Coma Empirico, al secolo Gabriele Villani, nasce a Taranto nel 1990. Illustratore, disegnatore, appassionato di fumetti e, da sempre, interessato a spaziare nell’arte, dai dipinti, alla musica, alle video produzioni, studia al Liceo Artistico e poi si trasferisce per cinque anni nella capitale per frequentare il DAMS presso l’Università di Roma 3. Tornato a Taranto, nell’Agosto del 2016 apre la sua pagina Facebook che si diffonde rapidamente grazie al passaparola di un pubblico variegato, che si riconosce nelle sue storie brevi (suoi sia i testi che i disegni) e nei dilemmi esistenziali del suo personaggio, trattati in una chiave ironico-malinconica. Al momento in cui scriviamo la pagina ha superato i 150.000 iscritti.
Ciao Gabriele e benvenuto su Lo Spazio Bianco. Per iniziare, vuoi raccontarmi come nasce la tua passione per il disegno?
Nasce già ai tempi della scuola, ho frequentato il Liceo Artistico e in generale mi sono sempre interessato all’arte in varie forme, tra pittura, musica e, appunto, il disegno. Principalmente, al di là dell’imparare la tecnica, sentivo il bisogno di esprimere qualcosa. Infatti i miei lavori non sono incentrati principalmente sulla rifinitura, ma sul messaggio che mi interessa trasmettere.
Gli studi fatti a scuola hanno corrisposto alle tue richieste, ti hanno incoraggiato a esprimere ciò che volevi?
Sì, abbastanza, ma ai tempi della scuola le idee sono ancora poco chiare, è un momento in cui si procede un po’ a caso, tentando diverse strade. Capire qual è quella giusta comporta fatica e soprattutto dedizione: alla fine quella che ti appassiona davvero è probabilmente la direzione che ti permetterà di fare qualcosa di più “serio”.
E quando hai capito che saresti diventato Coma Empirico?
In realtà non c’è mai stato un momento così chiaro: ho creato la pagina Facebook usando questo pseudonimo, sempre per il bisogno di esprimere ciò che avevo dentro. Quando ho visto che i miei disegni piacevano e i numeri della pagina aumentavano, ho capito che era una strada da percorrere e non lasciare. Adesso è un anno che questa esperienza va avanti e si continua a crescere.
Raccontami com’è progredito il successo della pagina, da un inizio in cui, appunto, rappresentava soltanto un tentativo, quasi un gioco, fino ai riscontri più interessanti.
L’interesse è andato gradualmente aumentando e fino adesso non si è mai arrestato, la crescita è stata continua. Naturalmente dipende dal lavoro che fai e da quanto viene condiviso, una dinamica che ormai sostituisce la classica gavetta: oggi il web dà la possibilità di esporsi e ricevere riscontri in tempo reale, capisci cosa funziona e cosa no, ed è un percorso realmente formativo. Quindi non sei un editore, ma pubblichi e la sfida sta nel coinvolgere più persone possibile in quello che fai. Naturalmente non si tratta di trasformare il proprio lavoro, ma di capire quale parte dello stesso il pubblico apprezza di più.
In questo senso, in effetti, non c’è il rischio di cadere nella malizia di voler “inseguire” i gusti del pubblico?
C’è sicuramente un’influenza, penso sia sacrosanta, ma non deve portare a modificare lo stile o il modo di pensare i propri racconti per inseguire i gusti altrui. È un problema di comunicazione, che ruota attorno al come fare a trasmettere il proprio messaggio agli altri. Questo ti insegna la gavetta del web.
La pubblicazione sul web influisce anche sul ritmo di pubblicazione? Ti dai cioè delle scadenze precise?
All’inizio sì, perché avevo bisogno di crescere e mi davo dei tempi. Ora cerco di fare le cose al meglio e più che sulla quantità penso maggiormente a curare la qualità.
Come nasce una delle tue storie?
Sono pensieri che non vado a cercare, ma derivano da esperienze sempre personali e che mi insegnano ogni volta qualcosa. Poi li elaboro per renderli più universali, in modo da coinvolgere un pubblico che vi si riconosca. Credo che quello che ci colpisce sia sempre diverso, ma la nostra reazione di fronte ai problemi è sempre la stessa e questo ci dovrebbe accomunare e far sentire meno soli.
Quanto tempo ti porta via la realizzazione di una storia?
Varia a seconda dei casi: i disegni sono abbastanza semplici e il personaggio ormai lo conosco, fra l’altro mi somiglia anche visivamente (sono praticamente io, ma con le basette invece della barba). A occupare la maggior parte del tempo è l’elaborazione del pensiero che c’è dietro.
Artisticamente quali sono le tue influenze?
Sono molte, le mie passioni spaziano dai fumetti al cinema e alla musica, quindi è difficile fare un elenco. Direi che non c’è un riferimento specifico, ma un insieme di sensazioni che filtro dal contatto con l’arte.
È interessante il fatto che citi anche la musica: le tue storie trasmettono in effetti una particolare sensazione di musicalità, che non saprei definire in maniera specifica, ma che mi è stata chiara fin dall’inizio.
Spesso per realizzare le tavole uso una musica in sottofondo, trovo sia fondamentale per assecondare il pensiero. Anche in questo caso però non ti posso citare brani specifici perché cambio sempre e ho dei gusti molto vari. Poi suono anche la chitarra e il pianoforte, spesso proprio mentre elaboro i pensieri che voglio portare su carta. Quindi sicuramente c’è una stretta sinergia fra queste espressioni, e per questo magari il lettore le ritrova poi sulla carta, come mi dici.
La malinconia che traspare dalle tue storie diventa quasi una chiave per interpretare questa generazione e questo momento storico, sei d’accordo?
Più che la malinconia è la sofferenza a costituire l’elemento attorno al quale l’umanità si ritrova: la sofferenza in realtà può unire, non perché la felicità non lo faccia, ma quando si soffre si cerca maggiormente la vicinanza dell’altro. Naturalmente non mi riferisco a patologie come la depressione, ma al sentirsi in difficoltà.
Un concetto decisamente originale, perché solitamente siamo abituati a pensare alla sofferenza come a qualcosa che spinge a voler stare da soli, mi sembra che invece tu voglia rovesciare del tutto questo assunto.
È vero, ma il voler stare da soli nasce dalla convinzione che nessuno possa capire la sofferenza che si sta provando. Capire che il dolore è condiviso e che soffriamo per le stesse problematiche contribuisce però a sentirsi meno soli. Secondo me è un aspetto importante.
Come vedi il futuro di Coma Empirico? Ci sarà un approdo al cartaceo?
Mi piacerebbe, magari iniziando con una raccolta delle tavole già pubblicate sul web per poi “pensare in grande” e arrivare a una graphic novel. Ci sono già stati interessamenti da alcuni editori, ma è prematuro parlarne, al momento sto ancora valutando le proposte.
A questo proposito, chi è il tuo lettore tipo?
Ho una fetta di lettori abbastanza ampia, che non si identifica in una fascia precisa – approssimativamente possiamo dire dai 16 ai 30 anni, ma pesco anche oltre.
Al Taranto Comix hai portato una tavola inedita che ti ritrae in solitudine mentre guardi il mare: si nota la prevalenza di toni chiari, laddove spesso le tue tavole tendono a preferire quelli scuri. È il segno di un cambiamento stilistico?
Mi piacciono i contrasti forti e in questo senso il bianco e nero è quello con cui mi trovo a mio agio, da cui la prevalenza dei toni scuri che citi. A volte però trovo si adattino meglio le tinte medie: nel caso della tavola inedita ho pensato agli anni in cui sono stato a Roma e a come mi sentissi fuori posto altrove mentre pensavo alla mia città.
Quindi esiste un “luogo della felicità” per Coma Empirico!
(ride) Sì, il luogo in cui sei cresciuto resta dopotutto quello con cui mantieni il legame più forte. In fondo fa tutto parte della stessa ricerca.
Intervista realizzata al Taranto Comix il 17 dicembre 2017