilio Editori, Venezia 2008, p. 37. 

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