Alla mostra Napoli Comicon 2006, nel piccolo stand della Bottero Edizioni, abbiamo incontrato Stefano Piccoli, ex-componente della Factory, oggi giornalista, art-director di una nota casa di abbigliamento, e di nuovo autore di fumetti, dopo quasi dieci anni dalla sua ultima pubblicazione. Stefano ha approfittato proprio della kermesse napoletana per presentare il primo numero della nuova serie regolare del suo personaggio più conosciuto, Il Massacratore.
Disponibile come pochi riescono a essere, rispondendo ad una lunga intervista, ci ha voluto raccontare dal suo punto di vista come sia cambiato prima lui stesso, poi l’editoria fumettistica italiana durante tutti questi anni di assenza.
Chi era e chi è oggi Stefano Piccoli?
Stefano era un “pischello” che amava l’arte, la musica e i fumetti e decise che in un modo o nell’altro quella doveva essere la sua vita! In realtà lui pensava di poter “cambiare il mondo” con il suo talento, poi crescendo fu il mondo a cambiare lui… e forse proprio perché non aveva tutto ‘sto talento che pensava di avere!!!
Di fatto, era sicuro di se stesso e dei propri mezzi, era deciso, arrogante, polemico, sbruffone e politicamente fazioso. D’altro canto il suo retaggio era quello della sinistra più radicata, della militanza studentesca, dei centri sociali, delle manifestazioni (anche musicalmente, schierato verso la parte più hardcore e “politica” del rap) e tutto questo si riversava come logica conseguenza nelle sue storie a fumetti.
Oggi è una persona più grande, con più dubbi e meno sicurezze, molto meno polemica, ma tutto sommato ancora abbastanza arrogante. Le sue esperienza umane e professionali tendono ancora qualche volta a portarlo a fare un po’ lo “sbruffone”, ma rispetto a dieci anni fa si è sicuramente calmato nell’atteggiamento. Fa le cose con più tranquillità, riesce ad essere meno incazzato e più ironico. E invece che nascondere il volto dietro la sua kefia, sfoggia un sorriso a trentadue denti, anche quando se la ride sotto i baffi.
Stefano era uno che voleva fare fumetti per campare, invece oggi campa con la grafica, la moda e il giornalismo musicale, e il fumetto per lui è “solo” un’attività part-time (che ama molto).
Perché il nick S3Keno?
é solamente una distorsione del mio nome. I miei amici storici – quelli “della comitiva”, per capirci – mi chiamano Strekeno da sempre, da quando giocavamo a calcetto nel quartiere dove abito. Io ho solamente sostituito il numero 3 alle lettere T-R-E, et voilà: S3Keno.
Dipingevo con questo nick, poi ho cominciato a firmarci i miei fumetti e i miei articoli, dopodiché mi si è incollato addosso quasi da solo. C’é gente dell’hip hop italiano che nemmeno conosce il mio vero nome, gente per cui io sono semplicemente S3Keno, da sempre.
Come nasce il Massacratore e perché, dopo 13 anni, torna nelle fumetterie?
Il Massacratore nacque come un gioco, dentro una fanzine che si chiamava Buona la prima che facevo insieme a Carlo Chericoni (oggi direttore editoriale della Play Press) e Fabrizio Spinelli. Inizialmente era una semplice parodia del Punitore della Marvel, era vestito esattamente come lui, solo che aveva la lisca di pesce sul petto invece del teschio, perché faceva ridere, faceva molto “made in Italy”, visto che Jacovitti metteva sempre i salami e le lische nelle sue vignette! L’idea era quella di uccidere – quantomeno sulla carta – i personaggi del mondo reale che ci stavano sulle palle. Su “Buona la prima” furono Marco Masini, Cristina D’Avena e Vittorio Sgarbi. L’idea vincente fu quella di fare decidere ai lettori chi voler vedere massacrato, quindi raccoglievamo i voti con un’urna alle fiere o in qualche fumetteria. Quando il Massa si sposto’ nelle pagine di Katzyvari c’era il coupon da compilare e spedire in redazione, e la storia funzionava così: piaceva molto, pur nella sua semplicità. Arrivavano moltissimi voti, e su “Katzyvari” uccidemmo Antonello Venditti, Giulio Andreotti e il Papa Wojtyla (con una storia non mia, sulla quale tornero’ dopo).
Chiuso “Katz”, il Massacratore aveva la forza e la popolarità per una propria serie personale. Nacque così il suo comic book regolare, inizialmente bimestrale, e nacque così la Liska Prod, ovvero la mia etichetta, quella con cui – negli anni seguenti – avrei sempre pubblicato le mie cose. Proseguii con il meccanismo dei voti dei lettori: uccisi Ambra, Gianni Boncompagni e tutte le ragazze di “Non è la Rai”, poi la classe politica italiana (Berlusconi, Fini e D’Alema in primis) in una storia in tre parti nella quale loro erano i “veri supereroi italiani” (onorato in quell’occasione da delle splendide copertine di Danjel Zezelj, che adoro), poi Craxi, Jovanotti, i Take That (ma anche Piero Pelù, i Green Day e Bono degli U2 in una storia apparsa sulla rivista musicale “Rumore”), il Gabibbo e Anna Falchi. Ma – mano a mano che andavo avanti – sentivo che il personaggio cominciava a stare stretto in questa “gabbia”, sentivo che negli anni era maturato (insieme a me) e che il meccanismo dei voti dei lettori aveva fatto il suo tempo. Allora cominciai a scrivere e disegnare storie “diverse”, sperimentando nuovi modi di utilizzare il Massacratore, come fosse un testimone della realtà che ci circonda, o come giustiziere di “concetti” piuttosto che di persone fisiche, come l’ipocrisia o le uniformi mentali. Da qui storie come In Dub o Sbirri, che divisero i lettori a metà: le detestarono o le amarono, senza vie di mezzo!
Anche la miniserie con la Play Press fu una specie di esperimento (soprattutto della Play): con Il Massacratore & Virgo – dove la comprimaria non era altro che la sua compagna (a cui dedicai due albi “speciali” immediatamente esauriti) – mi confrontavo con una storia lunga, di settantadue pagine. E per la prima volta provavo a fare “fiction”, con personaggi che facevano si riferimento a persone reali della televisione, ma erano parodie, comunque di fantasia. Mi piace quella storia, ma rimane un esperimento riuscito solo a metà.
Alla fine il Massacratore apparve come uno dei protagonisti del progetto Factory, anche se quello non era il suo “luogo” ideale, soprattutto per ciò che era diventato e che ancora stava diventando.
Oggi torna nelle fumetterie per almeno tre buoni motivi. Il primo è che mi è tornata la voglia di scrivere nuove storie (quindi lo faccio, come sempre, per appagare me stesso); il secondo è per dimostrare – per l’appunto – cosa è divenuto negli anni (quindi anche per i lettori); il terzo motivo è la determinazione, quella che fa si che possa esistere un prodotto del genere in un settore dove tutti oggi mi dicono non sia più possibile farne.
Cos’é e come nasce la Factory?
La Factory era prima di tutto una buona idea, forse solo in seguito gestita male. Era il tentativo di riunire sotto un unico “marchio” diverse realtà editoriali indipendenti (già produttive) per cercare di avere più voce in capitolo, per farsi notare con maggiore interesse dal panorama del fumetto italiano. C’erano Diego Cajelli e Luca Bertelé con la loro Ttoglo Comics, reduci del successo di “Pulp Stories”; c’era Walter Venturi con la sua Down Comix e la megapopolarità del suo mitico Capitan Italia; c’ero io con la mia Liska Prod, e soprattutto la fondamentale (ripeto, fondamentale) entrata in campo di Roberto Recchioni, che già si stava facendo notare alla grande con la serie Napoli Ground Zero dentro Skorpio (grazie al binomio artistico con Lorenzo Bartoli e con la Eura Editoriale, che prosegue tutt’oggi e che lo ha portato al grande riscontro nazionale di John Doe).
Sulla base di una strategia editoriale comune, di una grafica comune, di una presenza comune alle fiere e nella distribuzione in fumetteria, pubblicammo numerosi albi in cui ogni elemento del gruppo concorreva economicamente alle serie su cui voleva investire (un disastro, in termini organizzativi). Roberto partecipava praticamente a tutte! In un certo senso la Factory era sua, anche se a me piaceva molto il mio ruolo da “antagonista” che si era creato (per usare il termine che ha usato lui stesso recentemente, nel suo forum).
Comunque, vuoi per poco denaro, vuoi per divergenze organizzative, vuoi per ambizioni differenti che si delineavano strada facendo, alla fine io dopo due soli numeri del Massa uscii dalla Factory e praticamente da quel momento mi allontanai pian piano dal mondo dei fumetti (avvicinandomi sempre di più a quello del giornalismo musicale, dato che tutto il mio tempo cominciavo a dedicarlo alla direzione di una rivista hip hop pubblicata dalla Magic Press).
Come si svolgeva il lavoro all’interno della Factory?
In maniera del tutto caotica! Eravamo nove autori, ognuno con le proprie idee di editoria e – perché no? – anche di estetica. Ogni riunione che facevamo per cercare di organizzare al meglio le cose, finiva con grandi discussioni, casini vari, litigi… tra cibo cinese, caffé e stanze fumose: uno spasso!
Nella pratica, ognuno di noi si occupava in maniera quasi del tutto “autonoma” del proprio albo (storia, disegni, colorazione, lettering, editoriali, etc.); ci davamo delle scadenze indicative, soprattutto nei confronti di Ottokin, che curava tutta la parte che riguardava grafica e impaginazione. Dopodiché si andava in tipografia (su contatti di Venturi) e infine in fiera, dove cominciava la sfida a chi vendeva di più!
Aldilà del fatto che mi sentivo sicuro delle buone ordinazioni librarie del Massacratore, la verità è che sono un pigro cronico, soffro a stare nello stand a disegnare (anche se qualche volta – sia chiaro – lo faccio), preferisco chiacchierare al bar con i lettori! Chiamiamole “public relations”, per dargli una seppur minima dignità. Non a caso le curavo anche per l’intera Factory, scrivendo i comunicati stampa, gestendo i rapporti con la distribuzione (che prese in mano Luca quando io andai via) e con i “colleghi” della carta stampata per articoli, recensioni e/o menate di ‘sto tipo.
Alla fine di ogni fiera si contavano le copie vendute, si contava l’incasso e si divideva proporzionalmente alle “quote” che ognuno di noi aveva messo nel proprio albo o in quello di altri. Una pazzia, per l’appunto.
Come nacque Katzyvari e cosa significo’ per te?
Katz fu un’esperienza bellissima, di grande insegnamento (anche perché in pratica era la prima rivista che realizzai). Nata nei corridoi dell’Accademia di Belle Arti di Via Ripetta, a Roma (“Ripetta rossa non si tocca“!), dove incrociavo la strada di David “Diavù” Vecchiato e Paolo “Ottokin” Campana, era piena di fumetti, di arte, di politica, di musica, di vero e proprio cattivo gusto. Completamente impaginata “a mano”, veniva realizzata quasi sempre di notte, visto che un benefattore tanto pazzo quanto mecenate ci diede le chiavi della sua redazione che potevamo usare a nostro piacimento quando lui aveva finito il suo lavoro quotidiano. Per fare “Katzyvari” aprimmo una casa editrice – le Edizioni Inca – con tanto di capitale sociale (di 4 milioni di lire) e partita IVA, perché la cosa incredibile fu che la portammo in edicola a livello nazionale. Una cosa assurda, pensata oggi: da incoscienti!
Fu comunque grazie a questo magazine che imparai a “sporcarmi le mani” tra fotolito e tipografie, apprendendo direttamente sul campo come si facesse un menabo’, un timone, l’impaginazione, le pellicole, etc. etc… scoprendo i meccanismi perversi che regolano un contratto con un distributore da edicola (praticamente uno strozzino)… e scoprendo anche un paio di cosucce sui rapporti umani quando ci sono soldi o ambizione di mezzo, altro che “ideali” di sinistra e rivoluzioni editoriali!!!
A “Katzyvari” seguì la più matura Tribù (con l’uscita di Chericoni e l’entrata di Maurizio Ribichini e Sandro Staffa), che a sua volta porto’ la scissione del gruppo. Diavù con i suoi “nuovi amichetti” approdo’ in Magic Press per fare Tank Girl Alternative Magazine (in pratica lo stesso identico progetto di “Tribù”, ma con i soldi della Magic sotto al culo, e con i diritti dei personaggi stranieri come la tipaccia di Jamie Hewlett che dava il nome al magazine). Io e Ottokin prendevamo invece un’altra strada, che – oltre a consolidare l’amicizia – da lì a breve sarebbe diventata Liska Prod.
Cos’é invece la Liska Prod?
é il mio brand, che deriva direttamente dalla lisca di pesce sul petto del Massacratore. Una volta partita la serie personale del mio personaggio, dovevo necessariamente aprire un’etichetta con la quale pubblicare le mie cose. Ottokin si trovo’ quasi per forza a “farne parte”, in un certo senso, dato che è sempre stato il suo grafico ufficiale; non esiste produzione LISKA Prod dove non appaia la sua firma.Con la LISKA Prod ho pubblicato i fumetti del Massacratore, di Virgo e di B-Boyz, ma con il suo bel loghetto è sempre apparsa anche in veste di “studio grafico/creativo” all’interno dei progetti su cui lavoravo per conto terzi (all’interno di libri e CD, del mensile BIZ Hip Hop magazine della Magic Press, o adesso nella nuova serie del Massa, anche se l’editore è Bottero Edizioni).
Quali sono i tuoi rapporti oggi con gli ex componenti della Factory?
I “rapporti” sono diversi, alcuni buoni ed altri meno. Sono passati tanti anni da quella esperienza, così come sono cambiate tante cose sia nelle nostre vite private che in quelle professionali (tanto più se consideriamo che ai loro occhi io faccio un’altra professione).
Il migliore che ho sempre avuto – e che ho tuttora – è quello con Paolo “Ottokin” Campana, un vero amico con cui ho condiviso fumetti, riviste, successi, fallimenti, viaggi, emozioni (non ultima essere stato il suo testimone di matrimonio, lo scorso settembre), del quale tra poco Alta Fedeltà pubblicherà un bel libro cartonato, finalmente!
Ho un buon rapporto, sicuramente molto amichevole, con Luca Bertelé e Diego Cajelli, persone che stimo a livello artistico e umano, e con le quali in effetti non ho mai avuto problemi personali, senza scazzi di alcun tipo in tanti anni che ci conosciamo. Direi, alla romana, che “je voijo bene”!
Quello con Roberto Recchioni è invece uno strano rapporto di odio/amore, molto stimolante, basato da sempre su tanta “competizione” ma anche su tanto affetto, quantomeno da parte mia (ma credo valga anche per lui). Siano entrambi egocentrici e pieni di atteggiamenti da “primedonne”, quindi mettici nella stessa stanza ed è come mettere due galli nello stesso pollaio! Abbiamo una visione antitetica del fare fumetto e forse del concetto stesso di cosa sia il fumetto, a cominciare da tematiche di base sul suo essere prodotto artistico, culturale o commerciale; da qui l’inevitabile “conflitto” attitudinale e caratteriale (ma non professionale). Per me rimane sempre e comunque un lucido punto di riferimento e un grande esempio di tenacia e coerenza.
Con Leomacs il discorso è un po’ diverso. Leo lo adoro, sia come artista che come persona, una delle più oneste che conosca e mi dispiace pensare di non averlo mai dimostrato come avrei dovuto. Saremmo potuti essere molto amici, credo, se io non avessi fatto una serie di errori. Quindi nei suoi confronti mi sento “colpevole” di non aver creato dei presupposti migliori, e me ne rammarico. Rimane il fatto che è un grande!
Con Walter Venturi credevo ci fosse amicizia, perché è uno di quelli con cui ho condiviso più cose; invece – a differenza di quanto avviene con Rrobe – non siamo riusciti a superare certe incomprensioni, e le nostre diversità di opinioni e rispettive presunzioni (e forse qualche rancore di troppo) hanno “inquinato” il rapporto che c’era, fino ad esaurirlo. Ci siamo allontanati, e questo è quanto.
Su Marco Farinelli e Flavia Scuderi (che trovo brillante e simpatica, sia chiaro) non ho molto da dire. Tecnicamente, non eravamo amici prima, non lo siamo adesso. Quindi non c’é nessun rapporto.
Nell’editoriale pubblicato all’interno de Il Massacratore ti vesti tu dei suoi panni, avendo come obiettivo l’editoria italiana. Da cosa nasce questa rabbia?
Non è rabbia, casomai sarcasmo. Forse esageratamente cinico, ma comunque sarcasmo. Pochi giorni fa, una mia amica (e amica anche del resto della Factory) mi faceva notare che probabilmente è proprio questo eccessivo uso di esso che infastidisce. Mi sa che ha ragione!!!
In realtà non intendevo assolutamente “indossare” i panni del Massacratore che si scaglia contro l’editoria italiana, ma raccontare certe cose così come le ho vissute, in prima persona (come uno che ha avuto realmente a che fare con diversi aspetti di essa, lavorandoci dentro), con un linguaggio immediato e diretto, che poi è quello che ho sempre utilizzato. Se le cose che ho scritto possono dunque correre il rischio di essere male interpretate… bene, allora approfitto proprio di questa intervista per chiarirle!
Ho parlato della Factory, come il mio personale momento della fine. Ognuno ha preso la sua strada, ognuno ha fatto le sue scelte, tutte diverse dalla mia, ma non per questo migliori o peggiori. Solo diverse. Ho parlato di motivazioni, quelle che hanno spinto me sin dall’inizio, quelle che mi sono rimaste quando ho pubblicato per un grande editore (perché sarebbe stato troppo facile farne demagogia verso qualcosa che non ho mai vissuto in prima persona), quelle che mi sono rimaste dopo. Anche ora.
Ho parlato di questo colorato mondo del fumetto italiano, che personalmente mi deprime, con il suo provincialismo che non riesce proprio a scrollarsi di dosso, con i suoi rapporti clientelari, con le sue misere guerre a “chi conta di più” (e quindi a chi se la tira di più), con le sue piccole nicchie di potere, con i suoi circoli chiusi. Quindi anche di chi fa il ruffiano per farne parte, e di chi – arrivato dove voleva arrivare – crea gli stessi circoli che detestava quando ne era escluso.
Ho parlato di editori, ma – sia chiaro – senza criticare chi lavora per loro, dato che sarebbe impossibile lavorare nel settore senza lavorare per loro. Le mie parole erano casomai rivolte alla politica del “con noi o contro di noi”, tipica della Play Press per esempio (nel senso che quantomeno per loro è esplicito, altri fanno la stessa cosa ma la nascondono dietro tante belle parole); va tutto bene fin tanto che si lavora insieme, dopodiché fuori dalle palle!!! Una cosa sperimentata più di una volta, nonostante una certa ipocrisia di fondo faccia ancora passare per “buoni” certi rapporti.
Ho parlato di opportunismo, quello che certi individui adottano sempre nelle relazioni che creano, quello necessario per poter usare al meglio le persone e i loro eventuali talenti… una cosa che mi è sempre stata sul cazzo, dato che tutto ciò che ho mai fatto e raggiunto (se sia poco o tanto lo giudichino altri) non è MAI passato sulla pelle di qualcun altro, ed è qualcosa di cui vado fiero, qualcosa che – tuttora – mi permette di guardare dritto negli occhi chiunque incontro ad una fiera.
Ho parlato anche di amore, tra l’altro.
E – ad un certo punto – anche di resa. Quindi forse più che “rabbia”, si trattava di vera e propria delusione. Che lì per lì, non posso negarlo, l’ha avuta vinta. Poi pero’ il tempo guarisce ogni ferita, ci si rialza e si ricomincia. Forse con qualche cicatrice in più (ecco perché ci si corazza di cinismo), ma proprio per questo più forti di prima.
Hai letto sul forum di Roberto Recchionicome ha raccontato la sua esperienza nella Factory. Cosa ne pensi?
Penso che in linea di massima Roberto abbia raccontato molto bene quella storia. è ovvio che ci sono dei punti in cui la nostra visione dei fatti non coincide, ma credo dipenda solo dal fatto che la memoria tende a radicare i propri ricordi (che in quanto tali sarebbero soggettivi) rendendoli nel tempo dati certi, come qualcosa di “oggettivo”.
Comunque Roberto prima di ogni altra cosa scrive bene.
In secondo luogo, stavolta è stato decisamente leale (e in buona fede).
E poi l’idea stessa di quel topic è un vero colpo d’autore!
Ecco cosa penso.
Il premio Attilio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura è stato vinto al Comicon da “Una lacrima sul viso”, un’autoproduzione. Cosa ne pensi, anche viste le tue affermazioni sull’autoproduzione ragionata?
Quel volume l’ho acquistato ma devo ancora leggerlo. Quindi non posso ancora rispondere circa il suo valore, ma sono certamente contento (soprattutto per loro) che abbiano vinto un premio del genere.
Sono inoltre contento che lo abbia vinto un’autoproduzione. Infatti nel mio redazionale, sia chiaro, io non attaccavo autoproduzioni ragionate, che anzi hanno tutto il merito di essere tali. Cercavo piuttosto di spiegare quali motivazioni ci possono essere dietro alla scelta dell’autoproduzione, con diverse “ragioni” del tipo:
1) Mi autoproduco perché sento la necessità di raccontare in maniera libera le mie storie.
2) Mi autoproduco per presentare i miei lavori stampati, in cerca di visibilità e di un potenziale editore.
3) Mi autoproduco perché altrimenti non mi pubblica nessuno.
Come dire che dietro ad un’autoproduzione “ragionata” possono esserci motivi molto diversi tra loro, e – nel caso del pezzo che ho scritto – anche in Factory ognuno aveva i suoi.
Non solo: da parte dell’editoria indipendente, mi piace che ci sia una strategia “ragionata” come quella de I Cani, alla luce dei fatti migliore di quella che abbiamo avuto noi.
In quindici anni hai avuto modo di osservare il mercato del fumetto dall’esterno. Credi che sia cambiato qualcosa? Un giovane che vuole entrare in questo mercato deve ancora, cito testualmente, “leccare il culo” per poter lavorare?
So di dire una cosa assai impopolare, ma lo credo ancora. Se da un lato, è vero, sono cambiate molte cose e con esse anche molte dinamiche per approcciarsi a questo lavoro, dall’altro mi capita ancora oggi di vedere con i miei occhi gente che passa un’intera fiera a “leccare il culo” ad un Tito Faraci (tanto per dirne uno, ma è solo uno tra i tanti) perché da lui cerca o vuole qualcosa, perché curare certe “relazioni” fa sempre comodo, quindi guai a contraddire certe figure sacre del settore, the untouchables, ma casomai tutti pronti ad innalzare piedistalli!
Sia chiaro: questa cosa non riguarda solo il fumetto, ma si ripete esattamente in ogni altro settore, in ogni altra nicchia, in ogni altro ambiente lavorativo, che sia quello di una casa discografica o di uno studio televisivo! Quindi fondamentalmente si tratta di una scelta che deve fare autonomamente il giovane che vuole entrare in questo mercato, sempre che sia proprio quello a interessargli (a me per esempio interessa fare fumetti, non “entrare nel mercato”). Ecco: un atteggiamento radicale come il mio aprirà sempre poche porte, mentre tanto più un autore è disposto al compromesso (leccate di culo comprese) quanto più quelle porte aumenteranno di quantità e di misura. Non è automatico, ovviamente: si tratta pur sempre di possibilità, che in teoria – prima di ogni altra cosa – si dovrebbero basare sul talento. Ma si tratta anche di scelte, che, in quanto tali, sono assolutamente personali ed insindacabili. Ognuno faccia la sua.
Parli spesso di “motivazioni” nel tuo editoriale. Com’é che ti sono mancate?
Mi sono venute a mancare nel momento in cui capivo che il mio modo di vedere il fumetto non coincideva con il mercato.
A me non interessa fare “l’impiegato del fumetto”, perché ogni scelta professionale che ho fatto nella mia vita (a volte pagandole anche care) si è sempre basata sulla libertà creativa che quel determinato lavoro mi avrebbe lasciato o meno. Questo – riportato nel fumetto – significa che non ho voglia di scrivere o disegnare storie e/o personaggi di altri, non ho voglia di “adattare” il mio stile a favore delle esigenze che magari richiede una serie, ma voglio lavorare sulle mie idee.
Ho un concetto probabilmente anacronistico della figura dell’autore, forse bloccato agli anni ’70/’80 (Pazienza su tutti) dove su riviste come Frigidaire gli autori raccontavano le proprie cose, utilizzavano i propri stili, pubblicavano le proprie sperimentazioni artistiche. La mia è ancora una visone romantica, in un certo senso. E proprio per questo fuori tempo, lo so. Oggi devi tenere conto del formato, della serialità, della continuità, ci deve essere un’intera squadra che produce: chi scrive il soggetto, chi la sceneggiatura, chi i dialoghi, chi fa le matite, chi le chine, chi addirittura gli sfondi, chi colora, chi fa il lettering, etc. etc… è una catena di montaggio adeguata al tempo e alle necessità del mercato, ne sono cosciente. Ma rimane il fatto che non mi interessa, a costo di esserne tagliato fuori (come in effetti è successo).
Preso atto di questo, nel ’98 ho capito che non avrei potuto “vivere di fumetto” con questa mia concezione (anacronistica) di esso, e investii il talento che ritenevo di avere in altri settori creativi.
Il bello di questa scelta è che oggi sono proprio certi livelli di serenità (anche economica) raggiunti con i lavori extra-fumetto che – per paradosso – mi possono permettere di fare fumetti come dico io, proprio perché non mi devo mantenere con essi. Quindi possono essere il mio lato più libero.
Proprio come volevo che fosse.
Credi che i tuoi ex colleghi le abbiano ancora (le motivazioni) o continuino a scrivere comunque?
Non è che io lo creda: sono CERTO che le abbiano ancora!
Di fatto, ho affermato che magari le nostre motivazioni erano “differenti”, non che non ne avessero, o che gli fossero venute a mancare. E alzo il tiro: da un punto di vista fumettistico/professionale, le loro in qualche modo erano probabilmente migliori delle mie, visti i risultati. Sono in Bonelli, in Disney, in Eura, in Astorina: sono autori affermati e il loro operato gode di ottimi riscontri sia di pubblico che di critica. è quello che cercavo di spiegare, cioé che sono arrivati proprio dove volevano. Quindi – suppongo – sia appagati che motivati, no?
Parlami del tuo rapporto con Alessandro Bottero.
Conobbi Alessandro a Lucca, circa quattordici anni fa. Lui era l’editor di una serie di testate storiche della Play Press, io – non ancora “pro” – ero un appassionato. Con Chericoni e Spinelli, gli regalammo una copia della nostra fanza a fumetti “Buona la prima”. Credo che ci prese subito in simpatia. Fatto stà che nel numero seguente di American Heroes (che io seguivo con passione) segnalo’ la nostra piccola produzione. In pratica quella fu la mia prima recensione!Nell’arco degli anni ’90 io cominciai a farmi notare con il Massacratore, lui dietro le quinte, discretamente, seguiva il mio percorso professionale, fino alla miniserie Il Massacratore & Virgo con la Play Press (ed ecco che ci ritrovavamo “colleghi”) e fino alla Factory. Presumo abbia sempre letto (ed apprezzato, mi auguro) le mie storie, ma la cosa più importante è che in tutti questi anni c’é sempre stato un bel rapporto, e che – magari anche vedendoci poco, solo alle fiere – si è sempre trovato il tempo per quattro chiacchiere. Insomma, c’é sempre stata una continuità di dialogo amichevole e pacifico, basato sulla stima.
Così come all’ultima Lucca Comics dello scorso novembre, dove chiacchierando – quasi per caso – è venuto fuori che entro la Comicon di Napoli avrei voluto pubblicare nuovamente il Massacratore, autoproducendolo oppure facendolo per un editore che mi lasciasse la completa libertà sui fumetti, sui contenuti, sulla grafica. E lui con molta tranquillità: “A me interesserebbe“…
In effetti aveva appena fatto un paio di belle cose con Killer Elite e con X-Novo, quindi – una volta chiarito il discorso sulla libertà creativa – siamo facilmente arrivati a un’intesa che soddisfasse lui come editore (con un bel titolo nel suo catalogo) e me come autore (con le strutture tipografiche e distributive delle sue edizioni, già ben avviate).
Il resto è una sfida ancora tutta da scoprire.
Abbiamo letto finalmente l’originale storia del Massacratore conto il Papa Giovanni Paolo II. Cosa ti ha spinto a scrivere qualcosa di “diverso”?
I motivi li ho spiegati proprio nell’albo. Nonostante fossi tutt’altro che innamorato della Chiesa Cattolica, a me Papa Wojtyla piaceva già nel ’93 (nel senso che lo ammiravo ben prima che morisse, perché oggi sembra che lo abbiano amato tutti, sia cristiani che non) per le sue posizioni “politiche” molto decise verso certi governi e soprattutto verso gli Stati Uniti e l’ONU, posizioni che il nostro stesso governo avrebbe paura di prendere. Disegnai quindi questa storia (se così si può chiamare, visto che all’epoca il Massacratore era una doppia tavola a colori) in cui il Massa veniva paragonato ad Attila, in un gioco di rimando con cui allineavo la stessa forza di devastazione e la stessa crudeltà, che pero’ veniva fermato dal Papa, esattamente come Attila fu fermato – prima di conquistare Roma – da Papa Leone, senza che nessun libro di storia riporti le parole che si sono detti. Insomma: uno dei protagonisti più sanguinari della Storia dell’uomo fu fermato sulle rive del Mincio dalle sole parole del Santo Padre, un fatto in qualche modo misterioso ed affascinante, quindi l’escamotage era quello… Papa Wojtyla fermava – per la prima volta – il Massacratore, senza che il lettore sapesse con quali parole.
Ho raccontato che la mia proposta fu bocciata dal resto della redazione, dato che il Massa non poteva essere fermato, ma a quel punto preferii non disegnarla io. Lo fece David Vecchiato, a modo suo. Ma tutt’oggi penso che la mia storia sia decisamente superiore.
Gli obiettivi del Massacratore sono decisi dai lettori. Chi metteresti pero’ tu davanti alla canna del suo fucile?
A parte il fatto che gli obiettivi del Massacratore erano decisi dai lettori, la mia lista dei personaggi “da massacrare” sarebbe troppo lunga ora da scrivere per intero. è ovvio che ci sarebbero una serie di persone della televisione, della politica o del costume italiano che ucciderei molto volentieri (sulla carta), ma quel cliché è comunque superato.
Senza tener conto che poi, anche una volta uccisi nel mio fumetto, quelli nella realtà sarebbero ancora lì a sorriderci dalla tivù, ospitati da Vespa o da Costanzo. Brrr, rabbrividiamo!
Il mio obiettivo ora sono i concetti, come dicevo poco fa. Voglio raccontare storie dove il Massacratore è un “mezzo” per affrontare certi temi, nel tentativo di fotografare la società che ci circonda, se necessario dissacrandone le infrastrutture, facendone sarcasmo, scoperchiandone l’ipocrisia. Il sapore sociale/politico del mio personaggio non deve mai mancare, è parte della sua stessa forza, ed è (ecco il punto) qualcosa che non potrei mai fare all’interno delle serie a fumetti attualmente pubblicate in Italia.
Quale sarà adesso la vita editoriale del Massacratore? Hai intenzione di dedicarti anche ad altro, fumettisticamente parlando?
Dunque: prima di tutto va detto che il Massacratore sarà una serie regolare (dato che in parecchi me lo hanno chiesto anche alla recente Comicon di Napoli). Uscirà due volte all’anno, in primavera e in autunno (come le collezioni dell’azienda di abbigliamento femminile per cui lavoro, accidenti!) in concomitanza con la Comicon e con Lucca Comics. Si parla anche di tre “balenotteri” speciali (il primo dei quali già a Lucca?) che raccolgano tutta la prima serie riveduta & corretta per l’occasione, a cominciare dal lettering che era grossolanamente fatto a mano.
Per quanto riguarda “altro” non saprei proprio cosa dire. Visti certi presupposti (sottolineati nelle risposte precedenti) sarebbe molto difficile – per me – poter lavorare su altre cose e con altri editori. Sono pienamente consapevole di essere già fuori da certe dinamiche di questo ambiente; sono poco interessato a quanto attualmente propone il panorama italiano ad un autore in termini di lavoro, così come penso di essere io stesso “poco interessante” agli occhi della maggior parte dell’editoria di settore.
Ciononostante sto lavorando ad un paio di cose (brevi) che vorrei presentare l’una ad Alta Fedeltà e l’altra alla Free Books, ma ho già messo in conto che potrebbe darsi che non gliene importi niente!
Che cosa leggi tra quello che viene pubblicato oggi nell’editoria fumettistica italiana? Qualcosa tra le nuove pubblicazioni degli ex componenti della Factory?
Se teniamo conto che non leggo niente della Bonelli e della Eura (ho letto Nathan Never fino al numero 98, poi mi ha stufato e ho smesso di seguirlo), che non leggo Diabolik e che non reggo nessun’altra serie con questi formati, si può ben capire che – da lettore – non incrocio spesso le strade dei miei ex soci. Pero’ qualche volta capita, per esempio grazie al volume annuale di Alta Fedeltà, o a qualche bel libro/raccolta come Pulp Stories o Alta crimanalità della Einaudi (o come il n 21 di John Doe, che ho acquistato e letto in un momento molto particolare). A livello di “serie regolare italiana” credo che l’unica che stia seguendo è la ristampa integrale del Ken Parker che sta facendo la Panini (ma questa è un’altra storia); per contro, spesso mi prendo le piccole produzioni indipendenti, tanto per tenere sempre d’occhio la situazione.
Compro invece in dose massiccia i libri e i volumi (anche quando hanno prezzi molto alti), ma nello stesso identico modo e/o frequenza con cui li compro francesi, statunitensi o sudamericani. In pratica, non è mai la nazionalità di una storia o di un autore che mi fa scegliere cosa acquistare, piuttosto lo stile di scrittura o la qualità del disegno, che tanto più è innovativo (guardo sempre il suo “senso grafico”) quanto più mi attira. Da questo punto di vista, non mi hanno mai interessato i disegnatori bravi in senso ultra-realistico, ultra-rifinito, tecnicamente impeccabili ma freddi quanto può esserlo la perfezione, che sembra disegnino solo per dimostrare quanto sono capaci con l’anatomia o la prospettiva, ma alla fine – per me – hanno lo stesso valore di una fotocopiatrice Xerox.
Riferimenti
Bottero Edizioni: www.botteroedizioni.it
Flower Of Carnage, il forum di Roberto Recchioni: www.forumcommunity.net/?f=236072″
FACT!!, i fatti della Factory: www.forumcommunity.net/?t=2586639>