Sorriso smagliante, occhi che ridono e modi garbati uniti a una ironia pungente e scanzonata: basta la prima stretta di mano per rimanere colpiti da Will McPhail e trovarsi subito a proprio agio. Da alcuni anni è uno dei più apprezzati vignettisti del New Yorker (visitate il suo sito internet o il suo profilo instagram per avere un assaggio dei suoi lavori, molto spassosi e ironicamente dissacranti) e nel 2021 ha fatto il suo esordio nel mondo del fumetto con In., pubblicato da Mariner Book, vincitore del Betty Trask Prize 2022 e nominato agli Eisner Awards. Arrivato nel 2023 in Italia per i tipi di Tunuè con il titolo Entra., il graphic novel d’esordio di Will McPhail segue le vicende di Nick, artista che tra un caffè e l’altro cerca di fare ordine nella sua vita e soprattutto di creare delle relazioni profonde e forti con chi gli sta intorno, dai suoi familiari alla ragazza da poco conosciuta al bar, superando l’ostacolo della superficialità. Se questa sinossi può far pensare all’ennesimo graphic novel intimista e vagamente melenso, leggendo il volume si ritrovano tutte le tematiche e i toni ironici e salaci tipici delle vignette di McPhail, inseriti in una forma narrativa eclettica, dal ritmo ben calibrato nella costruzione dei climax comici ma anche drammatici. Il fumetto, anche nei momenti più profondi e intensi, non si prende mai sul serio e rispecchia l’equilibrio tra tragedia e commedia che caratterizza la vita stessa. Se lo stile è quello ormai consolidato delle vignette, in cui i personaggi sono caratterizzati da occhi tondeggianti e ombreggiati, quasi non dormissero da giorni, quello che colpisce è la capacità di costruzione della tavola, variegata eppure mai fine a sé stessa, sempre pensata per dare risalto al nucleo centrale della storia. E in questo senso è pensato anche l’uso del colore, che segna il passaggio da una interazione fugace e priva di contenuti a un qualcosa di più profondo e toccante: un’idea molto semplice, eppure di grande efficacia. Con questo esordio nel mondo del fumetto, Will McPhail realizza quindi un’opera lineare e schietta, divertente e commovente, che mette a nudo i suoi personaggi, e di riflesso il suo autore.
Per approfondire meglio questi temi, abbiamo incontrato l’autore alla presentazione del volume al Salone del libro di Torino. E non vi stupite delle molte risate che leggerete: è stata un’intervista davvero divertente!
Vorrei iniziare presentandoti al pubblico italiano. Quando hai deciso di diventare illustratore e fumettista? Quali sono state le principali influenze?
Non appena ho scoperto dell’esistenza di penne e matite ho iniziato a disegnare. Da molto piccolo leggevo quasi esclusivamente Calvin e Hobbes e per molto tempo mi sono limitato a copiarlo. Ero affascinato dagli occhi a puntino dei personaggi e li adoro ancora oggi, conosco ogni singola vignetta del fumetto. In seguito, con l’avanzare dell’età, ho deciso che avrei potuto fare qualcosa nel mondo del fumetto e quando ho scoperto il New Yorker, per me è stato il top, il mio personale Everest da scalare per raggiungere la vetta. Non ho mai studiato arte, però, ho frequentato l’università per studiare zoologia, niente a che vedere con l’arte! (ride) Ma passavo tutto il tempo a disegnare sul mio quaderno e sui miei block notes, a fare schizzi dei docenti, non ascoltando affatto le lezioni. Da quel momento, quando ancora frequentavo l’università, ho iniziato a vendere vignette a riviste britanniche, come Private Eyes, per poi approdare al New Yorker. E infine, molto più tardi, dopo alcuni attacchi di panico e una pandemia, sono riuscito a scrivere il mio libro.
Quindi l’hai realizzato durante la pandemia?
In realtà ho proposto e scritto l’idea del libro prima, ma poi ho finito il libro durante la pandemia. È buffo, perché il libro parla di isolamento e di mancanza di legami, mi sento una specie di Oracolo della tristezza! (ride)
Sei un illustratore che fa dell’ironia la sua arma principale. Dato che lavori in questo campo da molti anni, come valuti lo stato di salute delle vignette giornalistiche? Come sono cambiati con l’esplosione dei social media e la trasformazione delle comunità online?
Nello specifico, quanto è più complicato oggi realizzare vignette comiche o addirittura satiriche, dovendo tenere conto delle varie sensibilità e delle possibili distorsioni del politicamente corretto?
Da un punto di vista politico non mi ha influenzato molto, mi occupo più di vignette di politica sociale o di politica di genere – semmai esistesse qualcosa di simile, o forse si tratta per lo più di piccioni e sesso! (ride). Le mie vignette non sono mai state troppo controverse, sono più che altro il frutto delle follie che mi passano per la testa in quella particolare settimana. Quindi, in pratica, continuo a fare quello che voglio.
Veniamo ora a In., in italiano è Entra. Questo è il tuo primo graphic novel: da dove è nata l’idea, o addirittura l’esigenza, di realizzare questo fumetto?
Realizzavo le vignette del New Yorker e a un certo punto Heather Karpas, che in seguito sarebbe diventata la mia agente, ha visto il mio lavoro e mi ha scritto un’email chiedendomi se avessi mai pensato di scrivere un fumetto. Ho mentito subito, dicendo di sì, e quando ci siamo incontrati ho iniziato a scrivere le idee per il libro su un tovagliolo nel locale in cui stavamo mangiando. Una di queste idee riguardava le interazioni tra le persone. Sono sempre stato affascinato dalle conversazioni, che funzionano come le combinazioni di una serratura – sono infatti combinazioni di lettere e parole – e da come cambiarle possa trasformare un’interazione da una sorta di performance a una connessione autentica e profonda, quasi una sorta di esperienza trascendente nella sua intimità. Heater ha subito amato questa idea e per me è stata la spinta per immergermi completamente in questi pensieri, per ampliare le mie riflessioni su ciò che accade quando si passa da una performance a una connessione vulnerabile e reale.
È stato difficile? Cosa hai imparato da questa esperienza?
È stato difficile, mentirei se dicessi altrimenti. È stato quasi come un lungo attacco di panico durato due anni! (ride). A parte gli scherzi, in un certo senso è stato davvero liberatorio passare dalle singole vignette a questo, perché avevo più spazio sulla pagina e non dovevo creare un intero mondo e una battuta potente in una singola immagine: potevo prendermi il mio tempo, essere più sciolto e andare tranquillo. Ovviamente la mia sensibilità comica è ancora presente, le mie battute sono quelle che faccio sul New Yorker. I miei editor mi hanno aiutato, sottolineando che la parte divertente sarebbe venuta fuori in modo naturale e che avrei dovuto concentrarmi di più sul dramma, e questa è stata la parte più impegnativa: curare il dramma e il ritmo, rallentandolo per guidare il lettore attraverso la storia.
E infatti il ritmo è una delle cose che mi ha colpito di più. C’è stata qualche ispirazione per il ritmo?
Ritorno ancora una volta a Calvin e Hobbes: in tutta l’opera ci sono varie vignette senza parole che ti fanno prendere tempo e guardare la pagina con il tuo ritmo. Ho letto molte opere di Liana Finck (celebre fumettista del New Yorker, NdR) e ho letto Sabrina di Nick Drnaso. A parte questo, ho cercato di non leggere troppe GN mentre lavoravo, perché avevo paura di rubare troppo o di paragonare costantemente il mio lavoro a quello degli altri. Per costruire la prima parte del libro, per mantenere un legame con lo stile delle mie tavole sul New Yorker, ho utilizzato alcune illustrazioni a vignetta singola, quelle delle insegne delle caffetterie, per includere battute di sottofondo che rallentassero il ritmo del lettore e il suo sguardo sulle cose, poi ho cercato di limitare il numero delle vignette per far concentrare i lettori su ogni elemento. Tutti questi sono stati delle specie di esperimenti per me, dato che questo è il mio primo libro e la curva di apprendimento è stata molto ripida.
Uno degli elementi più caratteristici delle tue illustrazioni e anche di questo fumetto sono gli occhi. Il loro stile è davvero ben definito: sono grandi, rotondi, hanno contorni molto marcati, come se i personaggi avessero le occhiaie e non dormissero da secoli…
Come me! (ride)
E come me!
Nel corso della mia carriera gli occhi dei miei personaggi sono diventati gradualmente sempre più grandi, alla fine andranno a occupare l’intero spazio della pagina! (ride) Ho iniziato con gli occhi a forma di puntino, come ho detto prima per via di Calvin e Hobbes, ma poi sono diventato ossessionato per trovare l’esatta espressione che volevo mostrare, e gli occhi più grandi permettono questo perché ritraggono perfettamente gli stati d’animo delle persone. Gli occhi giocano un ruolo importante in questo senso, e anche l’immagine del vortice che si vede a circa metà del libro assomiglia esattamente a quella di un occhio. Anche il colore appare per prima cosa negli occhi delle persone quando stabiliscono un legame vero, più profondo.
E questo introduce la mia prossima domanda: sei abituato a lavorare in bianco e nero, ma in questo libro hai anche usato il colore, che appare solo quando i personaggi trovano un legame reale e profondo. Come hai elaborato questa soluzione grafica per questa svolta narrativa?
Questo è stato il mio tentativo onesto e genuino di mostrare quanto siano diversi i due mondi, quello in cui non si dicono cose significative e quello in cui si ha una vera connessione. La verità è che non sono molto bravo con le parole, sono sempre stato molto più a mio agio nel descrivere emozioni complesse in modo visivo, con la mia arte, e quindi questa era la cosa più naturale per me.
Hai scritto una storia che parla della difficoltà di entrare in contatto con altre persone. Cosa hai imparato scrivendo questo libro?
Mi stai chiedendo se ho migliorato la mia capacità di entrare in contatto con gli altri? (Ride)
Beh, non solo questo, ma forse anche questo.
Beh, non ho imparato a farlo in ogni occasione, questo è certo. Ho ancora conversazioni che non vanno da nessuna parte, dico ancora cose che non intendo veramente. La cosa principale che il libro mi ha insegnato è di ascoltare davvero le persone. Uno dei risultati divertenti di questo libro è che le persone con cui non parlo da molto tempo, intendo dire da molti anni, ora si sentono come se potessero parlarmi in modo incredibilmente invadente, facendo domande incredibilmente personali, perché pensano che sia quello che voglio ora! (ride) Di sicuro sono diventato molto più aperto.
Pensi che storie come questa, ma anche le storie in generale, possano aiutare le persone a entrare in connessione reale non solo con l’autore, ma anche con altre persone?
Sì, questo è uno degli effetti collaterali più belli. A volte le persone mi inviano messaggi in cui descrivono come questo libro le abbia aiutate e descrivono anche come si immaginano le conversazioni/connessioni reali che stanno avendo con altre persone, utilizzando le stesse idee che ho creato. Questa è la cosa che preferisco di questo lavoro, questo rapporto con il pubblico.
Grazie mille Will per il tuo tempo e la tua gentilezza!
Will McPhail
Will McPhail vive a Edimburgo, in Scozia, ed è un collaboratore assiduo del New Yorker dal 2014. Per il giornale disegna vignette, sketch e pezzi comici. I suoi lavori sono stati pubblicati anche in Private Eye e sul New Statesman. Entra. (2021) è il suo primo graphic novel, che nel 2022 gli è valso il Betty Task Prize e una candidatura agli Eisner Awards.