Primo frantume: Tras/formazione
Gli adolescenti sono dei mostri mutanti. I loro corpi si trasformano, la loro pelle si ricopre di pustolette e il loro umore è completamente instabile. Vivono tra noi e li trovi in ogni angolo delle nostre belle città.
L’adolescenza esplode, da qualche parte, mentre l’umano frequenta le medie e si trascina, pericolosa e molesta, per anni. Tra brufoli, dolori della crescita, sbamballoni ormonali e depressione cronica (se ben ricordo, ma ormai è passata un’eternità), da adolescente ti senti proprio mostruoso e sei convinto che il tuo patrimonio genetico non avrà speranze di sopravvivenza (ma magari sto generalizzando attorno a uno sfortunato caso personale).
A undici anni, Charles Burns frequenta la prima media. Di lì a qualche mese la sua pelle cambierà odore e la sua voce tono: diventerà un mostro, insomma. E’ il 1966 e l’undicenne, cresciuto in una di quelle provincie al cubo che esistono solo negli USA, ama i fumetti che raccontano storie strane. Ha una predilezione particolare per i raccontini illustrati da Steve Ditko1 e per i fumetti di “Mad” disegnati di Will Elder. L’undicenne disegna le sue storie strane, mostrando, in modo quasi inquietante, tutti i sintomi di quelle ossessioni che avrebbero poi attraversato la sua intera carriera. Troviamo la riproduzione di uno di questi fogli ormai ingialliti nel libro che Todd Hignite dedica ad alcuni dei più interessanti autori USA, In the studio. Uno scienziato guarda il tavolo del laboratorio sul quale fa esperimenti su materia ormai morta. Si distinguono una mano recisa come una rosa e un cuore disegnato con una precisione e un dettaglio che non vediamo altrove sul foglio. La pelle del viso dello scienziato si sta liquefacendo e la sua noncuranza ci fa intuire che si tratti di un’ossimorica trasformazione permanente.
L’adolescenza si conclude da qualche parte mentre ti ritrovi a varcare l’età adulta: quando succede, di solito, puoi guidare un’automobile, iscriverti all’università o prendere una qualsiasi altra decisione irresponsabile.
Dopo aver carambolato tra varie scuole, Burns approda all’Evergreen State Collage a Olympia (nome che riporta alla mente il racconto fantastico ottocentesco di E.T.A. Hoffman che parla di amore, bambole e robot). Si tratta di una scuola sperimentale: non ci sono esami, voti e obbligo di frequenza. In quella scuola, negli stessi anni ci sono Gary Panter, l’autore di Jimbo, e Matt Groening, il papà dei Simpson. C’è anche Linda Barry, l’autrice bravissima di 100 demoni!2, che però non frequenta Burns perché nonostante sia noto come “l’artista della scuola” è veramente poco fico. A Evergreen, Groening dirige il giornalino della scuola ed è il primo a pubblicare i lavori di Burns (e anche di Panter e Barry).
In Francia è appena uscito un librino di François Ayroles intitolato Nouveaux moments clés de l’Histoire de la bande dessinée. In 48 pagine, Ayroles affastella una serie di vignette che riempiono tutta la pagina e raccontano momenti topici della storia del fumetto. E’ un libro molto divertente che associa frasi semplici, che riassumono fatti, e immagini incongrue. Una delle vignette dice “Matt Groening e Charles Burns fanno un giornale” e presenta i due autori, in età da college, seduti su sgabelli in odore di trespolo, uno di fronte all’altro. Ma c’è in corso una mutazione: Groening sta disegnando El Borbah (il detective wrestler mascherato) vagamente simpsonizzato; sul foglio di Burns c’è invece un Bart tracciato con segno pesante e preciso e con evidenti campiture nere.
Secondo frantume: Ri/viste
Nel 1981, sul terzo numero della rivista “Raw” ci sono due storielle di una pagina firmate Charles Burns. E quelle due storie ci dicono già tutto quello che dobbiamo sapere per entrare nell’assurdo universo dell’autore. Ci sono i dolori della crescita, le mutazioni delle carni, la difficoltà a capire il mondo. C’è anche Dog Boy, un ragazzone americano con un cuore di cane che puzza di Bulgakov.
Di lì a poco, un altro dei personaggi topici di Burns farà la sua apparizione: Big Baby, un grande bimbo che sente di storia del fumetto (un ragazzino abbastanza disadattato – un altro! – con un enorme testone calvo: ti ricorda qualcuno?). Burns, infatti, propone al mitico “Village Voice” una serie di vignette dal titolo Mutantis e, là in mezzo, si nota il capoccione tondo del bambinone3.
“Raw” è una rivista fortemente voluta da Françoise Mouly e da Art Spiegelman. Un modo per dichiarare al sistema del fumetto statunitense la possibilità di una forma del racconto per immagini, capace di allontanarsi tanto dai supereroi dei comic book mainstream quanto dai temi e dai segni brutti sporchi e cattivi dei comix underground. La rivista è diversa da tutto quello che la circonda, anche per il formato: enorme. Ed è enorme anche per la scelta degli autori pubblicati. Solo per fare qualche nome: Bazooka, Caran D’Ache, Giorgio Carpentieri, Drew Friedman, George Herriman, Ben Katchor, Kaz, Francis Masse, Winsor McCay, Jose Muñoz, Carlos Sampayo, Art Spiegelman, Joost Swarte, Jacques Tardi, Yoshiharu Tsuge…
Sul terzo numero appaiono i fumetti di due giovani autori appena uscita dallo stranissimo Evergreen State Collage: Charles Burns e Gary Panter4.
Noi italiani siamo fortunati, perché storiestrisce, una cooperativa di autori coordinata da Giancarlo Elfo Ascari e da Franco Serra, intercetta da subito questo fenomeno newyorchese e lo importa: Maus di Art Spiegelman viene pubblicato, in un formato identico all’originale, su “Linus” e i numeri di “Raw” – accompagnati da un bizzarro foglio ciclostilato con le traduzioni in italiano – si trovano con relativa facilità nelle librerie milanesi.
Componendo “Raw”, Mouly e Spiegelman mostrano nelle proprie scelte editoriali un’attenzione non comune verso il fumetto europeo. I due iniziano a frequentare assiduamente il vecchio continente: Mouly con la serenità di chi ritorna a casa, Spiegelman con il sottile senso di inferiorità che in quegli anni gli intellettuali statunitensi hanno nei confronti di quella che ai loro occhi – ingenui – appare come una culla di cultura e civiltà. Durante uno di questi soggiorni, una vacanza romana, li accompagna Charles Burns. Mentre cazzeggia allegramente per Roma, il nostro viene intercettato da Giorgio Carpinteri.
Chiunque abbia letto i fumetti che Carpinteri ha prodotto – principalmente negli anni Ottanta – per le riviste “Alter” e “Frigidaire” sa che questo autore è uno tra i più grandi che questo paese abbia mai espresso. Poi a un certo punto si è messo a fare altro (e anche questa è un’altra storia).
In quegli anni Carpinteri è immerso in un progetto italiano che cerca la commistione del fumetto tanto col racconto quanto con le altre forme del visivo. Il progetto di chiama Valvoline e, oltre a lui, giocano dentro e fuori quelle regole Lorenzo Mattotti, Igort, Jerry Kramsky e Daniele Brolli.
Affinità elettive e riconoscimento all’olfatto: Charles Burns viene subito arruolato tra le fila di Valvoline e si trasferisce con la moglie, per qualche anno, in Italia.
Gli italiani, gente fortunata, potranno leggere le sue storie, mentre vengono prodotte, sulle pagine di “Alter”.
Terzo frantume: Ri/cerca
Rimbalzando tra “Raw” e “Alter”, la due riviste che, negli Stati Uniti e in Italia, gli offrono prestigiosi spazi di pubblicazione, Charles Burns inizia ad affastellare segni e racconti. Presto alle due riviste si affianca “Heavy Metal”, filiazione statunitense – piuttosto impura – della francese “Metal Hurlant”, con cui inizia a collaborare dal 1983.
La lettura più superficiale dei lavori di Burns coglie solo l’ossessione citazionista, la riscrittura intertestuale e la commistione di generi postmodernista. L’inserto Valvoline pubblicato sul numero di “Alter” del dicembre 1984 è dedicato prevalentemente al nostro e, nell’articolo d’apertura firmato Margherita Angelus, si legge:
Charles Burns è uno che alla televisione guarda tanti film, quelli che i network ripescano chissà dove per saturare le interminabili ore di programmazione. Un répechage involontariamente culturale e ormai financo snob. Sì perché ormai da inequivocabili segnali i B movies non rimarranno più a lungo in seconda divisione.
Valvoline vive all’incrocio dei linguaggi visivi e tutt’attorno ci sono gli anni Ottanta. La necessità di nobilitare letteratura di genere e produzioni a investimenti contenuti è assolutamente comprensibile. Così come si può capire la forte volontà di affiancare cinema e fumetto, mostrando quanto il secondo possa emulare il primo. E’ lo spirito dei tempi: pervade tutti.
Ma nei segni neri e profondi di Burns c’è di più. C’è la strenua volontà di raccontare i frammenti (i frantumi) della provincia statunitense, vissuti dall’autore negli anni della formazione, che si mescolano a un immaginario visivo consolidatosi sulle pagine sottili e coloratissime dei comic book, sulla superficie vitrea dei televisori che iniziano ad apparire nelle case e sugli schermi remoti dei cinema e dei drive in. Un immaginario che noi lontanissimi italiani avremmo riscoperto leggendo Joe R. Lansdale (prima che ci prendesse per sfinimento).
Burns è tra i migliori cantori della sua generazione; così come lo sono, per esempio, Stephen King per la generazione precedente e David Lapham per quella successiva.
I racconti apparsi sulle riviste vengono raccolti in tre volumi (attualmente in catalogo Fantagraphics): Skin Deep, uscito in Italia con il titolo Sotto pelle, per la Phoenix; El Borbah, che raccoglie inverosimili racconti hard boiled che hanno come protagonista un investigatore che è anche un lottatore mascherato di wrestling; e Big Baby, con il racconto del campeggio che continuo a trovare estremamente disturbante.
Nel 1995, Charles Burns inizia a pubblicare una serie di 12 comic book, Black Hole, con la casa editrice Kitchen Sink5. Si tratta di albetti stampati su una carta, pesante e patinata, che rende giustizia ai meravigliosi neri di Burns. I problemi di Denis Kitchen – una storia di dissidi tra soci – portano all’interruzione della serie con il quarto numero (e alla chiusura di Kitchen Sink). La proseguirà Fantagraphics. Ci vorranno undici anni per poter leggere, nella sua interezza, Black Hole, il capolavoro di Burns.
In estrema sintesi, in questo fumetto (in Italia è raccolto in un volume Coconino) c’è uno strano virus che si trasmette sessualmente e colpisce solo gli adolescenti. Questo virus trasforma le carni dei ragazzi che già si ritrovano a dover convivere con i brutti scherzi che gioca loro un corpo in sviluppo. Gli adolescenti di Black Hole si trasformano e mostruosi lo diventano veramente.
Altri frantumi: altre storie
0. Il prossimo frammento che andrà a comporre la bibliografia di Charles Burns è un fumetto a colori in cui l’autore intende usare un segno più sintetico e più vicino alla ligne claire. Parlandone, Burns cita Hergé, l’autore di Tintin, quale riferimento visivo principale6.
1. La grandezza di un narratore mica si può misurare usando come indicatore di dimensionamento il numero di pagine prodotte. C’è gente che entra nella storie del fumetto con una storiella di otto pagine (è il caso di Richard McGuire con Here) e altra che ne varca la soglia con una montagna di storie (un caso per tutti è Osamu Tezuka). Dall’altra parte, c’è tantissima gente, cui magari i libri di agiografia del fumetto riservano un sacco di spazio, che però nella storia del racconto visivo non lascerà traccia alcuna (qui scegliere un unico esempio è molto più difficile e mi appello all’insegnamento di Jorge Luis Borges: “l’oblio è la miglior vendetta”).
2. Detto questo, Charles Burnes mica è lento. Fa un sacco di altre cose che mi interessano meno ma cui riconosco una grandissima dignità. E’ il caso delle copertine di “Believer” e di “McSweeney’s”, dei cartoni animati (Peur(s) du noir, ma anche la campagna per Altoids o gli esperimenti per MTV), dei libri di fotografia (One Eye), delle copertine dei CD (Brick by Brick di Iggy Pop),…
3. Tra i lavori laterali ce n’è uno che amo alla follia. Si chiama Face-tasm, è uscito nel 1998 per Gates of Heck e in copertina affianca i nomi di Charles Burns e di Gary Panter. E’ un oggettino di rara bellezza che mostro a tutti i miei amici, vantandomene. Ci sono 18 volti mostruosi disegnati, alternatamente, da Burns e da Panter. Ogni viso è disegnato sia sul fronte che sul retro della pagina a esso destinata. Ogni pagina è tagliata in tre strisce: indicativamente una striscia per la fronte, una per gli occhi e per il naso e una per la bocca. Il libretto è legato con una spirale metallica che consente di sfogliare i tre moduli che lo compongono indipendentemente. Appartiene a una categoria di oggetti editoriali giocosi e destinati ai bambini che hanno, nel mercato statunitense, una discreta diffusione, con il nome di mix and match books. Combinare i volti di Face-tasm in maniera incongrua, mescolando i segni distantissimi dei due autori, è un piacere sottile che non si può descrivere con le parole.
4. In Italia Charles Burns ha influenzato un bel po’ di autori. Cito solo i due su cui, secondo me, ha prodotto gli effetti più distanti: Roberto Baldazzini, che a un certo punto nella prima metà degli anni novanta ha raggiunto un segno sublime per poi affogare in una noiosissima rappresentazione di maniera della sessualità, e Francesca Ghermandi, che ha metabolizzato quel segno fino a polverizzarlo completamente nel frullatore del suo immaginario visivo.
5. Matt Groening, amico di Burns ai tempi di Evergreen, ci è andato anche lui, almeno una volta, a Roma. Lo raccontava Filippo Scòzzari durante uno dei Lucca comics talks di quest’anno. Pare che l’inventore dei Simpson sia arrivato con dei documenti, abbia bussato alla porta di Massimo Mattioli e sia riuscito a ottenere un’ingenuissima firma su un contratto di cessione. Questo spiegherebbe come mai Fichetto e Grattachecca assomigliano così tanto al gatto e al topo di Squeak the Mouse. Scòzzari si raccomandava di non raccontare in giro la cosa in presenza di Mattioli: pare sia molto sensibile sulla questione.
Articolo originariamente pubblicato in quattro parti sul blog di Bilbolbul 2010 e sul blog di Paolo Interdonato.
che in Italia avremmo potuto leggere, una decina d’anni dopo, in appendice agli albi Marvel della Corno ↩
in Italia, visto a puntate sulla rivista “Linus” ↩
Solo per pedanteria, le vignette vengono rifiutate dal “Village Voice” e finiscono su “The Rocket”, una free press di Seattle ↩
Panter, in realtà, è già un designer da guardare con attenzione – è lo scenografo dello show televisivo Pee Wee’s Playhouse, ma questa è un’altra storia – ed ritenuto da Mouly e Spiegelman così maturo da ottenere che il primo “Raw one-shot”, uscito nel 1982, raccolga il suo Jimbo, precedentemente apparso sulla fanzine punk “Slash” ↩
cui dovremmo essere debitori almeno per il recupero e la pubblicazione sistematizzata di Will Eisner e Harvey Kurtzman ↩
L’opera, intitolata X’ed Out in francia e Toxic negli USA, è uscita il 18 ottobre scorso ↩