Alessandro Q. Ferrari e Micol Beltramini – La Vita Inattesa

Alessandro Q. Ferrari e Micol Beltramini – La Vita Inattesa

A settembre Rizzoli Lizard ha pubblicato un volume che raccoglie dieci testimonianze del progetto “Viverla Tutta”: una campagna di comunicazione e impegno sociale promossa da Pfizer mirata a valorizzare la persona che c’è dietro ogni malato. Ne parliamo con gli autori.

A settembre Rizzoli Lizard ha pubblicato un volume che raccoglie dieci testimonianze del progetto “Viverla Tutta”: una campagna di comunicazione e impegno sociale promossa da Pfizer mirata a valorizzare la persona che c’è dietro ogni malato.

Inserendosi in un filone in cui il fumetto ha già dimostrato il proprio valore – e pensiamo a opere straniere come italiane, da David B. a Pietro Scarnera – le dieci storie che compongono le pagine di “La vita inattesa”, spiegano, ognuna in poche tavole, cosa voglia dire ricevere una diagnosi di Alzheimer, leucemia, tumore o altre malattie più rare e costituiscono un ennesimo, magnifico, esempio di Medicina narrativa. Se alla sceneggiatura, infatti, si alternano gli ottimi Micol Beltramini, Tito Faraci e Alessandro Ferrari, i disegni sono affidati ad alcuni dei maggiori nomi della nona arte contemporanea: Paolo Bacilieri, Thomas Campi, Massimo Carnevale, Marco Corona, Vincenzo Filosa, Giuseppe Palumbo, Tuono Pettinato, Nate Powell, Laura Scarpa e Silvia Ziche.
La prefazione al libro di Edoardo Rosati, spiega perfettamente l’intento: “(…) la malattia è una scossa sismica. E i terremoti generano storie”. Noi abbiamo approfondito il concetto insieme a due degli autori.


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Come vi siete divisi il lavoro fra sceneggiatori? Come avete scelto chi avrebbe affrontato un tema e chi un altro e, successivamente, i disegnatori?
Alessandro Ferrari
: Possiamo dire che questo è stato pienamente un lavoro di team. Come Hannibal dell’A-Team la redazione di Lizard Rizzoli ha messo insieme Tito Faraci, Micol Beltramini e, creando un super-gruppo di autori. Insieme a Francesca Martucci e Simone Romani abbiamo letto decine e decine e decine, di testimonianze. Erano davvero tante. Abbiamo selezionato quelle che più ci avevano colpito, quelle che erano più narrative oppure, semplicemente, quelle che aveva più senso adattare a fumetti. Non è scontato, infatti, che una testimonianza sia ugualmente potente in versione letteraria così come in versione fumettistica (o in versione cinematografica, per dire). È parte del mio lavoro adattare a fumetti storie nate in altri media– lo faccio con i film Disney e Disney•Pixar – e affronto questa sfida tutti i giorni. Ci sono cose, parole, storie, voci che non hanno senso a vignette, mentre altre si trasformano e fioriscono: maturano. Credo che sia stato il caso di queste dieci storie. Per quanto riguarda i disegnatori, poi, abbiamo applicato lo stesso principio. Abbiamo contattato gli autori che stimiamo di più, quelli più bravi, ma anche quelli più adatti alla storia che volevamo raccontare. Per esempio, abbiamo pensato subito che Nate Powell fosse perfetto per la storia di Dora e sua figlia. Il suo tratto, la sua capacità di rendere tutto umano, anche i mostri, erano quello che serviva.
Micol Beltramini: Abbiamo fatto delle riunioni preliminari in cui ognuno ha espresso le proprie preferenze in base agli spunti a disposizione; per ogni storia abbiamo stilato una lista dei disegnatori con cui ci sarebbe piaciuto lavorare, e poi abbiamo iniziato a contattarli. Siamo stati fortunati, quasi tutti ci hanno detto di sì.

In base a cosa avete deciso di raccontare proprio queste dieci esperienze?
MB: Erano le più interessanti dal punto di vista narrativo, nel senso che contenevano la scintilla giusta. A volte solo un’immagine, poche parole, come nel caso della storia di Tuono Pettinato. L’io narrante era padre di famiglia, andava a curarsi a Milano, e ai suoi figli raccontava che era costretto ad andarci per lavoro. Abbiamo lavorato sul punto di vista dei figli, immaginando che si fossero fatti la loro idea sul “mestiere” del padre. Ne è venuta fuori una storia tra le più adorabili, a mio parere.

Se il target non è definito, non sapendo a chi ci si rivolge, impostare un prodotto è ancora più complicato. Abbiamo avuto l’impressione che qui la lettura potesse avere diversi fruitori: adulti, ragazzi e – nell’ottica del progetto – medici e familiari. In che modo questo vi ha condizionato?
AF
: Avete ragione. Non c’è un vero target in questo caso, e le storie sono apparentemente indirizzate a lettori molto diversi. Ma allo stesso tempo c’è qualcosa che le lega tutte e credo che sia la realtà. Mi spiego. Si tratta di racconti che partono da esperienze reali, vissute davvero da queste persone – le persone dalla cui testimonianza siamo partiti. Se teniamo questo come centro del nostro lavoro, ed è quello che abbiamo cercato di fare, il resto viene da sé. Ogni ragazzo, adulto, medico o familiare ritrova un pezzo di sé in quelle pagine proprio perché sono vere. Che abbia vissuto un’esperienza simile oppure no, nessuno di noi è purtroppo ignaro di dolore e malattia. In un modo o nell’altro è questo che ci lega come esseri umani e come lettori de La Vita Inattesa.
MB: Non so per gli altri, ma per me non è stato un problema. Sarà che raramente mi interrogo sul target delle mie storie. Certo, abbiamo volontariamente evitato toni troppo truci o bukowskiani, ma credo l’avremmo fatto comunque. Era il tema a richiederlo, non il target.

Parlando di patologie – qualunque esse siano – la difficoltà è sempre cercare di non urtare la sensibilità altrui. Come siete riusciti a mantenere l’equilibrio tra la serietà degli argomenti e la volontà di non raccontarli in modo troppo drammatico?
AF
: È stato un timore che ci ha guidato a ogni tavola. Era la cosa su cui, personalmente, ho lavorato di più. Ma ogni volta che c’era il rischio di sbagliare e di dare alla “drammaturgia” troppa importanza è bastato tornare alle testimonianze originali. Leggerle e rileggerle, perché dentro quelle parole c’era già tutto ciò che ci serviva, sia in termini di messa in scena sia, soprattutto, in termini di rispetto. Sono state le persone che le hanno scritte a tracciare i limiti di quello che dovevamo fare. Una volta compreso questo è stato sufficiente restare nei confini.
MB: Oh, non è stato difficile. Né io né Ale né Tito abbiamo una particolare disposizione drammatica. Personalmente sono convinta che se non miri alla tragedia ottieni risultati molto più efficaci, anche qualora il tuo obiettivo sia raccontare una storia triste.
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Come siete riusciti a mediare tra uno spazio narrativo così breve e vicende emotivamente così intense?
AF
: La forma breve, diciamolo, non aiuta l’empatia. Quando si leggono i racconti o le storie a fumetti delle antologie, è davvero difficile perdersi in poche pagine perché appena si comincia a “sentire” si è già alla fine. Però è anche vero che con i fumetti – con i disegni cioè – e le vignette, può bastare una tavola a farti commuovere, ridere, emozionare. Lavorando per la Disney sono riuscito a volte a mettere più suggestione in una storiella da 4 tavole che in una da 20. Non è l’emozione che cambia è la complessità della storia e quindi della strada che si traccia per portare il lettore a provarla. Non dico che funzioni sempre, dico solo che è un modo diverso di provare emozione.
MB: Non sempre c’è bisogno di tante pagine per esprimere intensità. L’ importante è scegliere bene a cosa dare spazio. Però è vero che nella storia di Thomas Campi, ad esempio, un’altra pagina mi avrebbe fatto comodo. Ho fatto succedere tante cose, non mi sarebbero dispiaciute un paio di vignette in più per fermare un gesto, un’espressione.

Il fumetto può affrontare qualsiasi argomento. A ognuno, però, le sue difficoltà. In questo caso quali sono state le principali?
AF
: Tenere sempre presente che non era una nostra storia quella che stavamo raccontando. Rispettare i sentimenti di chi parlava anche se non erano i nostri. È una cosa che si affronta sempre quando si scrive, altrimenti tutti i personaggi sarebbero uguali, ma in questo caso non c’era un protagonista “facile” e umano che ci portasse dentro la storia. Non c’era il classico “Luke Skywalker” o chi per lui. Di nuovo, è stata soprattutto una questione di lavoro. Trovo che sia una parola troppo sottovalutata, lavoro: si parla sempre di arte quando si parla di storie, mentre secondo me si sottovaluta che l’arte è tale solo se dietro c’è il lavoro. È stato un lavoro intenso e difficile dare voce a questi personaggi perché non sono personaggi ma persone.tuonopettinato In un caso, per me, è stato un po’ più facile. Con la storia dei due bimbi disegnata da Tuono Pettinato. Lì abbiamo ribaltato il punto di vista, permettendoci di mostrare la storia in un modo imprevisto, forse più classico – anche se alla fine trovo sia la storia più sorprendente dal momento che ha sorpreso noi per primi.
MB: Direi proprio il fatto di non scadere nel patetico o nell’eccessivamente pesante. Scegliere bene cosa rappresentare e come. Ci ha aiutato molto anche la sensibilità dei disegnatori, spesso sono stati loro a suggerire piccole modifiche, o ad arrivare con il colore o con un’espressione a rendere una tavola perfetta.

Pensate che un linguaggio lieve come quello del fumetto possa aiutare a rendere più chiaro il racconto di esperienze così dolorose?
AF
: Non sono convinto che il fumetto sia un linguaggio lieve. È un linguaggio e come tale può essere lieve o intenso, serio o comico a seconda di come lo si usa. Credo che sia interessante però parlare di esperienze dolorose in modi inaspettati. Fare un’antologia a fumetti come questa è un modo inaspettato e lo sarebbe anche fare una serie a cartoni animati, per dire o, perché no, una serie di libri per ragazzi.
MB: Non saprei se più chiaro né più lieve, ma a volte non c’è modo migliore. Prendi la storia di Nate, Per ogni mostro che crea: le quattro ombre mostro. Né la letteratura né il cinema avrebbero potuto rappresentarle tanto perfettamente. Il fumetto è perfetto veicolo di metafora visiva.

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Veniamo al messaggio che i lettori possono trarre da questo lavoro: alcune delle vicende possono intendersi come exempla di vita universali su come affrontare la malattia, altre sono “solo” storie. Qual era l’obiettivo?
AF
: Semplicemente raccontare. Non c’era un obiettivo preciso, non c’è stata una volontà. Io credo che sia sufficiente raccontare perché qualcosa diventi universale. Ovviamente raccontare buone storie e bene, ma è tutto lì in fondo. Una storia che sia una storia è già un messaggio se a farla sono persone che la rispettano e rispettano il cuore e la mente di chi leggerà.
MB: Avvicinare le persone a un tema così delicato approcciandolo da più punti di vista e da più modalità espressive, facendole sorridere, pensare e a volte commuovere, secondo il dorato principio che a volte, finché un’esperienza non ti viene raccontata, non ti arriva.

Grazie per aver risposto alle domande de Lo Spazio Bianco.

Intervista rilasciata via mail, ottobre 2014.

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