Le Storie: intervista a Paola Barbato

Le Storie: intervista a Paola Barbato

Mentre si avvicina l'uscita del secondo albo della nuova collana Bonelli dedicata a racconti a fumetti autoconclusivi, torniamo a parlare del numero d'esordio con la scrittrice della storia, Paola Barbato.

Classe 1971, milanese di nascita, bresciana d’adozione, prestata a Verona dove vive con il compagno, due figlie e due cani. Scrittrice e sceneggiatrice di fumetti, l’esordio è nel 1999 sulla serie “Dylan Dog” della Sergio Bonelli Editore. Ha pubblicato tre romanzi thriller per la Rizzoli, “Bilico” (2006), “Mani nude” (2008, vincitore del Premio  Scerbanenco di quell’anno), “Il filo rosso” (2010), il quarto uscirà nel 2013. Nel 2008 è uscito, sempre per la Sergio Bonelli Editore, nella  collana Romanzi a fumetti Bonelli, “Sighma”, disegnato da Stefano  Casini. Ha co-sceneggiato per la Filmmaster la fiction “Nel nome del  male” con Fabrizio Bentivoglio per la regia di Alex Infascelli,  trasmessa da Sky nel 2009. Nel 2011 decide di tentare un esperimento di fumetto sul web, spinta  dalla curiosità di scoprire se una storia “romantica” in stile shojomanga ma ambientata in Italia potesse interessare il pubblico (cosa esclusa a priori dalle case editrici). Il 7 novembre è uscita la prima puntata  di questa serie dal titolo “DAVVERO”. Nel terzo mese di pubblicazione bisettimanale questa raggiunge 10.000 visitatori unici mensili. Nell’edizione 2012 di Lucca Comics and Games viene presentato il primo numero del mensile Davvero pubblicato da Star Comics.

Essere apripista di una nuova collana, peraltro importante come questa, è anche una responsabilità non da poco. Sapevi fin dall’inizio che la tua sarebbe stata la prima uscita? Come hai affrontato la cosa?
No, non sapevo che questa storia sarebbe stata scelta come prima, quindi l’ho scritta con assoluta serenità e molto divertimento, amo le novità.

Le indicazioni a livello editoriale sono state diverse rispetto allo scrivere per Dylan Dog?
In realtà no, scrivere Dylan Dog comporta una serie di regole da osservare (coerenza con la serie, coerenza del personaggio, attenzione a non scrivere storie già proposte e a non ripetere tematiche abusate ecc.), “Le Storie” sono partite dando all’autore moltissima libertà a diversi livelli, fermo restando che essendo un prodotto della Sergio Bonelli Editore andavano rispettate la gabbia e le caratteristiche dei fumetti della casa editrice.

In una serie come “Le storie”, qual è l’equilibrio tra avventura in pieno stile Bonelli e un approccio diverso, diciamo più aperto alla narrazione? (nella presentazione si sottolinea l’approccio di Avventura classica, ma la tua storia è piuttosto lontana da ciò).
Io ho scritto sei “Storie” tutte e sei molto diverse per temi, genere e approccio alla narrazione. Non c’è un vincolo stretto al tema dell’avventura, l’importante è avere qualcosa da raccontare e raccontarlo al meglio delle proprie possibilità.

Come si connota, oggi, a tuo parere, la dimensione avventurosa in casa Bonelli, e nello specifico nella serie “Le storie”?
Devo ripetermi: dal mio punto di vista non ho avuto l’impressione di raccontare qualcosa di maggiormente avventuroso rispetto ad altre storie scritte sempre per la Bonelli. Credo che l’avventura intesa come “esperienza” si sia aperta a 360°, a volte un’avventura può essere una cosa molto piccola che ti cambia radicalmente la vita.

Il rapporto tra morte e amore è uno dei tuoi temi ricorrenti. Qui è centrale, ma lo è anche in molte storie di Dyd che hai scritto. Lo vedi come un efficace “motore narrativo”? O è qualcosa di più? Perché ti è così “caro”? Com’è stato approcciarsi a questo tema in una chiave aperta come questa? La storia è nata per questo progetto o era un soggetto che avevi già abbozzato per altre serie?
Non so ammiccare, è un mio difetto, quindi è improbabile che scelga di raccontare qualcosa perché penso che “funzioni”. Il rapporto tra amore e morte (morte dell’amore, amore per la morte ecc.) è molto profondo e interessante, ha mille sfaccettature. In realtà noi viviamo perennemente con la morte accanto, nasciamo condannati a morte, è inevitabile un confronto con essa. Questa storia, che è nata appositamente per la nuova serie, mi ha consentito di valutarne un aspetto che ho sempre trovato affascinante: la morte come “dono”. Gli esecutori (quindi non gli assassini o i cosiddetti “angeli della morte”) convivono con questo mestiere anche oggi in diverse parti del mondo, e sono una nettissima minoranza. Il loro punto di vista (che ovviamente posso solo immaginare) è affascinante.

Casertano come disegnatore della tua sceneggiatura è stata una tua scelta, oppure è stata una scelta di natura editoriale? Hai adattato la storia al suo segno in qualche aspetto?
La storia è stata assegnata da Mauro Marcheselli a Giampiero in corso d’opera, quasi alla fine, se non ricordo male. Leggendola, Mauro si è reso conto che era un genere che Giampo ama molto (lui ha una passione per le storie in costume) e che le atmosfere potevano essergli congeniali, così gliel’ha proposta e lui ha accettato.

Cosa pensi del suo lavoro? Qual è la sua caratteristica più efficace per la storia che hai voluto raccontare?
Era importante la caratterizzazione di Sanson, di cui non esistono ritratti ufficiali attendibili, dal punto di vista della corporatura. Fino a un paio d’anni prima le esecuzioni avvenivano con la spada, spesso con un colpo solo. Non era immaginabile che fosse un uomo mingherlino. Tuttavia era un uomo composto e dignitoso, lontanissimo dall’immagine del boia “bestione” incappucciato. Volevo che fosse di aspetto piacevole pur mantenendo le caratteristiche fisiche necessarie, e Giampo ha fatto un ottimo lavoro.

Si crea una certa empatia con Sanson per il suo apparire più umano, almeno nel momento finale della vita delle sue vittime, rispetto ai rivoluzionari. Eppure parliamo di un uomo che collezionava teste impagliate! Volevi trasmettere una certa ambiguità nel personaggio?
È un fatto storico che Sanson si occupasse personalmente della preparazione dei condannati, che trascorresse la notte con loro a pregare e che bisbigliasse loro qualcosa nell’orecchio prima dell’esecuzione. Ci sono molti documenti che riportano questi fatti, come ce ne sono altri che attestano la fine poco dignitosa che facevano i corpi. La “conservazione” delle teste è ovviamente una mia invenzione, ma era una forma di pìetas che si adattava al carattere del protagonista, una forma di rispetto estremo per chi, altrimenti, non sarebbe stato rispettato. Non si tratta di ambiguità ma di coerenza del personaggio.

Il protagonista è un personaggio dalla psicologia complessa. Sembra quasi che la tua sfida di scrittura sia stata cercare di “metterti nei suoi panni”, provare a immaginare come ci si può sentire a dare la morte agli altri, mantenendo una propria integrità morale. E’ così?
Certamente.

Tra le vignette sembra tu faccia intuire che, oltre agli antagonisti “formali” che Sanson si trova di fronte, il nemico profondo dell’integrità morale del protagonista sia la pubblica opinione, “la folla” che ora teme, ora osanna il lavoro del boia. Quasi una metafora di certe dinamiche contemporanee dei media, pronti sempre a dividersi tra colpevolisti e innocentisti… E’ una lettura troppo “politica”?
Se mai è una lettura “sociale”. Mi sembra ovvio che il boia non potesse essere amato, fintanto che era al servizio del re e tutte le esecuzioni riguardavano gente di origini modeste. La gente lo temeva a ragione. Quando è stato indicato come Boia del Popolo la sua posizione è cambiata, almeno all’inizio, perché il popolo vedeva “finalmente” giustiziati quei nobili che fino a poco tempo prima li avevano condotti alla fame. Se vogliamo trovare analogie con il presente mi viene spontaneo pensare a quei soldati o poliziotti che si schierano al fianco dei dimostranti, fino a un istante prima nemici e un attimo dopo difensori. Storicamente non è inusuale che accada.

Puoi spiegare le figura della donna con cui il boia intreccia una sorta di relazione basata sulla fascinazione per la morte? È solo uno strumento per far avanzare la trama, o vuole esser simbolo di qualcosa di più?
Ma no, niente simbologie. Il personaggio era un uomo solo, inevitabilmente solo in ogni frangente, perché è difficile comprendere e condividere un simile rapporto con la morte. Ho cercato di immaginare una forma di comprensione che si potesse basare sullo stesso rapporto. La morbosità nell’avvicinarsi alla morte è una sciocca paranoia dei tempi moderni; la morte veniva vissuta in maniera molto più spontanea e naturale in tempi passati e anche oggi in culture diverse dalla nostra la morte viene vista solo come un aspetto della vita.

I personaggi appaiono quasi tutti caratterizzati da un aspetto lontano da stereotipi di bellezza. È stata una scelta dovuta per esaltare il tratto di Casertano o una tua indicazione?
Non credo che manchino persone di aspetto piacevole. Di certo io non credo nella bellezza assoluta (la stessa Maria Antonietta non era affatto bellissima), preferisco una caratterizzazione più vicina alla realtà.

Le critiche maggiori alla storia vertono sul trattamento affrettato e semplicistico della Rivoluzione Francese, arrivando quasi a parlare di aver usato un punto di vista reazionario. Come rispondi a queste osservazioni?
Non ho scritto un saggio sulla Rivoluzione Francese, ho scelto un narratore intradiegetico (che viveva all’interno della storia ma non ne era protagonista) che ha avuto contatti CERTI con tutti i protagonisti della storia e ho raccontato il suo -ipotetico- punto di vista. Chi vuol vedere dell’altro ha tempo da perdere.

Hai scelto una ambientazione storica precisa e di cui si è scritto e si sa tantissimo. È stato per te solo un riferimento più o meno vago per raccontare la “tua” storia? Ovvero avresti potuto scegliere altri contesti storici ma la “tua” storia sarebbe stata sempre la stessa, noncurante di eventuali dissonanze storiche?
Conosco bene la Rivoluzione Francese, e non l’ho studiata solo sui libri di scuola delle medie ma su testi storici francesi. È un periodo estremamente complesso e affascinante che ancora oggi, al di là dei fatti oggettivi, si presta a interpretazioni. Tra l’altro è drammaticamente basso il numero di scritti dell’epoca che possano essere riferiti all’opinione pubblica, spesso analfabeta, la cui voce veniva espressa -non si sa quanto fedelmente- da vignette satiriche e filastrocche. Esiste quindi una gran quantità di materiale dell’epoca riconducibile solo a persone acculturate. Io ho scelto il personaggio, di cui sapevo già molto, ovviamente non era possibile svincolarlo dal contesto. Resta una storia inventata in gran parte, come ho già detto non ho scritto un saggio storico.

Con la partenza di Davvero, dobbiamo aspettarci una tua minore presenza in Bonelli nei prossimi tempi? Quali sono i tuoi prossimi fumetti che vedremo per l’editore di Via Buonarroti, tra Dylan Dog e altro? Hai in serbo altre sceneggiature per questa collana? Puoi darci qualche anticipazione su temi e disegnatori?
Lavorare a “Davvero” ha occupato una bella fetta del mio tempo ma non mi ha impedito di scrivere altre cose, tra cui sei “Storie”. I generi sono il noir, l’horror, ho scelto temi a me congeniali a cui stanno lavorando diversi disegnatori, tra cui Daniele Caluri, Gianni Freghieri e Nicola Mari.

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