Verso la fine degli anni ’80, la coppia argentina Munoz/Sampayo decise di scomporre e analizzare la società. Forse per avere uno sguardo più approfondito, forse per curiosità scientifica, certamente per l’esigenza di cercare una nuova forma di comunicazione, in linea con altre ricerche di quel periodo, che non cercasse né spiegazioni né giustificazioni. Mostrare le atrocità – per parafrasare il celebre e meraviglioso libro di James G. Ballard – che si nascondono in ogni uomo.
Il “vetrino” da laboratorio scelto dagli autori per questa ricerca è il Bar. Con una sequenza ormai celebre di racconti più o meno lunghi, la coppia sudamericana ci mostra alcuni spaccati, alcuni pezzi di vita e di verità.
Ultima ristampa di questi lavori in ordine cronologico sono i due volumi editi dalla Coconino Press, ai quale facciamo riferimento. Nell’introduzione Sampayo si racconta, svelandoci un suo personale universo, intimo e toccante quasi quanto le storie a fumetti, e spiegando le ragioni della sua predilezione per le vite e i personaggi da bar.
Il bar è un microcosmo ricchissimo di umanità in evoluzione, dove l’interazione tra le parti è continua, per quanto marginale possa sembrare. Essere spettatori di un incontro o, peggio, di una morte, può trasformare l’avventore casuale del bar, mutare i suoi percorsi di pensiero e le sue azioni.
Dal punto di vista stilistico, la ricerca di Munoz e Sampayo è interessantissima. I disegni deformano facce e posture, i protagonisti non vengono mai ripresi per intero, ma sempre a pezzi, come inquadrati per caso da una macchina da presa fuori controllo. Le linee si intersecano e si compenetrano, rendendo difficile agli occhi del lettore riuscire a distinguere dove finisca un corpo e ne inizi un altro. Una rappresentazione grafica perfettamente in linea con gli scopi della narrazione: siamo tutti pezzi l’uno dell’altro – e torna alla mente un’altra opera narrativa, ovvero “Pezzi di una rosa olografica” di William Gibson – pezzi che si incontrano e scontrano alla ricerca di una unità e di un’armonia impossibili.
Le storie sono compresse, densissime, con una continua alternanza di movimenti temporali, ora fortemente rarefatti, ora rapidissimi, dove il passare dei giorni si confonde col passare dei minuti, senza che didascalie o altri artifici ne diano spiegazione. Sampayo sembra scegliere con attenzione maniacale parole e “voci”, tanto che alcuni dialoghi sembrano oggi innaturali, forzati, troppo finalizzati alla ricerca di un particolare significato, funzionale alla narrazione o a un messaggio. Questa forzatura, se si vuole, è presente un po’ ovunque, anche nel tratto di Munoz, tanto da diventare l’essenza stessa della ricerca dei due autori. Paradossalmente, il loro tentativo di mostrare la realtà con un approccio quasi “naturalistico”, da osservatore casuale, documentaristico, si trasforma in distorsione espressionista.
Si tratta, per certi versi, dei risultati del cosiddetto Effetto Heisemberg, secondo il quale l’osservatore non può non modificare quanto viene osservato.
La ricerca solo apparente di neutralità, quindi, è più un’aspettativa del lettore che intenzione degli autori. Sampayo vuole mostrarci la realtà da un preciso punto di vista, che è quello fragile della disperazione, dell’incomunicabilità, dell’inadeguatezza e dell’incoerenza. I protagonisti sono persone solo apparentemente normali: sono depressi, assassini, nevrotici; estremi di un equilibrio in bilico. è il tentativo di rappresentarci a noi stessi ingigantendo alcuni tratti. è la realtà abnorme della disperazione, appunto.
La distorsione è il meccanismo attraverso il quale queste storie acquisiscono un senso, emozionano e coinvolgono. Diventano significative.
Sono racconti attualissimi che, mettendo in scena pezzi aberranti di vita, ci svelano il significato ecologico dell’esistenza di ognuno di noi: ogni nostra azione ha conseguenze all’interno ed all’esterno del nostro mondo; ogni comportamento, ogni scelta, richiede un’assunzione di responsabilità. Altrimenti è il caos, è la perdita di senso, è la frammentazione esistenziale.