
Topolino #3387: L’isola dei misteri
Con questo numero arriva a conclusione L’isola dei misteri, parodia dell’Isola misteriosa di Jules Verne non ché seguito delle 19999 leghe sotto i mari. Ancora una volta a realizzare la storia, sviluppatasi su tre puntate, troviamo Francesco Artibani e Lorenzo Pastrovichio che, rispetto alla precedente, introduce molte più variazioni rispetto al romanzo di Verne.
Nel segno di Verne
I due romanzi originali di Verne, 20000 leghe sotto i mari e L’isola misteriosa, facevano parte di una trilogia iniziata con I figli del capitano Grant. La storia di Artibani e Pastrovicchio, essendo iniziata con la parodia del secondo romanzo, non presenta alcun riferimento riconducibile a storie non narrate, ma come i riferimenti al primo romanzo non inficiano la lettura del terzo, così la loro assenza non risulta così fondamentale per apprezzare la storia, anche perché gli ementei dell’immaginario verniano vengono mantenuti tutti.
Pippo Nemo, infatti, è un inventore brillante che, oltre all’ideazione e costruzione del Nautilus, ha costruito un intero laboratorio all’avanguardia (per i tempi) sotto la sua isola, inclusa una macchina per modificare il tempo atmosferico.
Artibani, ad ogni modo, riesce a districarsi e bilanciare molto bene gli elementi provenienti dal romanzo con le aggiunte e le modifiche alla storia originale, che iniziano sin dal primo capitolo. A naufragare sull’isola a bordo di una mongolfiera non sono cinque prigionieri che fuggono dalla guerra di secessione americana, ma due impavide donzelle in compagnia del loro cane, Pluto: Minerva Smith, che prende il posto dell’ingegnere Cyrus Smith, mantenendone anche gli interessi scientifici, e Daisy Duckett, che sostituisce il giornalista Gedeon Spilett, e anche in questo caso Daisy/Paperina mantiene il mestiere di Spillett.
Altra modifica importante, ma essenziale vista l’assenza dei già citati riferimenti a I figli del capitano Grant, è l’arrivo di Pippo Nemo nella storia: già alla fine del primo capitolo il personaggio viene citato dai suoi due collaboratori, de Topolin e O’Quack, per poi fare il suo ingresso trionfale nel secondo capitolo.
La storia di Artibani e Pastrovicchio procede più rapidamente rispetto al romanzo: ne L’isola misteriosa, infatti, Nemo viene scoperto solo dopo la sconfitta dei pirati che attaccano l’isola dei “coloni”, rivelandosi vero e proprio deus ex machina del romanzo, mentre per L’isola del mistero i pirati, le vecchie conoscenze Faraboot e Ned Gamb, attaccano l’isola proprio perché è l’isola di Nemo.
Infine nel terzo capitolo, in cui il gruppo di Pippo Nemo cerca di riprendersi il suo laboratorio conquistato da Faraboot e Gamb alla fine del capitolo precedente, la distruzione dell’isola non avviene perché il vulcano al centro si è risvegliato, ma a causa dell’esplosione del macchinario temporale di Nemo, mandato in tilt proprio dai due farabutti, evidente messaggio su come la scienza e la tecnologia possano ottenere risultati differenti in funzione delle motivazioni di chi ne usa gli avanzamenti.
Il cambiamento più importante, però, sta nel finale: non solo Pippo Nemo non muore come il suo equivalente verniano (cosa abbastanza scontata, ad ogni modo), ma il Nautilus non si perde nei fondali oceanici come l’originale e anzi acquisisce nuovi elementi per il suo equipaggio in un finale che sembrerebbe suggerire una non ancora confermata terza storia nella saga di Pippo Nemo.
Il controllo del clima
Il terzo capitolo, Il padrone del tempo, si concentra, sebbene risulti solo un elemento funzionale alla stoia, sul concetto del controllo del clima, che in effetti è la basse dell’ingegneria climatica, o geoingegneria. Questa è la disciplina che si occupa di studiare e sviluppare le tecnologie utili per modificare il clima della Terra possibilmente invertendo il riscaldamento globale di origine antropica che il nostro pianeta ha sperimentato nel corso dell’ultimo mezzo secolo.
Il dibattito sul cambiamento climatico, che è oggi prettamente politico, è di lunga data e ha origine dalla pubblicazione del famoso grafico mazza di hockey nell’articolo di Michael Mann, Raymond Bradley e Malcolm Hughes Northern hemisphere temperatures during the past millennium: Inferences, uncertainties, and limitations(1).

Il grafico, negli anni, è statto variamente contestato da alcuni climatologi, che in particolare affermavano che il periodo di caldo durante il medio evo fosse comparabile come temperature con l’innalzamento delle temperature mostrato nella parte finale del grafico di Mann, Bradley e Hughes.
Il grafico e i suoi risultati, però, vennero convalidati da una serie di studi indipendenti realizzati tra il 2003 e il 2006.
Un’ottima sintesi di questi lavori la si trova nel grafico del fisico Robert Rohde, pubblicato nel 2005, dove ben si vede non solo il picco del caldo medioevale e come questo sia effettivamente confrontabile con il periodo di metà ventesimo secolo, ma anche come dal 1990 in poi si stia sperimentando un’impennata nella temperatura media globale che supera di gran lunga il periodo storico usato dai negazionisti per esentare l’intervento umano da qualunque responsabilità sulla situazione attuale:

Per vedere bene quanto l’intervento umano sia importante nel cambiamento climatico dell’ultimo mezzo secolo, basta confrontare l’aumento di temperatura con l’attività solare:

In questo caso si nota un picco intorno al 1940 e, a partire dal 1960, quando l’attività solare è già in diminuzione, osserviamo un aumento delle temperature sempre più pronunciato.
E’ interessante osservare come sia il picco del 1940 sia l’aumento della temperatura a partire dal 1960 trovano corrispondenza con l’aumento delle attività umane rilevato da Philippede de Larminat(2):

La trascurabile incidenza del Sole sul clima attuale del nostro pianeta rende inutile una delle proposte di geoingegneria valutate, la riduzione della radiazione solare, mentre diventa sempre più urgente riuscire non solo a limitare le emissioni di anidride carbonica, ma anche a catturarla, ovvero ad abbassare la concentrazione di questo gas serra nella nostra atmosfera.
L’importanza di catturare l’anidride carbonica è ribadita da una serie di studi di David Archer, in cui si rivela come l’anidride carbonica fossile abbia impiegato un tempo di circa 40000 anni o poco meno per venire assorbita da un livello del 60% a un livello del 10%. In particolare, però, si osserva come l’anidride carbonica resti anche abbondantemente sopra il 10% per diverse migliaia di anni:

Sarebbe fantastico avere un dispositivo come quello di Pippo Nemo per poter controllare il tempo, ma al momento la nostra priorità è quella di riportare l’anidride carbonica a livelli accettabili per impedire al nostro pianeta di diventare sempre più invivibile per noi è la maggior parte degli esseri viventi della Terra.
La recensione del numero in edicola verrà pubblicata a breve su DropSea
- Mann, Michael E.; Bradley, Raymond S.; Hughes, Malcolm K. (1999), Northern hemisphere temperatures during the past millennium: Inferences, uncertainties, and limitations, Geophysical Research Letters, 26 (6). doi:10.1029/1999GL900070 ↩
- de Larminat, P. (2016). Earth climate identification vs. anthropic global warming attribution. Annual Reviews in control, 42, 114-125. doi:10.1016/j.arcontrol.2016.09.018 ↩