5 è il numero perfetto

5 è il numero perfetto

Se sei un killer della camorra sai benissimo di non essere destinato a vivere a lungo. Una questione puramente statistica, oseremmo dire: una pallottola di striscio, un piede in fallo, un poliziotto con la mira per caso a fuoco, un tradimento

Capitolo uno: Lacreme Napulitane

La copertina del volumeLacrime napoletane, come il titolo della canzone il cui testo, scritto da Libero Bovio nel 1925, parla di un emigrante, fra i tantissimi, costretto a star lontano dai suoi cari, che non può vedere il cielo di Napoli. Dal testo della canzone leggiamo: “[…] Pé nuje ca ce chiagnimmo ‘o cielo ‘e Napule… […] che só, che só ‘e denare? Pé chi se chiagne ‘a Patria, nun só niente! […]”. Lacrime dovute al solo dover stare lontani dal cielo azzurro ”per antonomasia” della capitale partenopea. Lacrime, come quelle di dolore che versa Giuseppe Lo Cicero, ma anche come quelle di gioia che versa Nino Lo Cicero nel ricevere il regalo del suo compleanno. Lo Cicero, un nome meridionale che non nasconde neanche per un momento il collegamento a doppia mandata con l’Impero Romano. Ma Napoli, dopo l’Impero Romano, ne ha visti passare tanti di Re e Imperatori, tanti ne ha fatti Re dalla strada ed altrettanti ne ha buttati in mezzo ad una strada proprio quando erano diventati Re. Anche tanti sono stati i pizzichi che si è dovuta dare sulla pancia e tante lacrime ha dovuto versare. Lacrime, come quelle che il cielo manda giù con una coerenza impressionante per tutto il volume. Sempre Libero Bovio diceva: “A Napoli il successo dura un’ora, l’insuccesso dura una vita” . Un albo, quello di Igort, che, grazie all’effetto acquerellato del grigio, ti lascia l’impressione che sia stato davvero bagnato da un po’ di tutta quella pioggia che è caduta giù dalla tavola nove in poi…

Napoli, 1972. Giuseppe Lo Cicero, per gli amici Peppino (o semplicemente Peppì, eliminando l’ultima sillaba come nella migliore tradizione napoletana), nella sua vita ha ucciso, e tanto, per la camorra. Ora si è tirato fuori da questo lavoro, se così possiamo chiamarlo, ma non sempre è così facile uscirne puliti. Vive in una villetta lontana dalla città, Napule (come scritto sui segnali stradali) distrutto dalla perdita dell’amata moglie. Flashback, 1949, Immacolata, vittima predestinata di uno dei suoi “incarichi”, viene risparmiata perché il guappo, incaricato di ucciderla, se ne innamora a prima vista; non un incontro propriamente romantico, fra i cadaveri dell’intera famiglia di Immacolata, ma comunque l’inizio della loro vita insieme. Oggi, dopo poco più di venti anni Peppino ammette di trovarsi in un’altra epoca; Paolo Conte (chansonnier astigiano trapiantato per molti anni a Parigi, al pari del cartoonist Igort) rimpiange i tempi andati, guardandoli dietro il fumo della sua sigaretta nella canzone “Boogie” (1981), narrando in versi che “era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti”. Per Igort quelli del 1949 “erano bei tempi. Si uccideva secondo le regole allora, quelle di una guapparia ormai superata. Non è più così ora (e torniamo al presente del volume, il 1972) e sarà ancora differente dopo (parliamo di oggi, 2005).

L’autore vuole descriverci un mondo sorpassato, come il protagonista della storia: superato dalle nuove generazioni ed ormai così incredibilmente distante nel tempo: siamo nel nuovo millennio e i principi sui quali si basa la morale del “cattivo” Lo Cicero sembrano stonati e fasulli. Ad Igort piace sottolineare anche graficamente che può esistere, ed effettivamente esiste, un tono di grigio in tutte le cose della vita. Peppino ha deciso di piantarla con gli omicidi, sta a casa, un po’ lontano da quel cielo di Napule di cui parlavamo prima, va a pesca, confeziona camice e prepara da mangiare al figlio Nino. Anche Nino di professione è un sicario della camorra. Killer, come il padre, che si prende cura di lui e la sera prima del suo (ultimo) incarico, gli regala la pistola, l’arma più bella, quella che Nino desiderava tanto. La strada per raggiungere il suo “lavoro” è bagnata dalla pioggia e sembra non finire mai; Napoli è città di mare, ma in questo caso l’acqua viene anche e soprattutto dall’alto. Solo che a Napoli piove raramente, ma quando succede è un macello: le strade si allagano perché i tombini sono pieni di rifiuti secchi. Piovesse di più non si otturerebbero, ma non sarebbe più “o Paese d’o Sole” (sempre testo di Libero Bovio, 1925). Le strade sono davvero sgarrupate e dissestate, l’acqua delle prime piogge di stagione le fa marcire e nel volgere di un batter d’occhio se ne scendono a pezzi sottoterra. Non è un modo di dire: se ne scendono davvero, fisicamente, perché sotto di esse non c’è nulla: quella che ti sembra una pozzanghera scoprirai essere un pozzo, perché sotto la città di Napule c’è un’altra, altrettanto grande, fatta di cunicoli e grotte, spesso di origine romana o preromana. Ma il viaggio di Nino, sotto l’acqua e sulle strade melmose, che lo porta fino al centro di Napoli è l’ultimo della sua vita: è stato tradito e muore per mano della sua vittima, che tale non sarà.

Nino commette l’errore fatale, quello che potremmo definire “da fumetto”, inteso nel più dispregiativo dei modi possibili: si ferma a parlare con quella che dovrebbe essere la sua vittima, cadendo nell’ingenuità che commettono i personaggi dei comics anni ’60 quando iniziano a dialogare con i propri prigionieri invece di ucciderli e farla finita (lasciando loro il tempo di sciogliere le corde e liberarsi). Sconvolto in realtà più dalla propria esistenza sbagliata che dall’interpretazione del suo sogno data dal Mister Ics (al quale deve togliere la vita), Nino muore. Ora, chi lo ha tradito, deve occuparsi anche del padre ex-killer, per concludere il lavoro.

5-1Capitolo due: La Settimana Enigmatica

Enigmatica invece di enigmistica; come uno dei mille giochi di parole utilizzati da Totò per cuffiare (prendere in giro) il prossimo. Salti di consonanti, cambi di vocali, e le parole diventano contrari assonanti nei quali è facile perdersi, nella semplice comicità dell’opposto, fra topi, toponomastica, topicidi ecc..

Siamo sempre nel 1972: Peppino Lo Cicero, ignaro di quanto successo, la mattina dopo l’omicidio del figlio ha una visione mentre pesca. Gli appare, in cielo, la Madonna; o meglio, crede di aver visto un’immagine bianca che usciva dal mare. Impaurito scappa e si salva uccidendo i sicari che gli stavano tendendo un agguato; ora, a distanza di tanti anni, è di nuovo un essere senza cuore, senza legami e senza umanità. L’apparizione che scuote Peppino dal suo pescare viene vista come volontà della Madre Santa di avvisare l’ex killer dell’incombente pericolo; non è un caso, questo. Gli uomini di camorra o mafia, i cosiddetti Mammasantissima, hanno da sempre coltivato un culto fideistico strano e fortissimo nei confronti dei Santi e della Vergine Maria. Ed è un vero e proprio paradosso; il camorrista per eccellenza, sicuro, determinato, implacabile con l’arma in pugno, è spessissimo grande uomo di fede; quella stessa fede che chiede di amare, perdonare e porgere l’altra guancia. Assassini a sangue freddo di bambini che abbassano la testa entrando in Chiesa per rispetto alla madre di Cristo, che deve proteggerli quando vanno in giro ad ammazzare. La Madonna che Peppino crede di vedere e che Igort non ci mostra nel dettaglio (ma solo come contorno di un raggio di luce) è tale e visibile nell’iconografia corrente soprattutto in alcune copertine di qualche edizione del volume, laddove viene illuminata dai fari dell’automobile di Lo Cicero.

Igort disegna, nella quintultima tavola del capitolo, l’ex-voto che il buon Peppino avrebbe dovuto portare al Santuario della Madonna; l’ex voto è, di solito, un collage o un dipinto di discutibile gusto e fattura che rappresenta l’immagine di una sciagura scongiurata da quello che si crede essere stato un intervento della Vergine che viene donato a perenne ricordo della grazia ricevuta (per grazia ricevuta – pgr). Peppino, salvo per volontà della Madre di Dio, è di nuovo preciso, sicuro, attento; passi svelti nella città che lo inghiotte di nuovo fino a raggiungere lo sgarrupato scantinato dove ci sono i suoi cimeli. La pistola, bombe, cartucce e… un fumetto di Catman. Incrocio strano, si penserà, fra camorra e supereroi a fumetti. Ma è una commistione incredibile che non deve stupirci; d’altronde, non è, e non sarà, il primo incrocio strano fra fumetto e napoletanità (non ultima la quasi intera “Te voglio bene Assaje” , canzone partenopea del 1835, cantata nel Dylan Dog n.25 “Morgana” di Sclavi e Stano).

Flashback, 1959: Peppino inizia il figlio imberbe alla cultura della morale illegalità della camorra prendendo spunto dalla natura. La Madre (come quella Madonna che piange lacrime di sangue nel primo capitolo dopo la morte di Nino, come la Madre intesa nel senso prettamente napoletano del termine, il cui figlio, anche se scarrafone è sempre bello e per la quale ‘e figlie so piezze ‘e core) di tutte le cose insegna che tutto ha un suo perché, che anche l’ape (o il delinquente) ha diritto a vivere ed ha un suo ruolo all’interno della Natura anche e soprattutto se fa del male a qualcuno, come aveva fatto l’ape al figlio Nino punto sul labbro. Tutto serve nel complesso mondo in cui viviamo, senza il nero (il cattivo) non avrebbe ragione di esistere il bianco; il delinquente è la patente che serve alla persona per bene. Quella patente che chiedeva Totò nella versione cinematografica della novella di Pirandello per essere legittimato nella sua figura di iettatore.

Abbiamo tutti bisogno di sapere (o credere di sapere) che esiste un perché che sostiene il nostro essere (delinquenti) e il nostro agire (male). Peppino lo sa che senza il bianco non può esistere il nero; ma Igort sceglie di dipingere la terza via al significato della vita, quella del suo “acqurello”, mostrando da qui alla fine come lo stesso Peppino Lo Cicero sia più di un personaggio “nero”. Sceglie, Igort, la via che fa sì che l’inchiostro scuro si sciolga nell’acqua per diventare un colore così disarmante e vario da far ricordare a tutti che questo è un albo a colori (e non in “semplice” bicromia…). Eppure nel passaggio di consegne fra Peppino e Nino qualcosa non ha funzionato. Il bambino che si appassionava ai fumetti di Catman ed ai supereroi che combattevano i delinquenti, dal padre ha ereditato solo un brutto naso ed un brutto lavoro, ma non la voglia di farlo. Nino non è mai stato il killer che era il padre e non lo sarà mai. C’era qualcosa nella spiegazione di questa “necessità” del male che non lo aveva mai convinto: Peppino aveva spiegato come le caselle nere nelle parole crociate erano utili a delimitare l’inizio e la fine della parole che si scrivono in quelle bianche… Eppure, eppure… Nino forse ha sempre continuato a fare il tifo per le caselle bianche, anche con quella pistola in mano al servizio delle caselle nere. Ora Peppino scopre che il figlio è morto e cerca rifugio dai vecchi amici, quella Rita, la maestrina, che lo aspettava ancora dopo venti anni e il vecchio compagno d’armi Salvatore.

5-3Capitolo tre: Guapparia

Ancora un titolo di una canzone (1914) i cui testi sono sempre di Libero Bovio. La canzone parla di un guappo tradito dalla propria donna che per questo motivo non si sente neanche degno di esistere. Alla fine della canzone, in un crescendo tragico e paradossale, anche i compagni del guappo si commuovono, in un democratico e socievole scambio di affetto fra uomini di onore.

Anche Peppino ora sa di essere stato tradito, e con l’amico Salvatore si reca a trovare il Don Guarino, il capo zona per il quale lavorava il figlio; i due viaggiano su un auto che è terribilmente rassomigliante al furgoncino con il quale Dudù (al secolo Armandino Girasole) si dà alla fuga con i suoi compari dopo aver realizzato il furto del tesoro di San Gennaro nel film “Operazione San Gennaro” (1966). Nel film il ladro napoletano è guappo coi baffi sottili ed i capelli impomatati come Nino, come Peppino Lo Cicero fondamentalmente assaje devoto alla Madonna ed a San Gennaro ed interpretato da un non-napoletano (il ciociaro Nino –anche lui- Manfredi) dietro la regia di un altro non-napoletano (il milanese Dino Risi): come a sottolineare che le storie di Napoli non saranno mai narrate dalle voci della sua città ma sempre da qualcuno di fuori, qualche furastiero.

Lo Cicero incontra Don Guarino, un guappo che somiglia terribilmente al Kingpin dipinto nelle tavole a fumetti dei supereroi statunitensi; ma l’incontro degenera, Peppino uccide Don Guarino a sangue freddo nella sua stessa casa e per completare l’opera spara all’impazzata facendo fuori l’intera scorta del boss. I tempi di una volta sono tornati e Peppino e Salvatore sono braccati ora sia dalla “famiglia” di Don Guarino che dalla famiglia rivale Lava; rientrano a casa di Rita in tempo per uccidere due sgherri di quest’ultima banda e catturare il nipote del boss. Salvatore è ferito, l’azione è frenetica. Subentra un medico, amico da tempo, che curerà Salvatore. Il medico, abituato a curare ferite di arma da fuoco di persone che non possono andare all’Ospedale come tutti gli altri, ha una sua filosofia spicciola che gli permette di sopravvivere in un mondo così fuori dalle norme.

Ne “Il Sindaco del Rione Sanità” di Eduardo De Filippo, il protagonista Don Antonio è un guappo d’altri tempi che, temuto e rispettato, porta la pace e risolve le questioni attraverso la sua parola e bypassa, sorpassa e rende inutile la giustizia dei tribunali; il tutto per evitare stragi ed inutili guerre fra famiglie a colpi di omicidi. Accanto a lui c’è un medico che per anni ha condiviso queste tacite regole parallele, questo antistato che funzionava meglio dello Stato; nel finale della commedia lo scatto d’orgoglio del Dottor Della Ragione (il trionfo Della Ragione?) è un rifiuto a questa logica della giustizia sommaria. Nel volume di Igort il dottore, mentre si lava le mani (fisicamente e metaforicamente) dopo aver salvato la vita a Salvatore, dichiara di credere, tutto sommato ad una giustizia universale, visto che “la mancanza di regole è un lusso che non mi posso permettere” .

Ed il guappo protagonista della vicenda, Peppino, ormai non ha più niente da perdere e fa in modo di non evitare le guerre fra famiglie, anzi, in un certo qual modo ne istiga una. Si è rifugiato a casa di Rita, come visto, e da lì imbastisce uno scambio di persone; vuole che i Lava gli consegnino l’uomo, il traditore che ha ucciso il figlio in cambio del giovane Ilario Lava. Alla donna racconta una storia della sua gioventù, dalla quale tiriamo fuori il titolo del volume scelto da Igort: 5 è il numero perfetto perché cinque è il totale che viene fuori sommando la testa e i quattro arti, ovvero le cinque estremità del corpo umano. Peppino Lo Cicero, novello uomo di Vitruvio, allarga le braccia per spiegare la storia del cugino filosofo che faceva il poliziotto e amava i piccioni; la frase è quella che sempre ripeteva spiegando che l’uomo, da solo è autosufficiente e non deve dar conto a nessuno. Storia sbagliata, così come il principio filosofico del cugino poliziotto: per rispondere male al boss del quartiere, al quale i suoi piccioni sporcavano le lenzuola, il cugino Lino venne ucciso, a dimostrazione che doveva rendere conto a qualcuno.

5-2Capitolo quattro: Il sorriso della morte

Il capitolo è simmetricamente diviso in tre parti. Nella prima Lo Cicero organizza il suo piano di battaglia per riuscire a scambiare gli ostaggi senza incorrere in brutte sorprese. Ora, a differenza di quanto accaduto in precedenza, c’è il sole a Napoli; finalmente Igort può rifare qualche panorama caratteristico della città, eppure, a ben guardare, sembra che manchi qualcosa. In effetti per le strade spazzate dal vento, e dalla passeggiata di Peppino, mancano le persone. Manca il folclore tipico delle strade, quella animosa moltitudine spesso ripresa, inutilmente, paradossalmente festante e chiassosa, laddove tanti motivi per essere felici sembrerebbero non esserci.

Nella seconda parte cambiano i toni ed i colori; il bianco accecante del riverbero del sole sulle mura delle case è diventato il nero scurissimo dell’interno di una Chiesa; Lo Cicero prega la Madonna, o meglio, le confessa di avere l’anima sporca, ma le preavvisa l’invio (all’altro mondo) di qualche cattivo, di qualche persona che ha tradito e non ha seguito la sua “linea”, il “suo destino”. Singolare leggere sulle labbra di un pluriomicida a sangue freddo parole di disprezzo per la “spazzatura” che lo circonda. Tutto è relativo, ed anche per Lo Cicero esiste un codice deontologico della malavita e chi sgarra e lo vìola contribuisce a far diventare il mondo una “chiavica”.

Ma i malavitosi che non sgarrano, contribuiscono a rendere il mondo pulito o no?
Domanda stupida perché Igort ci vuole raccontare (e lo fa molto chiaramente) la storia di Peppino, guappo dei tempi d’oro, tempi nei quali anche chi ammazzava per mestiere aveva il suo codice morale; guappo che condanna non la violenza né l’omicidio (si sente rinascere quando ritorna a sparare per uccidere), che sono considerati corollari di una vita difficile, ma in primis il tradimento. Gli spessi tratti neri di inchiostro di seguito dipingono il battesimo del fuoco di Rita in un altro scontro a fuoco fra i cattivi “buoni” e i cattivi cattivi (non c’è solo bianco e nero, vero Igort?).

Il capitolo si chiude con il momento clou del volume intero: lo scambio di prigionieri fra Lo Cicero e il vecchio boss nemico Don Lava. Il tutto avviene, in un clima rallentato e surreale, sui tetti di Napoli. Come in una tipica crime story da un lato Ilario Lava e dall’altro l’assassino del figlio di Peppino si incamminano uno verso l’altro per scambiarsi i posti: il giovane ritornerà, ferito nell’orgoglio per essere stato catturato, nel grembo della sua famiglia (camorristica) e Lo Cicero avrà l’oggetto della sua vendetta. Lo scenario è singolare: l’enorme scritta pubblicitaria (CAMPARI) è gigantesca sullo sfondo. In tutto il libro tante sono state le pagine nelle quali (sull’autostrada, in città) Igort ha riprodotto e dipinto enormi cartelloni pubblicitari degli anni settanta.

La senzazione che questi disegni infondono è una sensazione di oppressione, dovuta alla gigantesca presenza di questi simboli consumistici di un momento storico ben più avanti del boom economico; un senso di fastidio e leggero disagio che ricorda quello provato nel guardare l’episodio diretto da Fellini nel film “Boccaccio ’70” (1961) – “Le tentazioni del dottor Antonio”-, che vede il bigotto ragioniere interpretato da Peppino De Filippo inseguito e ossessionato da manifesti pubblicitari giganti dai quali si staccano donne alte come e più di palazzi.

Lo Cicero, in queste pagine surreali, si troverà ad essere elemento catalizzatore di un altro scontro a fuoco fra bande, pronte ad approfittare della presenza di Don Lava sul tetto per lo scambio. Come in “La sfida del Samurai” (1961) di Kurosawa o ancora novello Clint Eastwood in “Per un pugno di dollari” (1964) di Leone, Peppino è, suo malgrado, elemento scatenante della strage che verrà.

5-5Capitolo cinque: 5 è il numero perfetto

Il capitolo inizia con uno stacco temporale di oltre di un mese; quello che è successo subito dopo lo scambio, la strage che ne è venuta fuori, è narrata in flash back. Il nostro riferimento di prima al maestro Kurosawa non è casuale, ma causale. Napoli e il Giappone non sono così lontani come sembrano (vero Igort?). Napoli, così come il Giappone, è terra di caste che governano territori ben definiti da decine di anni; queste zone sono difese dagli eserciti privati fuorilegge dei capizona. La legge morale che regola le vertenze fra i vari clan è una legge sopra quella dello Stato, che se ne infischia di Polizia, Governo e Municipio. Onore e morte sono parole chiave, a Napoli così come in Giappone, per cercare di comprendere una cultura così difficile da leggere senza gli strumenti didattici giusti. Una morale difficile da capire, dura da applicare; un culto della morte, dei morti e degli antenati di lontane origini paleocristiane ma anche precedenti; un attaccamento morboso alla terra dove si è nati e dalla quale non ci si vuole mai allontanare.

La storia triste del guappo napoletano si conclude in un paese centroamericano, il Parador meridionale. Dopo lo scambio di prigionieri Peppino è scappato grazie al tempestivo aiuto del medico riuscendo a portare via con sé l’assassino di suo figlio. La giustizia che aveva cercato con tanta determinazione, però, ora non riesce a farsela da solo; non c’è l’omicidio a sangue freddo, l’esecuzione prevista dal piano di Lo Cicero. L’assassino viene rimesso in libertà ed il suo ritornare dai Lava per far uccidere Lo Cicero è solo la dimostrazione che non esistono più i guappi “onesti” di una volta, ma solo traditori. L’ultima sparatoria (eh, sì, è proprio l’ultima) consegna Rita e Peppino al loro futuro, insieme questa volta, verso i mari caldi del Parador, dove la vicenda viene raccontata al fratello del dottore, emigrato da tanti anni. Le ultime pagine, quelle con Peppino e Rita sulla spiaggia piegata dal vento dei Caraibi (immaginiamo possa essere lì, il Parador…) sono narrate con cadenza altalenante e ritmo sincopato, tempi lunghi, sabbia che vola, quattro parole, un sospiro e di nuovo il vento che sposta la sabbia.

Il giornale arrivato dall’Italia chiarisce il giallo; Salvatore, nuovo boss di Napoli, è stato arrestato. Lui aveva venduto e tradito Nino ai Lava. Il cerchio si è chiuso ma il dolore per la perdita di un figlio è troppo grande e non può essere paragonato a quello causato da un amico che ti tradisce. Ora lo spazio ed il tempo alleggeriscono la sofferenza e Peppino vede quanto successo solo un mese prima come un qualcosa di ormai molto lontano. Stanco ed anziano, su una spiaggia semi deserta con una donna che gli vuole bene, Lo Cicero vive quello che tanti pensionati sognano, una tranquilla fine della propria esistenza. Eppure, per un guappo di Napoli, questa sembra essere una punizione. Come segnalato in principio un sicario della camorra non immagina mai la propria vecchiaia, il rischio di non arrivarci è davvero troppo grosso. E’ quindi questa la punizione che la Madonna ha inflitto a Peppino per il male che ha fatto sulla terra: “invecchiare al sole come qualcuno che ha la coscienza a posto”.

È davvero un singolare giallo metropolitano questo realizzato da Igort ed ambientato a Napoli. Vi troviamo un sicario anziano che sopravvive al sicario giovane; l’amico di gioventù che è il vero traditore della storia; la donna della vita di Lo Cicero, moglie e madre di Nino prematuramente morta, che nei flashback non compare se non come baloon che porta sulla tavola una voce di chi è fuori campo. E ancora, una Napoli bagnata fino al midollo, spazzata dal vento nell’unico momento di sole e sempre, decisamente e volutamente vuota; una Napoli simile ad una ghost city di un western o una città-scenario di una Cinecittà qualsiasi, messa lì solo a fare da sfondo ai “famosi” e concitati giorni durante i quali Peppino Lo Cicero tornò in azione e fece fuori mezza Napoli dopo la morte dell’adorato figlio Nino.

Un disegno, quello di Igort, che bagna il foglio di acquerello quando piove, lo graffia con tratto sottile e spigoloso nei momenti di tensione. L’autore utilizza il grigio (uniforme) come ponte fra il bianco ed il nero; nei momenti di luce il nero scompare e talvolta svaniscono anche i sottili contorni di pennino; la forma è data allora solo dall’ombra del grigio. Quando invece è la notte, o le strade bagnate, o il buio degli interni a farla da padrone, il nero riempie quasi totalmente le figure, lasciando al grigio solo poco spazio prima del contorno delle immagini. E poi, tavole oniriche di animali che si inseguono, splash page scurissime ed essenziali, continui rimandi a quello che ci è rimasto negli occhi degli anni ’70 (buste di latte a piramide, frigoriferi bombati, cartelloni pubblicitari…). Il volume non ha e non vuole avere una strettissima coerenza stilistica; lo stesso vale per il ritmo, mai lineare né apparentemente studiato per essere perfettamente bilanciato; siano questi pregi o difetti difficile è da capire e probabilmente entrambi i punti di vista sono corretti in qualche senso. Il punto è che, alla fine della lettura, il volume sembra aver colpito il segno: coinvolge nonostante tutto ed è una ispirata realizzazione grafica anche se non monotòna.

5-4Va sottolineato, inoltre, che Igort, che di Napoli né campano è, si preoccupa di scrivere in dialetto napoletano. I puristi (e noi non lo siamo) diranno, o hanno già detto, che in parecchi passi non ci siamo né con l’ortografia né con la costruzione della frase. Il tentativo dell’autore però, per chi vi scrive, è encomiabile. Non sembra esserci in Igort, infatti, né un voler denigrare l’iconografia (anche dialettica) della napoletanità né una mancanza di rispetto.

Fa piacere, piuttosto, e detto da un napoletano dovrebbe avere un senso, vedere che qualcuno ha piacere ed interesse verso una cultura complessa e solo apparentemente solare (ed infatti Igort narra la storia spesso attraverso i vetri bagnati da una pioggia continua, non fermandosi all’equazione Napoli=Sole).

Ed il fatto che usi un dialetto che non è il suo è probabilmente molto più apprezzabile del fatto che tanti napoletani, per cercare successo, cerchino di cancellarlo dal proprio modo di parlare, quello stesso dialetto. D’altronde, lo stesso Bovio (citato prima più volte) diceva “Gesù parlava in dialetto, Dante scriveva in dialetto, il Padreterno, in cielo, parla in dialetto”. Non sono reati quindi gli errori di Igort nel testo in napoletano; forse il reato grave del quale si macchia l’autore, lo ammettiamo, è l’aver riprodotto su un muro della città il piccolo Gennarino, mascotte della squadra del Napoli, con il numero due che indicava il secondo scudetto vinto. Eh no, Igort, questo non dovevi farlo, nel 1972 i fasti di Maradona erano di là da venire e chissà se i napoletani questa topica te la perdoneranno. Scherza coi fanti, Igort ,ma lascia stare i Santi. Si sa che a Napoli, dopo San Gennaro e la Madonna, il terzo posto fra le cose “Sante” è occupato proprio dal “pallone”…

Abbiamo parlato di:
5 è il numero perfetto
Igort
Coconino press 2002
176 pagg. in bicromia, bros.
14,00€

Clicca per commentare

Rispondi

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *