Il primo numero di Orme del 2005 chiarisce l’intento della rivista di perseguire la “linea latina” tanto amata da Del Buono, presentando autori spagnoli, portoghesi, italiani, sudamericani, attraverso racconti brevi tra il noir, il minimalista, il surreale e probabilmente aperti a qualunque genere narrativo, disegnati con personalità, piuttosto eterogenei tra loro e speriamo non troppo anticommerciali. Orme raccoglie il testimone, caduto a terra e perso ormai nell’erba, delle rimpiante riviste contenitore degli anni ’80, da tempo rifugiatesi in libreria e così snaturate della loro essenza popolare. Differentemente da esse, pero’, questa nuova proposta mette da parte l’avventura per adeguarsi alla sensibilità dei lettori contemporanei e alla maturazione linguistica e contenutistica del medium.
Si inizia con un racconto surreale di Mattotti e Kramsky, collaboratori di lungo corso i cui nomi sono garanzia di qualità. Non amo particolarmente il genere, dunque non sono forse pienamente adatto a giudicarlo, ma pur riconoscendo agli autori visionarietà ed acutezza , sono rimasto perplesso. Il tratto e la narrazione ricordano molto il sempre Mattottiano Signor Spartaco, ma sono più difficilmente digeribili, e di difficile interpretazione.
Si prosegue con le storielle di Zozimo Barbosa, piuttosto godibili, delle quali la più riuscita è pero’ certamente la prima. Sono ben disegnate da Machado e Borges, con uno stile cartoonesco e pulito, impreziosito dalle campiture di grigio, che donano una certa eleganza e ricostruiscono un’atmosfera da vecchi film in bianco e nero: in effetti le storie, imbastite dallo sceneggiatore e creatore Wander Antunes, sono ambientate nella Rio de Janeiro degli anni ’50. Zozimo è un detective cinico, una vera canaglia, l’anti-James Bond per eccellenza: le sue trame sono classicamente noir, e le sceneggiature piuttosto verbose ma coinvolgenti ed ordinate.
Quindi ci troviamo davanti le splendide tavole di Miguel Rocha (anche autore della coloratissima copertina), vero punto di forza di questo numero. Rocha è un illustratore di altissimo livello: il suo stile unico, personalissimo si auto esalta nella grande intuitività delle scelte cromatiche, capaci di costruire atmosfere diverse ma sempre avvolgenti; sembra di sentire il calore dei campi, il silenzio innaturale e colpevole della notte, l’austera semplicità della camera della maliziosa sorella di Manuel. Eppure le sue tavole non sono realistiche, ma edificano davanti ai nostri occhi un mondo magico, brillante e distante, che riluce della luminosità ulteriore, ingenua e spensierata, proiettata dagli occhi degli adolescenti che lo osservano. Forse l’autore mitizza un mondo ed un’età: non ci fa mai percepire la povertà e il degrado che potremmo immaginare propri del rurale paesino portoghese dov’é ambientato il racconto. Al contrario, la sua pulizia e limpidezza sono forzate, innaturali, eccessive. Ogni esperienza è pervasa di appagato stupore, e noi ne siamo parte.
Ma Rocha non è solo un ottimo illustratore: delinea infatti un riuscito spaccato di vita adolescenziale, in cui la raffigurazione del paesino e dei suoi abitanti fa da sfondo (appena accennato, ma con sapienza) alle esperienze formative dei tre protagonisti. Essi sperimentano indirettamente fonti di turbamento come il sesso e la morte, inserite nel quadro della più ampia descrizione di un’adolescenza che si trova a saggiare la vita, forse con inconsapevolezza, spinta da pulsioni interiori, ma con naturalezza, genuinità, senza complessi, con prontezza nell’accettare tutto, al di fuori delle macchinose nevrosi del moderno cittadino, urbanizzato in sé e snaturato di sé. Il richiamo più evidente va al Palomar di Gilbert Hernandez ed al film Stand by me, tratto da un riuscitissimo racconto di Stephen King, per i contenuti ed il clima generale della narrazione, ma si sposta a un ritmo narrativo di stampo eisneriano: Rocha è sintetico, essenziale, e cattura con due pennellate una situazione, descrive con due frasi un personaggio. Non è certo inopportuno scomodare pietre di paragone di tale portata, piuttosto è dovuto, anche se Rocha è narrativamente ancora piuttosto grezzo: bisogna pero’ tener presente che quando ha pubblicato questo racconto aveva soli 30 anni, e dunque ha avuto ed avrà molto tempo per maturare. Sulla riva è, in conclusione, una piccola perla narrativa, al cui autore speriamo sia accordato un certo spazio all’interno del programma di pubblicazioni della rivista.
Finalmente è la volta di Maurizio Ribichini, uno dei migliori autori della scena Italiana contemporanea, che ci racconta ancora una volta di situazioni minime e di persone qualunque, ambientando il racconto nei bassifondi romani, tra illegalità e scazzi familiari. L’autore dimostra ancora la versatilità del suo tratto e del suo ritmo, adattandoli alla circostanza non eccezionale, eppur osservata con sensibilità e rinarrata con stimolante angolazione interpretativa, che ha scelto di descriverci. Non anticipiamo nulla, ma l’utilizzo della foto di padre Pio è una chicca, divertente e contenente uno spunto di riflessione (pur non sviluppato dall’autore): la profanazione quotidiana ed inconsapevole del sacro operata attraverso l’ingenuità del culto popolare, che è l’altra faccia della medaglia della sacralizzazione di ogni aspetto della vita quotidiana dovuto ad una fede sentita e spontanea, seppur ingenua e lontana da astrazioni; una fede tanto legata alle cose ed alla vita da divenirne parte indifferenziata. Ribichini è così: un accenno, un’immagine, una parola bastano per suggerire emozioni, domande, riflessioni. Bisogna poi spendere una buona parola per lo storytelling piacevolmente Prattiano delle pagine 2 e 3.
Quindi tocca a Keko, con il non pienamente riuscito ma apprezzabile DOC, troppo breve per coinvolgere il lettore: sempre sordido, visionario, inquietante, ma dalla pretenziosità eccessiva (la critica sociale millantata dall’autore è proprio abbozzata, e completamente implicita). Le sue potenzialità sono pero’ enormi, e forse è questa consapevolezza che ha acuito la parziale delusione. I racconti del collettivo El Cubri, attivo politicamente anche in ambiti narrativi extrafumettistici, sono interessanti spaccati di vite tragiche, sconfitte, rassegnate perché consapevoli, venate di un’accettazione amara, così tipicamente noir, che in 4 intense pagine sintetizzano una vita, arricchendola di particolari credibili e di un passato solo alluso. Il segno è personale ed efficace, denso, spesso, oscuro eppure non risulta sporco, anzi è anche un poco freddo e spigoloso: richiama lontanamente alla mente le xilografie, poiché suscita come esse una reazione di partecipato distacco. Ricorda forse a sprazzi i nostri Salvo D’Agostino e il Palumbo più personale (quello pubblicato da Mondo Naif, ad esempio); è oscuro ed avvolgente come Munoz, ma non tanto caldo, né altrettanto espressivo.
La scaletta dei racconti di questo numero si chiude esattamente come accadeva nel primo, con un nonsense di 8 pagine, fondato più che altro sulla perizia grafica dell’autore, Pedro Burgos, addensato di un simbolismo vago, in un esercizio che si sarebbe potuto svolgere meglio, ma che offre pero’ un paio di interessanti soluzioni grafiche (la cravatta/strada, il volante/balloon): buono da sfogliare, ma forse è meglio non perdere tempo a cercare di interpretarlo.
Il diario del Gaijin, saltando dal fumetto alla prosa illustrata, inanella una serie di intuizioni sulla modernità ben illustrate da Catacchio e raccontate da Giancarlo Bernardi con stile paratattico, spezzato, disorientante, come è disorientato il protagonista rispetto al mondo che gli vortica attorno. Per quanto riguarda le rubriche, Ascari scrive una recensione a numero, o tratta di un argomento riferendosi a diverse opere; Bernardi scrive di libri, fumetti, film, analizzando attraverso essi diverse tematiche; Fornaroli scrive degli articoli di approfondimento critico di più ampio respiro. L’impressione è che a ciascuno di essi sia stata concessa grande libertà, e questo, sommato alle singole competenze, garantisce la validità degli articoli, certo motivo di lustro ed interesse per la rivista (anche se il pessimismo storico radicale di Bernardi mi indispone tetramente). La grafica della rivista è spartana, con una sua eleganza rude, piuttosto rigorosa, ma tutto sommato povera. La carta di cui è composta è bianchissima, ma forse troppo sottile (vi si vede attraverso). La rilegatura è invece solida, davvero ottima.
Il ruolo delle illustrazioni (in questo numero due bei disegni di Giacon e Sorrentino) è invece incomprensibile: sembrano più che altro un riempitivo, buttate lì a coprire due buchi al posto delle pubblicità: iniziativa già di per sé lodevole, certo, ma un minimo di commento, o di coerenza nella proposizione (si potrebbero presentare nello stesso numero illustrazioni che trattano lo stesso tema), migliorerebbe ulteriormente un prodotto già di per sé imperdibile, sia perché un unicum nell’editoria nostrana, sia perché, semplicemente, le storie sono belle e rare, e gli articoli interessanti.