Lavennder: un thriller assolato dai pochi brividi

Lavennder: un thriller assolato dai pochi brividi

L'esordio di Giacomo Bevilacqua per Sergio Bonelli Editore è una storia di genere con (poche) variazioni sul tema che scommette tutto o quasi sul finale.

 “Sembra un film per la televisione
Era questo il commento che un mio amico, appassionato e poi studioso di cinema, pronunciava quando un film a suo giudizio si avvicinava troppo alla grammatica televisiva e troppo poco a quella cinematografica.

Spesso (probabilmente spessissimo) l’accezione con cui pronunciava la frase era negativa, perché a suo dire, in questo modo si appiattiva un linguaggio sulle modalità espressive di un altro, scegliendo la via dell’omologazione per rendere il prodotto più digeribile e quindi vendibile.

Confesso che all’epoca avevo il dubbio che si trattasse di una critica molto, forse troppo severa, figlia dell’abitudine alla visione di film molto impegnativi o vecchi anche di cinquant’anni e quindi necessariamente diversi per ritmo, tenore della recitazione, registro.

Di contro, ero consapevole che a parlare fosse una persona con una preparazione che io non avevo, padrona di uno sguardo clinico capace di decifrare inquadrature e sequenze, che gli consentiva di interpretare quanto stava vedendo andando oltre la semplice fruizione estetica. Anni dopo mi sono ritrovato a pensare la stessa cosa, leggendo lo speciale 2017 de Le Storie firmato da Giacomo Bevilacqua, Lavennder, e ho finalmente capito – credo – che cosa intendesse davvero il mio amico.

Siamo da tempo abituati ai riferimenti cinematografici nel fumetto, basti citare i soliti Dylan Dog di Sclavi e Ken Parker di Berardi e Milazzo per dimostrare come il cinema si sia insinuato nel media fumetto, contaminando sia il contenuto che il contenitore. È il frutto spontaneo di una progressiva evoluzione degli stili narrativi, condizionati inevitabilmente anche dalla formazione culturale degli autori, sempre più fruitori di prodotti cinematografici e serial televisivi, non di rado a loro volta ispirati al fumetto.
Quello che però si avverte nel lavoro dell’autore di Metamorphosis , è una matrice forte al punto da essere eccessiva e condizionare a tratti l’esperienza di lettura.

Un inizio da manuale

L’inizio è davvero di quelli da manuale del film horror/thriller: una giovane, spensierata coppia arriva su di una splendida isola deserta della quale saranno i padroni per ben undici giorni, a meno che non vogliano tornare a casa prima. Tutto condito da un paio di inquadrature e una frase un po’ ambigua, elementi utili a insinuare qualche dubbio e stimolare l’interesse del lettore.

Un incipit che accomuna decine di film, racconti e romanzi di genere e che l’autore, in maniera evidente e consapevole, sviluppa rispettando alla lettera un ipotetico decalogo: in una manciata di battute poco originali veniamo a conoscenza di alcuni dettagli che si immagina saranno centrali più avanti, come che i telefoni non hanno campo e l’unico strumento di comunicazione è un cellulare satellitare, e che entrambi sono decisi a dimenticarsi dei problemi quotidiani e godere con totale spensieratezza di quel “paradiso”.

Con queste premesse la situazione non può che complicarsi e infatti i due hanno appena cominciato le prime schermaglie amorose, che già dalla foresta provengono dei fruscii sinistri e mentre la coppia compie uno degli errori più gravi che si possano fare in una storia horror – ovvero dedicarsi alle effusioni amorose – una bella tavola che potrebbe essere la locandina di un film mostra qualcosa di poco rassicurante.

È evidente a questo punto come l’autore giochi a carte scoperte: siamo davanti a una storia di genere e l’interesse sta nel vedere come questa verrà raccontata e che tipo di colpi di scena ci aspettano, se le nostre aspettative verranno confermate o se invece ci sarà un ribaltamento totale, una brusca sterzata che risolva, magari in maniera comica, una vicenda che finora ha rispettato tutti i cliché del genere.

Niente di nuovo sotto il (tanto) sole

Ciò che segue invece sono pagine ben disegnate (su questo torneremo più avanti) nelle quali la giovane coppia spensierata resta tale nonostante i segnali che qualcosa non va sull’isola si facciano ben più che concreti: niente sembra traumatizzare eccessivamente i due che superano momenti anche molto difficili con un paio di battute e si scrollano di dosso una brutta avventura preparando una bella cenetta e leggendo un libro (e che libro) sulla spiaggia.

È questa la parte in cui la storia, invece di far germogliare i semi sin qui piantati, procede per sequenze che reiterano la stessa situazione già vista in precedenza, ovvero quella del manifestarsi di una crisi che però non deflagra mai e che, una volta conclusa, vede ripristinato in maniera poco credibile il precedente status quo, restituendo lui al ruolo del guascone un po’ stupidotto e lei a quello della ragazza giudiziosa e procace.

Questo andamento ripetitivo pare, pagina dopo pagina, soddisfare la semplice esigenza di posporre il più possibile la scoperta della vera natura della minaccia, rimandando a quel momento la climax narrativa ed emotiva della storia.


Nel frattempo ci vengono offerti tasselli di racconto, piccoli indizi e brividi fugaci che, come da copione, avrebbero il compito di accrescere la tensione in attesa dal gran finale, ma che sono invece disinnescati dalla meccanicità con cui si susseguono.

Non giova poi la sostanziale fissità dei due protagonisti, privi di sfaccettature e perfetti cloni dei personaggi delle pellicole di genere, quelli femminili omaggiati anche nella tradizionale propensione a sfoggiare le proprie generose forme.
Incostanti e in qualche misura anche incoerenti nelle reazioni, più che volubili volatili per la capacità di passare nell’arco di due vignette dalla preoccupazione alla serenità, continuano oltretutto a commettere errori imperdonabili in una storia di questo genere, come dividersi.

E luce sia

Se i dialoghi e la caratterizzazione dei personaggi non sono un dei punti di forza della storia, un discorso a parte meritano le tavole disegnate e colorate da Bevilacqua, il cui segno sembra una riuscita miscela tra scuola italiana e giapponese per via di elementi grafici che ogni tanto fanno capolino.

Il tratto è asciutto e sottile, piuttosto sintetico e pensato per lasciare al colore il compito di definire ombreggiature e volumetrie. Un po’ incostante nella raffigurazione dei protagonisti, con alcuni primi piani incerti (pagina 8, 25) e non particolarmente espressivi, a fronte di vignette in cui il personaggio è ritratto con maggior cura e comunicatività (pagina 51).
Grande invece l’attenzione agli sfondi e impressionante il lavoro di colorazione che interessa ogni singola pagina, con una resa delle luci davvero elaborata e certosina.

La scelta delle inquadrature e la ripartizione della tavola sono piuttosto tradizionali ed efficaci, rare e strategiche le illustrazioni che occupano buona parte o tutta la pagina, mentre sono frequenti le tavole in cui tre vignette orizzontali, mute, segnano il passaggio del tempo e fungono da cesura di una sequenza.
Un elemento che ricorre soprattutto nella prima parte e che l’autore intelligentemente a un certo punto sovverte (siamo a pagina 49), riuscendo a enfatizzare la tensione del racconto. Merita una citazione inoltre la sequenza “subacquea”, per la capacità della colorazione di replicare in maniera davvero suggestiva i cromatismi e i baluginii prodotti dal sole sul fondale.


Senza parole

Proprio le sei pagine in cui si svolge l’avventura subacquea dei due costituiscono uno dei momenti migliori della storia, non solo per l’alta qualità delle illustrazioni ma anche per la loro efficacia narrativa: inquadrature, mimica dei volti, ritmo, funziona praticamente tutto in questa breve sequenza.

E lo stesso accade nel finale, quando la vicenda, che si è mossa in maniera un po’ sorniona, accelera in maniera decisa. Nell’ultima manciata di pagine l’autore decide di escludere quasi totalmente il testo e lasciare al disegno il compito di raccontare il tanto sospirato finale. E lo fa esprimendo un tratto meno attento alla correttezza formale, e proprio per questo più evocativo e drammatico.

L’accantonamento dei dialoghi è indubbiamente una scelta felice perché, oltre a velocizzare la lettura, elimina quel senso di artefatto che in numerose occasioni sottraeva genuinità al racconto. Svanisce l’impressione di assistere a una messa in scena e finalmente si avverte la tensione che era mancata per buona parte della lettura, con vignette in cui il colore diventa decisivo e i primi piani testimoniano un’angoscia che finora era stata espressa a parole da battute poco convincenti.

Scopriamo finalmente anche cosa nasconde l’isola, sempre che gli indizi nemmeno troppo nascosti non abbiano già fatto capire al lettore di chi si tratta, ma anche qui non c’è tempo per considerazioni postume, morali o spiegazioni. Giusto il tempo per un ultimo, muto, piano sequenza organizzato in cui una serie di istantanee e uno zoom finale.

A lettura ultimata resta la sensazione di una storia piacevole ma che si consuma e si apprezza soprattutto nelle ultime pagine, animata da un lungo e poco avvincente prologo in cui la forma colpisce più di un contenuto che non riesce a superare i modelli a cui a fa riferimento, per quanto riguarda  protagonisti, situazioni tipiche, dialoghi.

Perfino la scelta delle inquadrature, molto composta per quanto corretta, sembra studiata avendo in mente un modello cinematografico, ma senza offrire variazioni o elaborazioni personali importanti capaci di assorbire davvero l’attenzione del lettore e sottrarre la narrazione al rischio di cadere nella standardizzazione della messa in scena.

Abbiamo parlato di:
Lavennder
Giacomo Bevilacqua
Sergio Bonelli Editore, luglio 2017
128 pagine, brossurato, colori – 6,30 €
ISSN: 977228446500470004

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