Giorgio Fontana nasce nella provincia di Varese nel 1981 e si laurea in Filosofia all’Università Statale di Milano.
Dal 2007 comincia la sua carriera di scrittore, pubblicando per le case editrici Mondadori, Marsilio e Terre di Mezzo.
Nel 2014 scrive Morte di un uomo felice, edito da Sellerio, che gli consente di vincere il Premio Campiello di quell’anno.
Scrive articoli per diverse testate italiane, quali Il Manifesto, Lo Straniero e Wired, ed è recentemente approdato nel mondo della scrittura a fumetti pubblicando, da fine dicembre 2015, alcune storie su Topolino.
È proprio partendo da questo nuovo traguardo della sua carriera che abbiamo voluto intervistare Giorgio Fontana.
Ciao, Giorgio, e grazie per averci concesso questa intervista.
Ciao e grazie a voi!
Hai mosso i tuoi primi passi di narratore nell’ambiente delle riviste letterarie, con Eleanore Rigby, progetto che ti vedeva coinvolto insieme a Danilo Deninotti e Andrea Ferrari. Che cosa ricordi di quell’esperienza che per certi versi ti ha spinto verso la tua carriera di scrittore?
Allora, in realtà ho iniziato a scrivere molto prima di quel periodo, diciamo dagli ultimi anni di liceo. Molti racconti e alcuni romanzi che facevano letteralmente schifo – e che per l’appunto ho cestinato. Poi verso la fine dell’università sono entrato in contatto con Filippo Ferrari (ora giornalista), il quale mi ha presentato suo fratello Andrea (ora editor di edizioni BD) e Danilo Deninotti (che avete intervistato non molto tempo fa).
Andrea e Danilo vivevano a Bologna e insieme a un altro amico, il grafico Dario Rodighiero (ora ricercatore a Losanna), avevano messo in piedi questa rivista letteraria, Eleanore Rigby. Da cosa nacque cosa, e sia io che Filippo entrammo stabilmente nella redazione. Circa nello stesso periodo ci trasferimmo tutti definitivamente a Milano.
L’impostazione di Eleanore era piuttosto punk, anche se all’apparenza poteva sembrare una cosa tutta perfettina – quei libretti in stile liberty, quell’impaginazione curata… In realtà eravamo piuttosto fuori di zucca. Facevamo un gran lavoro di scouting, a cui associavamo delle presentazioni che sfociavano spesso nel delirio. Insomma, era come avere una band. E poi ci siamo sempre voluti un gran bene, che è l’elemento chiave: siamo sempre stati amici veri.
Inoltre ognuno di noi faceva anche altro, portava avanti il proprio percorso. Nel dettaglio, io ho sempre tenuto distinta la mia attività di scrittore da quella di “rivistaiolo”; anche perché i miei gusti in fatto di letteratura erano piuttosto diversi, e il mio esordio è capitato per vie parallele rispetto al mondo di Eleanore. Avevo anche tutta una serie di problemi personali di cui non è il caso di parlare ora. Ma sono stati anni formativi – parlavamo fino a notte fonda di musica e letteratura, ci scambiavamo un sacco di idee e consigli – e soprattutto, sono stati anni terribilmente divertenti.
Adesso comunque con Andrea, Filippo e Danilo abbiamo aperto una piccola enoteca sull’Alzaia Naviglio grande, “il Secco”. L’avventura della gang continua.
Come sono nate la costanza e l’impegno che hanno fatto sì che, dalla passione, tu sia riuscito a diventare uno scrittore?
Direi che ci sono sempre state. Ho lavorato duro fin da ragazzo, e non ho mai pensato di avere chissà quale talento. In realtà la questione è abbastanza semplice: a me piacciono le storie; raccontarle bene richiede disciplina e impegno; qualunque intromissione indebita dell’ego significa solo raccontarle peggio – dare per scontate le proprie parole, scrivere “con la mano sinistra”. La mano sinistra invece devi sempre tenerla in tasca.
C’è una frase di Age che amo molto: “L’autore della sceneggiatura è come il guardiano del faro: tutti vedono il faro, ma nessuno vede lui.”
A mio avviso vale per ogni autore, che sceneggi, scriva romanzi, elabori saggi o rediga articoli. Poi quando cominci a pensare di essere arrivato da qualche parte, generalmente ti fermi lì. Ma io non voglio fermarmi. Io vorrei solo diventare più bravo.
In campo letterario quali sono i tuoi autori di riferimento, quelli che ti hanno formato e quelli che segui oggi?
Il primo nome è sempre stato e sempre sarà Franz Kafka, il mio solo eroe letterario. Poi cito alla rinfusa: Stig Dagerman, Hemingway, Joseph Roth, Proust, Malamud, Virginia Woolf, DeLillo, Richard Powers, Buzzati, Dostoevskij, Mancassola, Testori, Milo de Angelis… Eccetera. Fra i contemporanei leggo soprattutto narrativa nordamericana. E faccio due titoli dove i fumetti rivestono un ruolo chiave (così entriamo lentamente in tema): La fortezza della solitudine di Lethem e Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Chabon.
Cosa ha significato per te vincere il Premio Campiello (nel 2014, con il romanzo Morte di un uomo felice, edito da Sellerio)? Cosa è cambiato per te dopo questo riconoscimento?
È stato un momento cruciale per la mia carriera. Una bella pacca sulla spalla, come dico sempre. A livello pratico sono cambiate diverse cose: il premio ha spinto molto il romanzo; otto mesi dopo sono tornato a fare il freelance; mi sono stati proposte diverse collaborazioni; più in generale è stato confortante.
A livello esistenziale non è cambiato nulla: la “fuffa” e la mondanità che potevano arrivare in allegato non mi sono mai interessate, e per il resto faccio la vita semplice di sempre; la mia felicità resta fatte di pochissime cose di cui sono molto geloso. Lo stesso per il livello artistico: il premio non ha cancellato per nulla la mia ansia nei confronti delle parole. Ho sempre il terrore di deludere i miei lettori, di non essere all’altezza. Poi uno che legge questa frase penserà: “Sì, okay, se la sta tirando”. In realtà no, giuro. Scrivere continua a essere un grosso casino, per me.
Uno scrittore che approda nel mondo del fumetto come professione continuativa è un avvenimento insolito, che un tempo avrebbe anche destato un certo scalpore: per quella che è la tua esperienza, secondo te sussiste un certo snobismo – da entrambe le parti, fumettistica e letteraria – o al contrario non ci sono barriere e pregiudizi nei due ambienti?
Per quanto mi riguarda, ho sempre visto dello snobismo da parte del mondo della letteratura verso il fumetto – almeno fino a pochi anni fa, quando ormai è stato “sdoganato” un po’ dappertutto (specie grazie al grande successo delle graphic novel). Ora a volte c’è la tendenza opposta, tutti a dire che “l’arte sequenziale è una bomba” eccetera. Quanto ai fumettisti, ne conosco bene pochissimi: dunque mi è difficile esprimere un’opinione su quell’ambiente.
Ci sono differenze e anche affinità, forse, nello scrivere un romanzo di narrativa e la sceneggiatura di una storia a fumetti. Quali sono quelle che hai riscontrato in queste tue prime esperienze?
Più che altro ho visto le differenze. Quando scrivo narrativa sono completamente solo, e ogni mia parola si prende sulle spalle la responsabilità intera di raccontare, descrivere, rendere un dialogo eccetera. Una sceneggiatura è invece un progetto narrativo che viene affidato a un disegnatore. Una partitura. Quando la scrivo devo farmi capire, non pensare direttamente al lettore finale: perché gran parte del lavoro viene demandato. Per me è stato rivoluzionario. E siccome tantissime delle mie angosce sono legate alla lingua, è stato anche liberatorio. Ma del resto ne sono subentrate di altre: come pensare per immagini; come gestire correttamente il flusso narrativo; come evitare di essere banali sulla tavola; come lavorare sulle inquadrature; come trattare i dialoghi; eccetera… Tutte cose che devo ancora approfondire. Quello che non cambia però è il fine: raccontare una (si spera bella) storia.
La conoscenza della scrittura “narrativa” quanto aiuta nel momento in cui si passa alla sceneggiatura (nel tuo caso di un fumetto) e quanto invece è di ostacolo?
Difficile dirlo. La scrittura mi ha educato alla coerenza narrativa e mi ha dato un buon bagaglio di strumenti linguistici; del resto mi ha anche abituato a pensare, come dicevo poc’anzi, di fare tutto da solo. Solo ora sto cominciando a imparare a separare con cura le due anime.
Come ti sei avvicinato al fumetto Disney?
Ho imparato a leggere e amare le storie con Topolino. Me le leggevano i miei, poi ho cominciato a farlo da solo. Credo sia la faccia di Paperino sia fra i miei primi ricordi in assoluto.
Sei un assiduo lettore anche del Topolino degli anni recenti? E com’è avvenuto il contatto tra te e la redazione di Topolino?
L’ho letto regolarmente più o meno fino all’università; poi c’è stato uno iato – lo compravo di tanto in tanto – ma ho ripreso a leggerlo con assiduità da un paio d’anni almeno. Quanto al contatto: tempo fa Tito Faraci (che avevo conosciuto per altri lavori editoriali) mi propose di fare un tentativo con il Topo. Non mi sembrava vero; era un mio sogno da… bé, praticamente da sempre.
Ciò nonostante, presi tempo. Avevo appena pubblicato Morte di un uomo felice, e mi dividevo fra il lavoro in ufficio e una marea di impegni: inoltre non avevo molta pratica con la sceneggiatura, quindi dovevo studiare. L’idea dello scrittore che si trasforma in fumettista senza avere un solido cassetto di conoscenze al riguardo l’ho sempre trovata irrealistica; era anche una questione di rispetto. Non ci si improvvisa su due piedi altro da ciò che si è.
Perciò, per farla breve, ho studiato: certo, il fatto di essere un lettore accanito di Topolino è stato fondamentale. Poi ho mandato una breve a Tito, e gli è piaciuta. Da lì siamo andati avanti, e ora ho il privilegio di averlo come editor: il mio debito nei suoi confronti al riguardo è enorme, come potete immaginare.
In questi primi approcci alla sceneggiatura Disney ci sono degli autori particolari a cui hai guardato per ispirarti?
Certo: appunto Tito (non è piaggeria, giuro!), poi Silvia Ziche, Rudy Salvagnini, Francesco Artibani, Giorgio Pezzin e il maestro Rodolfo Cimino.
Che tipo di sceneggiatura hai sviluppato: dettagliata e particolareggiata o hai lasciato margini di manovra ai disegnatori? Quali sono stati i tuoi scambi e rapporti con tutti loro durante la lavorazione?
Le mie prime tavole erano piene di dettagli, troppi: è un vizio che mi trascino in parte ancora adesso. Come dicevo sopra, credo sia un tic derivante dalla scrittura narrativa; ma sto imparando a smettere. Una volta consegnata la sceneggiatura, viene editata con cura (è il momento in cui imparo di più) e quindi affidata dalla redazione al disegnatore. Qualche volta mi è capitato di vedere in anteprima le tavole o anche solo la tavola di apertura.
Per quel che si è letto finora, è evidente sin da Zio Paperone e la disfida del regalo il tuo interesse nel voler raccontare la quotidianità dei personaggi. Da cosa nasce questa scelta? E in futuro c’è la possibilità che tu possa affrontare un’avventura di ampio respiro alla Carl Barks?
Mah, non nasce da nulla di particolare: semplicemente, mi diverte raccontare i personaggi Disney nella loro vita di ogni giorno. Trovo che la quotidianità sia strapiena di gag potenziali. Ciò non toglie che mi piacerebbe lavorare su qualcosa di molto diverso – e in parte lo sto già facendo (ma è troppo presto per dire di più).
Il nodo narrativo di questa prima storia è l’ennesima sfida tra Paperone e Rockerduck: come mai hai scelto di cimentarti in un filone che solitamente, in una breve, permette ben pochi margini di manovra nella trama?
In realtà non è stata la prima storia che ho sceneggiato, solo la prima pubblicata. Comunque, anche qui, non saprei. Zio Paperone è il mio personaggio preferito, e mi è venuto naturale affrontarlo in uno dei suoi “luoghi narrativi” classici. In generale, faccio sempre molta fatica a spiegare perché questa o non quella trama. Non ne ho idea, davvero.
In Pippo e il guaio della chiave spezzata l’amico di Topolino emerge per la sua logica ferrea e a tratti disarmante, eppure, spesso si resta nel dubbio se non ci sia un genio sopito al suo interno. La tua storia, in fondo, è sospesa proprio su questo dubbio: secondo te Pippo è un genio?
Per me l’elemento chiave di Pippo sta appunto nella sua logica bislacca eppure, a modo suo, del tutto coerente. Non so se sia un genio: ma di sicuro ha dei tratti geniali. Ed è un personaggio meraviglioso. (Nota di colore: io sono piuttosto imbranato. Lo spunto per la storia è venuto proprio da qui: per ben tre volte mi è capitato di rompere una chiave nella porta).
Nella storia metti a confronto Topolino e Pippo in un tipico dialogo tra due amici: come hai inteso il rapporto tra i due? Come ritieni che Topolino “inquadri” l’amico e i suoi ragionamenti?
C’è sempre il pericolo di rendere Topolino troppo precisino e Pippo una sorta di scemo. È un errore grave. Pippo, come dicevo sopra, è buffo, simpatico, svampito, ingenuo, altruista: ma è tutt’altro che stupido. L’alchimia Topolino-Pippo funziona perché entrambi si conoscono alla perfezione, ed entrambi sanno che senza l’altro sarebbero molto meno. I loro difetti e pregi si compensano a vicenda. In generale mi piace molto mettere in scena i rapporti di amicizia fra i personaggi – anche perché è forse il valore cui tengo di più nella vita. E quella fra Topolino e Pippo è un esempio perfetto di come le differenze più marcate non significhino molto. A mio avviso Topolino non “inquadra” Pippo in alcun modo: gli vuole bene, stop.
Paperoga e il grande colpo… di sonno, una gustosa parodia non ufficiale della serie TV Numb3rs, vede come protagonista uno dei personaggi più difficili da rendere al meglio di tutto il cast disneyano. Quali sono, secondo te, le sue caratteristiche peculiari? E in cosa, ad esempio, si differenzia da Pippo, per certi versi suo equivalente topolinese?
Secondo me Pippo e Paperoga sono due personaggi molto diversi fra loro. Certo, sono entrambi piuttosto svampiti e bislacchi, ma quanto Pippo è pacato, tanto Paperoga invece è eternamente su di giri. Diciamo che la personalità di Pippo si esprime al meglio nei dialoghi e nelle piccole assurdità senza peso, mentre Paperoga dà il meglio nell’azione (distruttiva). Pippo ha un che di aereo, di leggero; Paperoga è un casinista nato. Sono due personaggi con potenzialità comiche straordinarie, ma a mio avviso vanno raccontati per vie parallele.
Sempre in quest’ultima storia non hai solo citato il “tormentone” delle strane passioni in cui si impegna il protagonista, ma l’hai reso parte integrante dell’ossatura della storia: che riflessione hai fatto alla base di questo elemento?
La gag sulla “matematica veloce, ma non precisa” l’ho sgraffignata (chiedendo il permesso, s’intende) a un caro amico, che merita almeno di essere nominato… anche perché sta per diventare papà: ciao Ale! Quella battuta mi aveva fatto molto ridere, e ho pensato subito che fosse adatta per una storia di Paperoga. All’inizio la passione non doveva avere un particolare peso, ma poi mi sono lasciato trascinare e ho dato a tutte le venti tavole un’iniezione di matematica sui generis. Era troppo divertente.
Ci sono altre storie per Topolino in vista, tra quelle in attesa di pubblicazione e quelle che devi ancora scrivere?
Sì, ne ho scritte già diverse altre e sto proseguendo a sceneggiarne altre ancora (fra cui un paio lunghe). Spero di continuare e di crescere di storia in storia.
C’è la possibilità che tu scriva sceneggiature anche per fumetti extra-Disney?
Mi piacerebbe. Con Danilo Deninotti, tempo fa, avevamo già creato una cosina di due tavole su Miles Davis per Pagina99. Ora stiamo lavorando ad alcune altre idee di più ampio respiro, e di recente mi è venuta l’idea per una mini-serie su un supereroe abbastanza anomalo. Ma tempo al tempo.
C’è qualche altro progetto in vista, oltre ai fumetti? Un nuovo romanzo che bolle in pentola, magari?
Rispondo a queste domande in una pausa, mentre scrivo il nuovo romanzo. Quindi la risposta è sì, ma di nuovo… Tempo al tempo! Come si sarà intuito, non amo svelare le carte prima del momento opportuno.
Ringraziamo ancora Giorgio Fontana per averci concesso quest’intervista.
Intervista condotta via mail il 26 gennaio 2015