Nei primi anni ’90 del XX secolo, Bryan Talbot era uno dei giovani nomi di punta del panorama fumettistico britannico. Divenuto noto al grande pubblico dopo il successo de Le avventure di Luther Arkwright, saga fantascientifica precorritrice dei tempi vista l’ambientazione ricca di multiversi e universi paralleli, Talbot era in piena rampa di lancio e parte di quel fenomeno poi conosciuto come British invasion, che dalla metà degli anni ’80 portò una serie di autori britannici – da Alan Moore a Neil Gaiman – a rivoluzionare il fumetto americano.
Talbot – da autore eclettico quale poi la sua carriera avrebbe dimostrato essere – era alla ricerca di un’idea per la sua successiva graphic novel. Al primo spunto su una storia ambientata nel Lake District – regione dell’Inghilterra paesaggisticamente affascinante, fonte d’ispirazione per tanti rappresentanti del Movimento Romantico inglese, da Wordsworth a Coleridge – si era presto unito quello su Beatrix Potter, famosa scrittrice e illustratrice creatrice del personaggio di Peter Coniglio, anche lei legata a quei luoghi.
Quando a questi due elementi se ne era aggiunto un terzo e fondamentale – l’idea di parlare di abusi e molestie sessuali in ambito familiare – il fumettista aveva trovato il fulcro della sua nuova storia, che nella sua idea avrebbe voluto raggiungere un pubblico più generalista e non solo di appassionati. Purtroppo i rifiuti da parte di molte case editrici non di fumetto si susseguirono numerosi finché Talbot non trovò in Mike Richardson e nella sua Dark Horse Comics la casa per La storia del topo cattivo.
Helen è una giovane adolescente senzatetto che, con la sola compagnia di un topo, passe le giornate a chiedere l’elemosina nella metropolitana londinese. La ragazza è scappata di casa, per non subire più le violenze e le molestie sessuali del padre e le mancanze di una madre totalmente anaffettiva.
Traumatizzata psicologicamente, Helen trova sollievo soltanto nei libri di Beatrix Potter di cui ricopia in continuazione i disegni e nell’unico rapporto sincero che riesce ad avere, quello con il topo che porta con sé. Incapace di vedere un futuro per sé stessa, la ragazzina decide di fare come la sua autrice preferita che scappò nel Lake District per liberarsi dal giogo impostole dai genitori. Per Helen quel viaggio fisico si accompagna a un percorso di guarigione psicologico, una terapia che le fa ritrovare l’autostima e la voglia di vivere.
Se ancora oggi le molestie sessuali in ambito familiare sono un argomento difficile da affrontare, seppure una evidente maggiore consapevolezza nell’opinione pubblica abbia permesso uno sdoganamento dell’argomento che ha reso più semplice per le vittime chiedere aiuto, tre decenni fa restava un tabù insormontabile, figuriamoci come focus narrativo di un fumetto.
Eppure Bryan Talbot affronta questo tema di petto, forte di un attento e vasto lavoro di documentazione preliminare, creando una storia così clinicamente accurata, anche da un punto di vista di approccio terapeutico, da essere diventata uno strumento presente in vari centri antiviolenza del Regno Unito e di altre nazioni.
Il topo cattivo del titolo ha una duplice valenza. Rappresenta il modo in cui si vede Helen, una creatura verso cui tutti provano disgusto – esattamente come per i topi, nonostante sia ormai dimostrato quanto siano animali intelligenti e puliti – e che sente di meritare quanto le è accaduto, in un tipico meccanismo malato per cui le vittime di molestie sessuali in ambito familiare vivono la violenza come una giusta punizione per qualche loro mancanza o comportamento sbagliato nei confronti del “carnefice”.
A sua volta il titolo si lega, letterariamente, al titolo di uno dei libri di Potter, La storia di due topini cattivi.
Perché, nonostante generalmente si sia diffusa l’idea che i racconti di Potter siano dolci e rassicuranti storie di animali antropomorfi, in realtà il mondo creato dall’autrice è spesso oscuro e crudele, come quello nel quale è costretto a vivere Helen.
La storia del topo cattivo è un libro duro e doloroso, un viaggio attraverso un trauma enorme che rischia di spegnere per sempre una giovane vita. Quella che viene fuori alla fine è una nuova Helen, una sopravvissuta ma piena di forza: un esempio per tante altre persone vittime dello stesso tipo di violenza.
Il realismo di questa storia impone all’autore la scelta di un segno adeguato. Per tutta la sua carriera Talbot è stato capace di modulare e variare il proprio stile, comunque riconoscibile, a seconda del tema trattato di volta in volta. Reduce dall’uso dei virtuosismi e dal gusto della sperimentazione che è possibile ritrovare sulle pagine delle Avventure di Luther Arkwright, in quest’opera l’autore si orienta verso un segno estremamente realistico che, senza rinunciare al gusto quasi maniacale per la resa dei dettagli, si faccia carico di una narrazione precisa e diretta.
L’estrema varietà della composizione della griglia delle tavole diventa strumento della modulazione del ritmo. La spessa cornice nera delle vignette si fonde con il nero totale che riempie gli spazi bianchi nelle sequenze nelle quali la protagonista è in compagnia del padre e rivive i traumi passati, con il bianco che torna a separare i pannelli nel presente narrativo, quando Helen è ormai lontano da casa e dalla sua famiglia, dall’oscuro abisso che l’ha inghiottita bambina.
Solo quando la ragazza ha raggiunto la consapevolezza e ha scoperto gli strumenti per affrontare il genitore ed esorcizzare il male vissuto per lasciarselo definitivamente alle spalle, il nero non accompagna il padre in scena. A significare il traguardo raggiunto da Helen, la fine del suo percorso di guarigione psicologica.
Anche il colore diventa un forte elemento narrativo, con Talbot che opta per una palette estremamente varia e luminosa, che si tinge spesso di rossi accesi nei frangenti più drammatici della fuga di Helen, per sciogliersi poi nei toni realistici ricchi di verdi, bianchi e azzurri dei meravigliosi squarci di paesaggio di Lake District, in cui l’angoscia della protagonista guarisce in un abbraccio con la natura incontaminata.
La storia del topo cattivo resta ancora oggi una graphic novel assolutamente contemporanea e al passo coi tempi, tanto nella materia narrata – più attuale che mai – quanto nel linguaggio usato, diretto e scevro da didascalismi, chiaro e preciso. A conferma dell’estremo talento di Bryan Talbot, autore immeritatamente poco considerato in Italia, capace di dare vita a un racconto appassionato e riflessivo (due aggettivi che Neil Gaiman spende per l’autore stesso nella prefazione) che meriterebbe di trovare posto nelle biblioteche scolastiche di scuole medie e superiori, soprattutto in questa nuova edizione arricchita da un efficace apparato critico ad opera dello stesso Talbot e della giornalista Jennifer Guerra.
Abbiamo parlato di:
La storia del topo cattivo
Bryan Talbot
Traduzione di Omar Martini
Tunuè, 2023
144 pagine, cartonato, colori – 19,90 €
ISBN: 9788867904587