In occasione del BGeek 2017 abbiamo raggiunto Mauro Uzzeo, ospite di spicco della fiera barese, e parlato con lui del progetto Monolith, una triproduzione che ha visto cooperare Sergio Bonelli Editore, Sky e Lock & Valentine. Il film, con protagonista Katrina Bowden, è stato presentato all’edizione 2016 del FrightFest di Londra e sbarcherà nelle sale il prossimo agosto.
Mauro Uzzeo, romano, classe 1979, è da anni al servizio del fumetto, del cinema e della televisione. Dal 2001 svolge l’attività di sceneggiatore e regista di cortometraggi, spot pubblicitari e videoclip musicali. In ambito fumettistico spazia dall’editoria indipendente a quella della grande distribuzione, lavorando per Editoriale Aurea (John Doe), Sergio Bonelli Editore (Orfani, Dylan Dog), Editoriale Cosmo (Battaglia) e Star Comics (I Maestri dell’Avventura). Insegna narrazione e comunicazione cross-mediale, collabora con diverse riviste ed è l’ideatore di ARF!, festival dedicato alla nona arte che si svolge nella cornice del Macro di Roma.
Monolith è un’operazione congiunta tra cinema e fumetto che, almeno in Italia, non si era mai vista prima. Insieme a Lorenzo “LRNZ” Ceccotti hai funto da anello di raccordo tra il graphic novel e il lungometraggio, cosceneggiando la Monolith cartacea con Roberto Recchioni e affiancando il regista Ivan Silvestrini nella stesura dello script cinematografico. Quali sono state le difficoltà maggiori di un incarico del genere, del dover lavorare contemporaneamente su due fronti?
La ragione per la quale sono stato coinvolto è da ricercare nel percorso dei miei ultimi anni, a cavallo tra TV, cinema e fumetto, nel fatto che io sia abituato a far dialogare media così lontani. Oltretutto stavo scrivendo il graphic novel con Roberto, avevo già collaborato con Lorenzo e conoscevo molto bene il regista Ivan Silvestrini. Detto ciò, la difficoltà maggiore dell’operazione era legata alla volontà di attribuire un’impronta ben definita a ciascuno dei due progetti. Monolith fumetto e Monolith film, infatti, pur partendo da un’idea comune, percorrono strade autonome, sia nello sviluppo narrativo sia nell’approfondimento dei personaggi.
Nel primo caso, avendo a nostra disposizione la splendida matita di Lorenzo Ceccotti, un uomo in grado di disegnare qualsiasi cosa e bene, sapevamo che, almeno su carta, non avremmo avuto limiti. Il cinema, invece, questi limiti li ha e sono tutti riconducibili al budget. Chi ha letto la storia ricorderà il litigio iniziale tra Sandra e Carl, un momento di tensione che sfocia nella fuga in auto della protagonista e di suo figlio David i quali, inseguiti dallo stesso Carl, rischiano di impattare contro un camion in prossimità di un incrocio. Riprodurre questa sequenza su pellicola, ad esempio, avrebbe comportato tempi e costi notevolissimi, dover scegliere, affittare e scenografare la villa della coppia, fermare il traffico per poter girare in strada, affittare un autocarro per inscenare un incidente. Sono state necessarie mille riunioni per capire cosa e come tagliare, cercando, nel contempo, di non impoverire il film che, a differenza del graphic novel, si apre con Sandra e David già a bordo della Monolith.
Da un certo punto di vista il film è più potente perché gioca con la suspence, la colonna sonora, il montaggio e l’interpretazione emotiva degli attori. La potenza del fumetto, invece, risiede in una capacità evocativa pressoché illimitata, in una messa in scena priva di vincoli. Il nostro obiettivo era quello di renderli entrambi potenti, puntando sulle armi specifiche dei mezzi adoperati.
Grazie a Monolith hai avuto l’opportunità di prendere parte a una produzione internazionale, l’ultima di una serie di imprese in campo cinematografico e televisivo. Negli ultimi anni, infatti, più volte hai toccato con mano le differenze di linguaggio che intercorrono tra la settima e la nona arte. Esistono aspetti del cinema, del modo di scrivere cinema e di approcciare a esso che porti con te nel lavoro di fumettista?
Il fumetto si basa su un modello di lavorazione piuttosto autarchico. Ci sono autori totalmente autosufficienti ed è il caso di Lorenzo Ceccotti che scrive, realizza e, in alcuni casi, produce le sue storie. Cinema e TV, invece, mi hanno insegnato il concetto di squadra. Il termine regista fa pensare a un uomo con una macchina da presa in mano ma l’equivalente inglese, “director”, racconta fedelmente ciò che più mi piace di questo mondo. Il regista, infatti, è un direttore d’orchestra, deve far sì che tutti gli elementi, dall’ultimo degli elettricisti fino alla superstar internazionale, viaggino nella medesima direzione, in un clima piacevole e che sproni a dare il meglio. Odio parlare di me in prima persona, amo parlare di me come parte di un team e penso sia il gruppo l’aspetto più bello, più divertente della mia professione: coinvolgere la casa editrice e la redazione, parlare con i letteristi, coordinare i coloristi, misurarsi con un’equipe di sceneggiatura e di disegno. È giusto che un’idea nasca e si sviluppi nella propria testa fino a quando non si decide di condividerla con qualcuno.
Ti andrebbe di raccontarci un aneddoto legato alla tua esperienza sul set?
Ce ne sarebbero migliaia. Nella fase di preproduzione, dove ero presente, e in quella di produzione, che seguivo da casa, si sono verificate le situazioni più impensabili. Vi svelo un particolare che credo non sia mai stato raccontato, risalente al periodo in cui io e Ivan, con l’obiettivo di approfondire maggiormente le backstory dei personaggi, eravamo impegnati nella creazione di nuovi, possibili soggetti. In uno dei tanti, a circa metà film, si scopriva che David non era il figlio di Sandra bensì suo nipote. Non potendo avere figli, e odiando la sorella in quanto madre, Sandra aveva sviluppato un rapporto morboso con questo bambino, al punto tale da considerarlo suo e portarlo via con sé. Così facendo, tuttavia, rischiavamo di allontanarci troppo dal fulcro del racconto e si è trattato, pertanto, di una strada che non abbiamo assecondato. Tra le varie derive c’è stata una trama che prevedeva addirittura la presenza di un cane, Ivan me lo racconta sempre. Ecco, il cane l’ho rimosso ma ricordo l’orrore del plot “Sandra rapitrice di figli”!
Nel graphic novel si fa largo il tema della protezione e delle sue incongruenze, di come gli individui e gli oggetti che ci tutelano maggiormente sono, a volte, i medesimi che ci separano dal mondo e dalla vita. Questo leitmotiv emerge anche nella pellicola? Rivela una forza comparabile o assume altre sfumature?
La tematica del fumetto è esattamente quella e si affaccia anche nella sua controparte cinematografica, seppur in maniera più sfumata. Il film, infatti, proprio per la necessità di creare prospettive differenti, ha come punto focale un altro elemento: il perché Sandra è lì, in quella determinata situazione. Esiste una spiegazione? C’è qualcosa che lei sta sbagliando? Qual è il fatal flaw che dovrà superare, il demone interiore contro cui sta realmente combattendo? L’incidente della Monolith non è che una metafora.
Ci sono storie che necessitano di essere raccontate in determinati luoghi, profondamente connaturate in uno specifico scenario. Sarebbe stato possibile rinunciare agli States e ambientare Monolith in Italia?
Sergio Leone ha dimostrato che per girare un western non è indispensabile spostarsi dall’Europa. C’è un film di Abel Ferrara, splendido, che narra la fine del mondo in un appartamento di New York, un caso per nulla isolato. Di conseguenza credo che, in linea di massima, qualsiasi storia possa essere raccontata in Italia. Monolith, tuttavia, considerata la staticità della sua impostazione, una ragazza ferma davanti a un’automobile, richiedeva una location unica al mondo come il deserto dello Utah, un luogo in grado di offrire una serie di sorprese e potenzialità visive difficilmente replicabili nel contesto italiano. Va detto che alcuni scenari si portano dietro anche un retaggio, il motivo per cui un’invasione aliena a New York risulta più credibile di una in provincia di Como. In fondo è l’equivalente di ciò che succede nel disegno, basti pensare a uno stile come quello di Zerocalcare: risulta perfetto per un certo tipo di fumetto ma non si sposerebbe altrettanto bene con un’avventura di Tex.
L’intelligenza artificiale della Monolith a fumetti prende il nome di Irma, un chiaro rimando all’universo narrativo di Dylan Dog. Considerato il rapporto complicato che lega quest’ultimo alla tecnologia, ritieni sia pronosticabile un incontro tra l’Indagatore dell’Incubo e il super blindato?
Penso sia solo un gioco. Roberto si diverte nel dare l’illusione di un universo coeso nel quale convergono tutti i suoi personaggi. Per quanto mi riguarda Monolith racconta quella storia e basta, le problematiche di Sandra e Carl, un uomo e una donna che affrontano la loro crisi di coppia. Più che un incubo di Dylan, quella dell’automobile è più una mia paura: non ho mai preso la patente e ho un rapporto estremamente conflittuale con le macchine. Al contrario di me, inoltre, Dylan non ha figli e la Monolith diventa un problema nel momento in cui, dentro a quella Monolith, c’è qualcosa che ami davvero tanto, forse più della tua stessa vita.
Intervista realizzata dal vivo il 10 giugno 2017.