Uscito con il titolo originale di “Addicted to war: why the US can’t kick militarism”, questo fumetto scritto e disegnato da Joel Andreas, professore alla John Hopkins University, rappresenta uno dei possibili usi di questo medium, poco esplorato ma dal potenziale enorme: quella di veicolo di informazione giornalistica, di provocazione argomentata e di denuncia sociale e politica.
Come specificato in quarta di copertina, questo volume vuole spiegare, pur brevemente nelle sue limitate pagine, “chi beneficia delle imprese belliche, chi le paga, chi ne muore“. Utilizzando come io narrativo una “famiglia media americana” colpita dall’aumento delle tasse e dalla diminuzione dei servizi sociali, l’autore intende denunciare il sistema insensato della guerra, associato agli interessi economici che vi si nascondono dietro. Il tratto, per assecondare questo scopo e sottolineare con ironia anche feroce le storture della storia passata e presente, è chiaramente la parte all’apparenza meno accattivante del volume: semplice, poco appariscente, caricaturale, spesso accompagnamento ad un’ampia dose di testo. Il disegno ricopre in pratica una funzione di alleggerimento del tema, ma anche di sottolineatura di alcuni passaggi quasi comici nella loro tragicità, e cerca di rendere più accessibile un argomento complesso e ostico.
Argomento affrontato con rigore e, soprattutto, con un’abbondanza di riferimenti bibliografici di notevole rilevanza, utilissimi per chi volesse approfondire le tesi di Andreas e per smontare facili illazioni di “antiamericanismo”, parola che ultimamente viene sbandierata di fronte a qualunque critica venga rivolta al sistema statunitense, anche quando essa proviene dal suo interno.
Andreas può essere accostato certamente alle inchieste di Michael Moore e la sua dialettica sembra fondarsi su di un’identica voglia di critica, che usa il metro dell’ironia e della rabbia consapevole per fare arrivare al lettore il proprio messaggio. Al contempo fornisce una tale quantità di fatti storici e documentati che le sue argomentazioni risultano così solide da essere inattaccabili,; merito di un mezzo mai così adatto all’approfondimento e all’inserimento di note e riferimenti, tanto che risulta molto difficile trovare punti contestabili alla sua analisi.
La guerra, dice Andreas, è un business che sta alla base del sistema politico, economico e industriale, che spesso usa celarsi dietro vaghi concetti come superiorità culturale, diritto divino, democrazia.
Ripercorrendo la storia delle guerre americane, dallo sterminio degli indiani d’america fino alla guerra contro l’Iraq che, a tutt’oggi, non sappiamo dire quando realmente finirà, l’autore estrapola dichiarazioni politiche quasi ingenuamente stupide se non fosse per la loro gravità e volgarità. Espone con metodicità le ingerenze degli USA nella politica dei paesi più poveri, nei quali sono stati capaci di stringere accordi con dittatori e carnefici pur di mantenerne il controllo. Insomma, riassume i risultati di una politica estera spregiudicata e sconsiderata, che ha portato al disordine mondiale che oggi conosciamo, sia all’interno che all’esterno degli Stati Uniti. Quindi passa a svelare i meccanismi economici e sociali alla guerra strettamente connessi, dagli appalti di ricostruzione all’informazione di parte dei media.
Tutto quanto viene sostenuto con fonti precise, riferimenti bibliografici e iconografici; una serie di agghiaccianti fatti di cronaca, che in realtà sarebbero già alla facile portata di tutti, ma che invece sono ben nascosti da un’informazione massificata assordante che tutto sfuoca e confonde.
È questo infatti l’elemento più interessante del libro: raccogliere informazioni che già sono di dominio pubblico, separarle dal chiacchiericcio di fondo che ottunde la capacità di dare un senso compiuto ad esse e analizzarle cercando di ricongiungere i punti di tutta l’oscena vicenda che possiamo chiamare guerra, sfruttamento, ingiustizia.
Un tempo avremmo apostrofato questo modo di usare un linguaggio artistico, o codice comunicativo, “militante” o “impegnato”. Oggi ci basta sapere, al di là di ciò che pensa qualcuno, che i fumetti possono (oseremo dire, devono) parlare del mondo, cercando di capire le ragioni e le cause di tanta sofferenza. Piegando il mezzo per sottolineare il significato non si fa peccato, anzi dà una scossa alla consapevolezza di aver sotto mano un veicolo (e quindi non solo un fine) duttile e complesso, adatto a intrattenere ma anche a comunicare. Cio’ non è una novità: non è la prima volta che il fumetto viene usato per veicolare concetti e idee, tanto che a volte ha sfiorato anche la pura propaganda politica.
“Addicted to war” riprende in un certo senso la lezione dell’underground americano sia nelle intenzioni (il parlare della società e di ciò che ci sta attorno) che nell’attitudine, con quel “do it yourself”, slogan molto in voga nelle comunità punk a fine anni settanta, che riassume in sé tutta la volontà di democraticizzare dal basso l’uso e il fine di ogni mezzo artistico e/o comunicativo e che ha portato Joel Andreas, apparentemente a digiuno di tecnica e abilità fumettistica, a calarsi in una parte non sua. Andando oltre la prima diffidenza che l’approssimazione delle sue tavole incute, si capisce facilmente come ha potuto vendere 100.000 copie del suo libro precedente e un milione (avete letto bene) di questo fumetto in tutto il mondo. Questo perché ha saputo parlare, con semplicità ed efficacia, a un mondo frequentemente preso in giro dai media al soldo delle corporation, affamato di verità e di sapere, consapevole che tutto ciò che gli viene dato in pasto all’ora di cena sia di dubbia provenienza.
Guerradipendenti parla al mondo americano (e non solo), alla gente comune, a chi ha perso il lavoro, a chi non si può permettere di pagare il medico. Per questo non ha disegni strafighi e non ha supertizi in calzamaglia. È sgraziato e ruvido per essere più sincero e trasparente.
Per concludere, risulta difficile riemergere serenamente dalla lettura di questo libro: la prima reazione potrebbe essere vicina al rifiuto, allo sperare che l’autore esageri, magari in malafede. Sappiamo esattamente che non è così e non ci consola neanche sapere che esiste un mondo fatto di persone comuni, organizzate o meno, che tutto ciò rifiuta con dignità e indignazione.
Nonostante il capitolo finale “Resistere al militarismo”, l’autore non offre facili ricette per agire contro questo stato delle cose, se non portando a esempio le manifestazioni per la pace che, dal Vietnam in poi, hanno accompagnato le lussuose guerre in nome dell’America. Forse troppo poco per tranquillizzare il lettore, ma già parlare di ciò, secondo noi, è un atto politico ed è un agire che assorda il silenzio che c’é attorno alla vergogna della guerra.
Riferimenti
Il sito della casa editrice: www.nuovimondimedia.com