Essential 11: 11 “cose” che fanno male al fumetto in Italia

Essential 11: 11 “cose” che fanno male al fumetto in Italia

Marco Pellitteri, da anni professionista nell'ambito fumettistico come editor, saggista, traduttore, affronta in questo cahier de doléances 11 punti a suo vedere critici per la salute del fumetto in Italia.

Questo è un cahier de doléances. Un elenco di undici «cose» che, secondo me, a vario titolo fanno male al fumetto in Italia. Non a tutto il fumetto, naturalmente, ma a quei tipi di fumetti che da almeno una di queste cose sono toccati più o meno pesantemente; e non solo i fumetti ma «il fumetto» come sistema e settore culturale.
Sono solo undici… so che ce ne sarebbero molte altre. È inoltre possibile che non tutti i punti di questo elenco trovino d’accordo chi li leggerà: essi rappresentano la mia personale prospettiva. Ho cercato di argomentarli in modo ragionevole, sebbene nella sintesi.
La sequenza di questi punti si è formata a mano a mano che mi venivano in mente gli elementi che ritengo dolenti. Dunque essa è «casuale», perché a posteriori non ritengo che il punto 1 sia più problematico del punto 8 o che il punto 3 lo sia meno del punto 2. Al lettore il compito di formulare la sua graduatoria fra questi ed, eventualmente, altri punti critici. A differenza delle canoniche liste di lamentele, tuttavia, ho cercato qui di fornire almeno in alcuni casi, sempre in termini sintetici, qualche elemento costruttivo.

 

1. Gli uffici stampa delle case editrici di fumetti

Rizzoli/Lizard su Facebook

La maggior parte delle case editrici di fumetti in Italia non possiedono un ufficio stampa capace di svolgere il proprio lavoro in modo «normale», cioè quotidianamente, usando gli strumenti di cui gli addetti stampa delle aziende solitamente si avvalgono: il telefono, il cellulare, il fax, l’e-mail, la rubrica telefonica, i biglietti da visita, gli elenchi telefonici cartacei e on-line, il direct mailing digitale, il rilascio settimanale di comunicati stampa fra loro coordinati. Si tratta di una situazione molto critica per due ragioni: la maggior parte delle case editrici di fumetti italiane non hanno il budget, o sostengono/ritengono di non averlo, per assumere uno o due addetti stampa capaci di svolgere questo mestiere a tempo pieno, in modo da generare dibattito sui titoli della casa editrice e vendita di copie; si rivolgono pertanto ad addetti stampa inesperti, poco noti ai giornalisti, con una rubrica di contatti nei media scarsamente nutrita, con le idee non proprio chiare sulle dinamiche del mestiere e che il più delle volte si dedicano all’attività promozionale in modo non continuativo durante la settimana; ma d’altro canto i compensi che gli editori si sentono di voler/poter proporre a tali addetti stampa – quando ciò avviene – sono sovente risibili, il che livella verso il basso, automaticamente, sia la qualità del servizio, sia l’età e l’esperienza di chi sarà disposto ad accettare determinate condizioni retributive, sia la motivazione nello svolgere tali mansioni promozionali.

“Mettiamoci il becco”, sito promosso da Becco Giallo

Per risolvere questo problema, che danneggia innanzitutto gli introiti degli editori, dal momento che un editore senza un ufficio stampa è un soggetto invisibile al di fuori del ristretto circolo dei lettori abituali di fumetti, occorrerebbe una mentalità realmente imprenditoriale, la stessa che manca affinché, per esempio, quegli stessi editori si dotino di un esperto di marketing aziendale o di traduttori e supervisori attenti (si vedano i punti seguenti).
Un ultimo elemento d’interesse è l’uso mistificante che viene attualmente fatto della comunicazione via internet. Aggiornare il sito internet dell’editore va bene, ma cercare di acquisire contatti sui social network sta assumendo troppo peso nella giornata lavorativa degli addetti agli uffici stampa: le pagine di una casa editrice su di un social network sono frequentate soprattutto da persone che o ruotano intorno alla casa editrice o che comunque già la conoscono, e non sono granché utili ad acquisire nuovi acquirenti. Sarebbe ora che i giovani addetti stampa si svegliassero e capissero che per vendere i libri ci vuol altro: il web è uno strumento formidabile per trovare nuovi lettori/acquirenti, ma bisogna saperlo usare.

Nicola Pesce Editore su Facebook

 

 

2. Affidarsi a traduttori inesperti, o disattenti, o poco motivati, o…

Un errore tratto da una testata Planeta DeAgostini

Il tradurre prevede la conoscenza della lingua da cui si traduce, certamente; ma ancor di più prevede la conoscenza approfondita della lingua verso cui si traduce e, inoltre, la capacità previa di saper scrivere bene nell’idioma di destinazione.
Malgrado alcune indubbie eccellenze (basti pensare al lavoro di Andrea Plazzi sulle opere di Will Eisner), non pochi traduttori e traduttrici che traducono fumetti da altre lingue in italiano a me paiono a volte scarsamente capaci di esercitare con costanza la dovuta attenzione su ciò che cercano di rendere in italiano a livello sia semantico, sia lessicale, sia sintattico.
Per un lettore adulto di cultura medio-alta (una discreta parte dei lettori di fumetti, oggi) è fastidioso il leggere dialoghi e didascalie con la punteggiatura sbagliata, con la consecutio temporum piena di errori, con un’errata interpretazione dei riferimenti culturali originari, con frasi idiomatiche riportate in modo maldestro e perfino con singole parole dall’ortografia sbilenca.
A completare il quadro v’è la frequente inconsapevolezza di vari traduttori circa le distinzioni linguistiche fra l’italiano cosiddetto standard e le espressioni regionali e dialettali: parole come «rosicare» o interiezioni come «ohi», per esempio, sono usate pressoché solo nel Lazio e ad adoperarle nelle loro traduzioni sono traduttori originali del Lazio; lo stesso discorso vale per traduttori di altre regioni, i quali non credo inseriscano il loro dialetto come omaggio campanilistico ma a causa della loro mancata percezione circa la differenza fra ciò che è italiano e ciò che non lo è. Si pensi poi a quei casi in cui il traduttore non conosce la distinzione fra «tu» e «te», fra apostrofi e accenti… e tanti altri errori da matita rossa o blu.

Errori dalla prima edizione di “Taglia & Cuci” (Lizard)

Il problema di questo stato di cose nel fumetto italiano non riguarda solo le case editrici piccole e con scarsi budget (le quali si affidano spesso a traduttori promettenti ma ancora inesperti, costretti a lavorare in tempi molto ristretti ecc.) ma anche le case editrici maggiori (sia quelle specializzate in fumetti, sia i grandi editori di varia). Se in questo settore dell’imprenditoria, come in altri, ci si affidasse regolarmente a provini per valutare la professionalità e l’abilità dei candidati (prove di traduzione e di supervisione), molti problemi verrebbero risolti a monte; a meno che i valutatori stessi non siano scarsamente capaci di valutare i valutandi.
Il problema di fondo, duole dirlo, è che non sempre gli editori hanno la sensibilità e la cultura necessaria per capire che una traduzione eseguita male genera fastidio nei lettori e fa sì che il fumetto mal tradotto non venga acquistato né dai lettori generici, né dagli appassionati, né dalle biblioteche e dalle scuole (si veda il punto 4). La traduzione non è una mera fase tecnica: richiede cultura, preparazione, attenzione, tempo e un adeguato compenso. La corsa al ribasso anche in questo settore dell’editoria (non solo a fumetti) sta creando danni al fumetto tutto: l’effetto, dall’esterno, è che a volte il fumetto sia una forma espressiva non solo per illetterati, ma realizzata da illetterati. Il che, se fosse vero, mostrerebbe che in questo caso la famosa profezia autoavverantesi si è concretizzata dall’interno, colmo dei colmi.

 

 

3. Affidarsi a supervisori poco esperti e poco attenti

Mancate supervisioni su albo Planeta DeAgostini

Il supervisore o, con terminologia inglese, l’editor, è una figura fondamentale del lavoro di produzione editoriale.
Dai risultati riscontrabili dall’esterno, cioè da parte dei lettori, è evidente che molte case editrici di fumetti non si avvalgono di supervisori in grado di svolgere in modo impeccabile il loro mestiere. Laddove un traduttore inesperto o frettoloso commette un qualche tipo di errore (vedi il punto dedicato alla traduzione); laddove uno sceneggiatore alle prime armi o disattento compie o riporta errori di punteggiatura, sintassi o grammatica o anacronismi nel lessico o nelle ambientazioni; laddove un calligrafo sbaglia nel riportare l’ortografia e la sillabazione delle parole; laddove un disegnatore lasciato troppo libero commette errori di visualizzazione o addirittura «copia» (com’è accaduto in passato); in tutti questi casi, un bravo supervisore dev’essere severo e dirigere il lavoro con mano ferma, in modo che il lavoro degli altri professionisti sia sempre tenuto sotto sorveglianza e, in tal modo, ne venga esaltato perché ripulito dagli errori.
In nome di una travisata «libertà» artistica, pare invece che l’anarchia produttiva di non pochi fumettisti, unita alla loro moderata cultura e capacità di documentazione, abbia favorito errori dal punto di vista della coerenza scenico-sceneggiativa, del linguaggio e quindi della gradevolezza e fruibilità, specialmente nell’ambito delle serie, miniserie e romanzi a fumetti degli editori minori.

Un discusso caso di plagio nel fumetto “Le cronache del Mondo Emerso” (Panini Comics)

Case editrici come la Bonelli, che si affidano a supervisori di collana e ad autori mediamente assai colti e le cui pubblicazioni passano attraverso più fasi di revisione, sono fra le poche a essere pressoché esenti da questi problemi.
Evidentemente occorrerebbe agli altri editori maggiore attenzione a questo tipo di metodo, per conseguire risultati migliori.
Si tenga inoltre presente, fenomeno deleterio, che le case editrici, specie quelle grandi ma non solo, tendono ad affidare la traduzione all’editor stesso che cura il libro/albo. Spesso il medesimo editor/traduttore esegue anche le varie correzioni di bozze. Bisogna essere davvero molto bravi e appassionati per ridurre al minimo la quantità di refusi ed errori di concetto, ed effettuare un numero molto alto di riletture. E anche così, alcuni errori rimangono, visto che una singola figura, anche se di particolare bravura, non può tecnicamente riuscire a svolgere il lavoro di più persone.
Questo e il precedente punto sono le cause principali del problema esposto in quello seguente.

 

 

4. La problematica proponibilità di certi fumetti nelle biblioteche e nelle scuole

Errore fin dalla copertina (Planeta DeAgostini)

Il fatto che determinati (molti) fumetti, specialmente libri ma anche non poche serie italiane, siano malamente tradotti e/o malamente supervisionati dal punto di vista linguistico, determina il grosso problema della loro proponibilità quali letture interessanti in biblioteca e materiali educativi/edificanti a scuola. Questioni come la punteggiatura, la sillabazione, la sintassi, l’ortografia non sono affatto secondarie in questi due ambienti, per letture da indirizzare ai ragazzi.
Se io fossi un bibliotecario o un insegnante e mi trovassi di fronte un certo tipo di libro a fumetti in ogni pagina del quale fosse facilmente rinvenibile un errore da matita blu, farei molta fatica a proporlo ai miei utenti o studenti.
È una faccenda cruciale: l’inserimento dei fumetti nelle biblioteche e nelle scuole – sempre che ciò sia ritenuto un obiettivo importante dagli editori stessi – può consumarsi adeguatamente solo se i prodotti da inserire rispettano le condizioni essenziali a tal proposito, cioè se sono letterariamente degne.
Se i fumetti vogliono conquistare lo statuto di letteratura agli occhi di chi è esterno al mondo del fumetto, non devono essere approssimativi.
Ora come ora, una buona parte dei fumetti editi in Italia avranno anche disegni belli o bellissimi, ma dal punto di vista letterario sono di frequente alquanto opinabili, non tanto per i contenuti – che possono anche essere di notevole interesse narrativo e tematico – ma per la qualità intrinseca dei testi a livello scrittorio. Ciò non si verifica mai quando a scrivere siano sceneggiatori di vasta e approfondita cultura. Il che ci riporta a una questione davvero fondativa per la qualità dei fumetti in Italia: la cultura umanistica degli autori e, in subordine, dei traduttori e supervisori. Quando manca quella, secondo me manca (quasi) tutto.

Un ultimo elemento al riguardo. Ironia della sorte, proprio l’editore la qualità dei cui fumetti è costantemente di gran lunga la migliore a livello scrittorio, Bonelli, è da sempre il più restio al proporre i fumetti nelle scuole. Secondo le parole dello stesso Sergio Bonelli in una vecchia intervista rilasciata allo studioso Ermanno Detti, i fumetti sono un tipo di lettura che richiede la libera scelta e non la proposizione a scuola, pena la possibile caduta nella noia e nell’avversione da parte degli studenti; e in larga parte aveva, a mio parere, ragione. Eppure, proprio i fumetti Bonelli sono quelli costantemente privi di errori linguistici e caratterizzati spessissimo da un livello di cultura storica, umanistica, letteraria e scientifica che non ha rivali nel fumetto italiano; basti citare le storie di Gianfranco Manfredi, Giancarlo Berardi o Alfredo Castelli, ma altri autori meno famosi della scuderia di via Buonarroti non sono da meno. Invece molti altri editori, la cura editoriale e linguistica dei cui fumetti è spesso scarsa o misera, sono assai più baldanzosamente convinti del valore letterario dei loro prodotti e che essi siano più che degni di farsi veicolo di acculturazione per gli studenti scolastici.

 

 

5. Gli autori di fumetti che parlano male del lavoro dei colleghi

Proveniamo da un mondo in cui, fino a pochi anni fa, gli autori parlavano solo se interpellati. Erano gli autori stessi a volere che fosse così. Anche senza internet, è sempre stato molto facile per un autore inviare una lettera a una rivista specializzata, a un quotidiano, a un rotocalco; specialmente per un grande autore. I fumettisti, insomma, hanno sempre avuto la possibilità di dire la propria su questo e quell’altro. Ma, fino a diversi anni fa, sceglievano di esprimersi solo con la propria arte o comunque con i loro lavori. Erano disposti ad aprirsi su qualsiasi argomento, ma lo facevano quasi solo quando erano interpellati per delle interviste su rivista, o in dibattiti in occasione delle mostre-mercato del fumetto, o ancora in conversazioni private.
In anni recenti un diverso tipo di forma mentis, l’espandersi dei nuovi media e una maggiore possibilità di scambi in tempo reale hanno favorito la voglia di comunicare, e a volte la prosopopea, di vari autori di nuova generazione. Molti di loro, beninteso, usano il web soprattutto per mostrare il proprio portfolio e questo fa loro onore; altri invece hanno anche istituito, senza nemmeno rifletterci su ma per carattere, una sorta di culto di sé stessi attraverso i loro accoliti. Attraverso i propri blog, questi autori si sono costruiti una sorta di corte di ammiratori, il che va bene per titillare l’ego un po’ vanesio che, molto comprensibilmente, cova in ogni artista; inoltre i dibattiti che si sviluppano in questi blog a volte sono molto interessanti e rivelatori. Quello che invece a mio parere non va bene è quando codesti autori si mettono a parlare male del lavoro di altri fumettisti, cercando di assumere una posizione di superiorità o credibilità camuffata da «critica d’autore», in quanto tale «tecnica». Credo che ciò non sia corretto nei confronti di colleghi che svolgono il loro mestiere con onestà e impegno. Non tutti sono dei Maestri, ma anche autori modesti sono in grado di scrivere e disegnare fumetti leggibili, godibili, vendibili; e, anche se si tratta di fumetti poco leggibili, poco godibili, poco venduti, si tratta sempre di lavori realizzati con sincerità e per questo, al limite, è il caso che a discuterne siano i lettori e tutt’al più i critici; non gli autori, che in quanto tali sono per forza di cose «parti in causa». Parlare male del lavoro dei propri omologhi, e per di più con toni insofferenti, è inelegante e dà la misura dell’educazione dei fumettisti che estendono tali critiche da pulpiti privilegiati. Non ho mai letto commenti o dichiarazioni di Vittorio Giardino o Milo Manara o Giorgio Cavazzano o Cinzia Leone o Gipi o altri maestri in cui questi parlassero male dei loro colleghi. Chi almeno un tantino segue la condotta dei grandi, un po’ diventa grande anche lui.

 

6. Gli editori che da anni e ancor oggi pubblicano i manga in edizione ribaltata

Jenny la tennista “mancina” nell’edizione italiana del manga

Fin dal 1995 la Star Comics, rischiando con Dragon Ball, rese evidente non solo che i lettori italiani di manga erano propensi ad abituarsi subito alla pubblicazione di manga non ribaltati (quindi col senso di lettura alla giapponese), ma anche che gradirono molto questa soluzione. È una questione molto interessante, che riguarda un segno di distinzione nel gusto, un avvicinamento culturale al modo di lettura dei giapponesi, una corrispondenza maggiore all’esperienza di lettura dei manga da parte dei lettori nipponici. Che ancora qualche anno fa alcuni grossi editori pubblicassero opere come Jenny la tennista o Lady Oscar in edizione ribaltata, trasformando sistematicamente tennisti e spadaccini destrimani in mancini, aveva a mio avviso del grottesco. Ma altri editori hanno rilevato i diritti di almeno alcuni di questi classici manga di successo, proponendone riedizioni non ribaltate.
La questione del ribaltamento dei manga non riguarda primariamente una faccenda di leggibilità e di direzionalità percettiva. Come ho scritto sopra, essa riguarda il gusto dei fan dei manga, la loro identità di lettori molto spesso nettamente distinta rispetto a quella dei seguaci di altri fumetti (occidentali), il desiderio, che trova oggi piena soddisfazione, di poter trovare nella lettura da destra a sinistra la sequenzialità e la direzionalità originariamente predisposte dagli autori nipponici. Il non voler soddisfare questo semplice desiderio di quei fan che di fatto mantengono in vita il mercato dei manga in Italia, per inseguire ingenuamente e ostinatamente la chimera di un fantomatico gruppo di lettori «casuali» (anziani? ignoranti? pigri? semi analfabeti?) presuntamente non abituati o non abituabili alla lettura non ribaltata, mi è incomprensibile.

Dragonball, primo manga pubblicato non ribaltato

 

7. I premi sul fumetto che non prevedano per gli autori adeguati riconoscimenti

Collaborazione Comicon e Feltrinelli per il premio Micheluzzi

Credo che sia semplicemente fuori luogo l’organizzazione di concorsi per autori di fumetti che non prevedano le seguenti condizioni: (1) un monte premi in denaro per i primi tre classificati, che non sia inferiore a cifre del genere 2000 euro per il primo premio, 1000 per il secondo, 500 per il terzo (e premi più sensati dovrebbero essere per il vincitore di almeno 4-5000 euro), vale a dire premi teoricamente traducibili per i vincitori in contributi spese per l’autopubblicazione dei propri fumetti presenti e futuri o necessari al proseguimento del proprio lavoro almeno nel breve termine; (2) l’esposizione di tutte le opere partecipanti (o almeno di quelle piazzate, dipende dal numero e dalla lunghezza dei lavori) in una mostra e la loro pubblicazione nel relativo catalogo; inoltre, o in alternativa, l’edizione dei lavori vincitori in un libro ad hoc, o su rivista, ma che si tratti di pubblicazioni di editori con un’attività regolare nel campo del fumetto e della narrativa; (3) similmente a come di recente è stato meritoriamente tentato e in parte realizzato dalla ComiCon di Napoli, un accordo con un distributore e con una catena di librerie per l’esposizione privilegiata, per un certo periodo di tempo, delle opere vincitrici; (4) un’adeguata copertura stampa del premio da parte delle riviste e dei siti specializzati, prima, durante e soprattutto dopo l’assegnazione dei premi, con interviste ai vincitori; ciò prevede non solo dell’attenzione da parte delle testate interessate ma anche che il nucleo organizzativo si doti di un ufficio stampa in grado di stimolare l’interesse sia dei media specialistici sia, soprattutto, di quelli generalisti (carta, radio, internet; la televisione forse sarebbe chiedere troppo, ma al meglio non c’è mai fine).

 

 

8. Criteri troppo variegati per le categorie dei premi di fumetti e involontaria nebulosità dei parametri di votazione

Targa dei premi Romics 2010

Il primo elemento di questo punto, quello delle categorie di premiazione dei premi sul fumetto, è alquanto annoso. Ogni manifestazione ha il suo premio per fumetti e ognuna ha anche le sue categorie. In molti casi la lista complessiva delle categorie denuncia concezioni del fumetto come forma espressiva alquanto lacunose. Un primo passo positivo per ovviare a queste distorsioni è stato compiuto dalla ComiCon di Napoli, che si è affidata alle categorie di un accreditato animatore culturale del settore per cercare di trovare un gruppo di categorie coerenti. Ciò però non è sufficiente: sarebbe forse il caso che un gruppo di autori, esperti ed editori ragionassero collettivamente e

venissero lanciate proposte sui nomi e i tipi di categorie da premiare, in modo da formalizzare infine una lista organica e che fosse possibile adottare, sempre uguale, in tutti i maggiori festival e mostre-mercato del fumetto italiani. Sia la ComiCon di Napoli, sia Lucca Comics & Games, sia Romics (le cito perché in tutt’e tre sono stato nel tempo o giurato o nel comitato di selezione delle opere in concorso, o ambo le cose) e via via le manifestazioni di dimensioni minori, se dotate di una lista coerente e unica di categorie di premio darebbero vita a una situazione nuova nel mondo del fumetto italiano: la perfetta comparabilità dei premi attribuiti dalle giurie. Verrebbero così eliminati, o quantomeno attenuati, tutti i discorsi sterili sulla validità e confrontabilità delle categorie di premio fra una manifestazione e l’altra.

Premio Micheluzzi 2011 – Napoli Comicon

Il secondo elemento di questo punto riguarda l’involontaria nebulosità dei criteri di selezione e votazione di vari fra questi premi. Per non fare uno sgarbo a nessuno dei premi sul fumetto e sui fumettisti, prenderò a titolo dimostrativo un trofeo che mi sta particolarmente a cuore, il «Premio “Franco Fossati”», che può valere come esempio generale. Come si sa, questo premio annuale è dedicato alla migliore opera di saggistica sul fumetto. Partendo dal presupposto dell’assoluta e indubitabile buona fede degli organizzatori e dei giurati di tutte le edizioni passate e future del «Premio “Franco Fossati”», occorre constatare la legnosità, per lo meno percepita dall’esterno, dei criteri di valutazione delle opere in concorso. Ne parlo in questi termini con tutto l’affetto possibile, visto che, con mia gioia e soprattutto sorpresa, mi fu assegnato nel 2000 per Mazinga Nostalgia.

Targa del Gran Guinigi di Lucca Comics

La questione centrale è quella dei criteri di votazione. Per quanto ne sappia, non sono mai stati ben chiariti dall’organizzazione. Ad ogni modo, parlandone con Luigi F. Bona, figura chiave dell’organizzazione di questo premio, questi mi ha spiegato che le votazioni dei libri si svolgono sulla base di un voto espresso con i centesimi (da 1 a 10 con i centesimali: es. 7,56). Ciò crea naturalmente classifiche di valutazione molto precise. Temo però che ciò non sia possibile con i fumetti: non credo che i giudizi estetici di ambito artistico possano essere espressi così. 
Un’altra questione, non per questo meno importante, è quella della composizione dei giurati. Sarebbe il caso innanzitutto che ci fosse un’alternanza la più varia possibile e che chi ha partecipato l’anno x non partecipasse come giurato per almeno altri dieci anni: anche ipotizzando una rotazione perfetta decennale, a me appare abbastanza chiaro, a naso, che esistano almeno una cinquantina abbondante di nomi interessanti, nel comicdom italiano, in grado di divenire giurati di qualsiasi Premio, per non parlare dei nuovi nomi della critica che possono venir fuori nel corso di questi dieci anni di turnazione. Inoltre, la giuria dovrebbe essere varia secondo alcuni criteri; ne elenco tre che mi paiono adeguatamente discriminanti in termini di varietà: campi di competenza nel mondo del fumetto, appartenenza anagrafica, tipo di professione.
Infine, si torni al punto 7 di questo elenco e ai suoi commi 1-4 (per un premio come il «Fossati» ci si attenga invece ai soli commi 3 e 4: per la saggistica i commi 1 e 2 mi paiono fuori luogo).

 

9. La distribuzione per com’è oggi, fra «edicole», librerie «di varia» e «fumetterie»

Innanzitutto, mi pare faccia male al fumetto il fatto che occorra stampare un numero esorbitante di copie di un albo o rivista per fare in modo che essi siano distribuiti nel circuito nazionale delle cosiddette «edicole» (termine che a me pare poco corretto, poiché l’edicola sarebbe di fatto un tabernacolo…); in teoria sarebbe giusto concedere la possibilità di apparire nelle edicole anche a editori in grado di stampare in tirature inferiori alle 10.000 copie, ma credo che questa soglia sia un vero e proprio filtro «razzista» d’ingresso, poiché le edicole sono perennemente sovraffollate.
Le «edicole» del fumetto sono divenute comunque, dagli anni Novanta, le «fumetterie», altro termine ambiguo in vari modi: si tratta di negozi la cui gestione, per lo più nata spontaneamente da appassionati, si è rivelata lontana dagli obiettivi che una libreria dovrebbe prefissarsi, cioè quelli miranti all’allargamento costante della propria clientela.

Inoltre, le fumetterie dovrebbero avere, a mio parere, la «missione» di farsi quale sorta di biblioteche per esercitare un apostolato del fumetto in grado di far sì che la clientela possa ampliare le proprie prospettive sui fumetti. Per esempio, a ciascun lettore di manga potrebbe essere proposta (per un massimo, per esempio, di tre volte per ciascun cliente) una lettura di prova di un fumetto italiano o americano o europeo o sudamericano: ti presto per una settimana questo albo o volume mediante cauzione, e dopo averlo letto me lo restituisci e io ti ridò i soldi; se ti è piaciuto a tal punto da volerlo tenere, mi tengo i soldi e tu ti tieni l’albo. Invece ognuno guarda al suo e la disposizione dei fumetti sugli scaffali rispecchia questa concezione a compartimenti stagni del fumetto da parte dei gestori, che in quanto appassionati essi stessi hanno, da quel che ho visto, una visione quasi sempre limitata della loro stessa merce: i manga sono messi con i manga, i supereroi con i supereroi, tutto il resto non si sa dove. È vero che sono i lettori stessi che spesso preferiscono questa compartimentazione, ma ciò più che altro perché sono sempre stati abituati così. Spezzando questo circolo vizioso con iniziative di vario genere e con una differente strategia espositiva sarebbe possibile ampliare le prospettive degli acquirenti e implementare l’arco generazionale della clientela, proprio in una fase in cui le edicole sono sempre meno frequentate da giovani lettori di fumetti, se non per i manga.

Infine, a far male al fumetto in Italia sono secondo me le librerie «di varia». Non ci si faccia trarre in inganno dal fatto che le librerie hanno adesso, spesso, una sezione dedicata ai fumetti. Che tipi di fumetti sono presentati in questo scaffale? Solo alcuni, quelli pubblicati dagli editori maggiori, tranne rare eccezioni. Il problema maggiore della gestione dello scaffale dei fumetti in libreria è tipologico: ci sono soprattutto fumetti in formato cartotecnico «libro» (cartonati, brossurati, comunque in forma di volume), il che sposta presso i frequentatori abituali delle librerie la concezione del fumetto da un’idea di lettura d’intrattenimento a un’idea di lettura in qualche modo più impegnativa, il che sarà anche vero nel caso dei fumetti più densi di contenuti e di maggior livello letterario, ma questo processo genera anche la falsa idea che i cosiddetti graphic novel siano altro dai fumetti seriali venduti nelle edicole. Ma c’è anche un altro problema ed è di tipo strettamente espositivo: diversamente da quanto accade in fumetteria, luogo frequentato per lo più da chi già pratica questo tipo di letture, i fumetti, per essere efficaci nei confronti dell’acquisto in libreria, vanno esposti frontalmente, perché sono una forma visiva: devono invogliare alla prensione e alla visione da parte dell’avventore, quindi andrebbero disposti su grate o su espositori frontali, a dispetto di qualsiasi idea intellettualistica sul fumetto come forma di lettura impegnata.

 

10. Le riviste che vogliono farsi maieutiche verso i lettori integrando fumetto, approfondimento e narrativa

È successo fin troppo spesso che riviste contenenti fumetti buoni od ottimi, come Touch o Animals, abbiano chiuso dopo pochi numeri oppure che abbiano vivacchiato o vivacchino a malapena. La mia personale interpretazione di questo stato di cose è che i lettori di fumetti, anche adulti, maturi e colti, nel momento in cui acquistano fumetti, si autoconfigurino quali appassionati di letteratura grafica e che in una rivista che contiene fumetti vogliano trovare soprattutto fumetti, con un apparato di testi solo alfabetici non superiore al 10% circa del contenuto globale della rivista. Invece una certa mentalità sincretica, sofisticata ma forse troppo sognatrice, da parte di alcuni curatori ha forzato la mano al punto che sono state create riviste in cui i fumetti (brevi) avessero uno spazio simile o a volte anche inferiore ai racconti scritti, alle interviste, agli articoli di approfondimento (particolarmente lunghi nella quantità di testo, lunghezza dissimulata da un testo in corpo piccolo contenuto in un paio di pagine per ciascun racconto o articolo).
A monte, c’è a mio parere un problema di concezione culturale del fumetto in rapporto alle altre forme di espressione artistica e di intrattenimento: un atteggiamento di subalternità del racconto grafico vs. il racconto scritto. Ma c’è, ovviamente, dell’altro.

Il fatto che, al di là del momento in cui avviene l’atto d’acquisto della rivista, i lettori di queste pubblicazioni abbiano nella loro vita un menù culturale vario e ricco, fatto di informazione, letteratura, saggistica, cinema e teatro, non significa automaticamente che una rivista così «mista» possa sempre trovare il loro favore. Voler dare al lettore di tutt’un po’ si è rivelato disastroso. È possibile e ha dato i suoi frutti inserire alcune pagine di fumetti in una rivista d’informazione e attualità (pensiamo a Internazionale), ma non è vero l’inverso. Insomma, chi compra fumetti in genere vuole fumetti. Le eccezioni lodevoli si hanno quando si intercetta un pubblico affezionato a un genere e a un certo tipo di ambientazioni, come nel caso degli Almanacchi bimestrali Bonelli, ciascuno dei quali, preso singolarmente, ha peraltro cadenza annuale ed è la ciliegina sulla torta di un appuntamento mensile tutto-fumetto lungo un anno intero (Nathan Never e il suo Almanacco della fantascienza, Tex e il suo Almanacco del West ecc.).

In tutti gli altri casi, il frullato di materiali eterogenei si è rivelato sgradito alla maggioranza silenziosa, quella che non scrive lettere entusiastiche alla redazione e che decide le sorti di una testata semplicemente acquistandola o non acquistandola. Lo scrivo con rammarico, perché i fumetti di Animals li ho sempre letti e guardati con estremo gradimento; non sono mai riuscito a leggerne i racconti e gli articoli, invece. Come me devono aver pensato e agito molte altre migliaia di lettori, laddove solo una sparuta minoranza ha apprezzato e apprezza l’impostazione di questa rivista.
Per la cronaca: da anni acquisto spesso, invece, settimanali come Lanciostory, che sono tutto-fumetto… Con vendite certamente inferiori agli anni d’oro, Lanciostory infatti è ancora in edicola.
Una ragione ci sarà.

 

11. Il lettering al computer senza saper usare il computer e senza conoscere l’italiano

Il fatto che un calligrafo del fumetto debba conoscere bene l’italiano perché gli sia dato del lavoro sembra un’ovvietà, ma per molti operatori del settore evidentemente non è così. Un’infinità di fumetti sono sillabati in modo sistematicamente errato. Pare dunque che gli addetti al lettering di molte case editrici non sappiano come si mandano a capo le parole e/o, se usano il computer per il loro lettering, non si siano mai nemmeno posti il problema di regolare lo strumento di sillabazione automatica del software che usano, strumento che va fissato sulla grammatica italiana o su «automatico»: il computer riconosce la lingua della parola che deve andare a capo e si regola di conseguenza per la sillabazione, dunque per il modo di spezzarla fra una riga e la successiva.

Sul piano puramente estetico, c’è lettering e lettering, per quanto riguarda l’uso del computer. Oggi va per la maggiore un modo di fare lettering del tutto avulso da qualsiasi considerazione visiva per la necessaria armonia che dovrebbe sussistere fra l’immagine iconica e l’immagine calligrafica; in altre parole, non si coltiva una vera e propria concordanza fra gli umori estetici del disegno e la «pasta visiva» dei caratteri alfabetici utilizzati sia nelle didascalie e nelle nuvolette sia per le onomatopee grafiche. Dichiara il noto letterista del fumetto Marco Ficarra, a cui ho chiesto delle opinioni su questo tema:

«i tempi dimezzati per la consegna dei lavori contribuiscono ai pessimi risultati, e a volte si lavora senza tutti i materiali a disposizione per portare avanti il lavoro (traduzioni mancanti, immagini di pessima qualità, timoni e balloon placing inesistenti). Va anche detto che molti giovani grafici hanno esperienza di grafica per il web e disconoscono totalmente le regole base della stampa tipografica, con effetti devastanti. Nel ’95 insieme ad Andrea Accardi, che faceva lettering a mano, abbiamo realizzato il lettering digitale letterando i fumetti Marvel. Il lettering digitale ha permesso di intervenire più facilmente in fase di correzione, ma questo ha determinato una maggiore trascuratezza della fase precedente al lettering».

Negli ultimi anni quasi tutte le case editrici si sono convertite al lettering digitale. Lo hanno fatto per prime quelle di supereroi e manga: la mole di materiali su cui effettuare il lettering e la tempistica perennemente ristretta o frenetica hanno reso quasi obbligatorio, dal punto di vista degli editori, il ricorso al computer. Si sono adeguate in breve tempo anche le altre case editrici: quelle che pubblicano romanzi a fumetti e riviste antologiche. Solo la Bonelli persegue ancora il suo storico stile calligrafico rigorosamente eseguito a mano dalle sue mitiche calligrafe, con un piccolo elemento di innovazione. Risponde Luca Del Savio, della Redazione Bonelli, a una mia richiesta di informazioni:

«Tutt’oggi, il lettering degli albi Bonelli è realizzato manualmente, sia su supporto cartaceo […] che su supporto digitale: anche in casi in cui la letterista ha lavorato sui file delle tavole (i Dylan Dog Color Fest, ad esempio, o il recente Dylan Dog 300), lo ha fatto utilizzando una tavoletta grafica e scrivendo a mano sullo schermo, non utilizzando un font preesistente o costruito sulla base del suo lettering manuale».

Lettering Bonelli

Ci sono, in ogni caso, differenze abissali fra ciò che la Bonelli è egregiamente riuscita a produrre nel suo passaggio dal lettering manuale alla convivenza parziale col digitale e gli obbrobri perpetrati dalla maggior parte degli altri editori.
Nei primi anni di lettering digitale, la maggior parte degli editori hanno scelto un tipo di font e, benché con qualche piccola modifica, l’hanno usato in modo quasi sempre pedissequo. Ancor oggi molti editori, soprattutto quelli specializzati in manga ma non solo, fanno così. Queste font preformattate sono orribili, perché cercano di simulare la scrittura manuale, ma in realtà la loro regolarità è sconcertante e si distaccano a colpo d’occhio dalla grana visiva del disegno (si veda questo bell’articolo di Todd Klein sul carattere Comic Sans: kleinletters.com/Blog/?p=3599); tanto più che le legature, cioè il modo in cui le lettere sono fra loro distanziate e in cui occasionalmente possono toccarsi, sono assai ineleganti e, al contrario, irregolari, con spaziature fra le lettere talora minime e talaltra troppo ampie. Ciò rende la lettura difficile e fastidiosa.
Successivamente sono subentrate delle font effettivamente manuali, cioè riprese da un testo calligrafico eseguito a mano da un calligrafo/letterista e poi scannerizzate, carattere per carattere, e digitalizzate. La tendenza ha preso vigore nei tardi anni Novanta e primi anni Duemila grazie ad alcuni talentuosissimi letterists statunitensi – fra i quali, appunto, Klein – e si è recentemente estesa all’Italia, anche se sono in pochi ad avere padronanza di questo metodo, perché prima di digitalizzare è opportuno essere bravi calligrafi, e per essere bravi calligrafi bisogna avere anche un’approfondita conoscenza delle teorie della percezione e della microtipografia.

Ancora Todd Klein su Sandman

Quel che è spesso successo, tuttavia, è che la tipica pigrizia e l’altrettanto spirito d’improvvisazione dell’homo italicus hanno fatto sì che ogni lettera venisse scannerizzata in una sola variante: questo significa che viene a mancare, in una font altrimenti tipicamente manuale, la caratteristica più essenziale della manualità: la variabilità.
Al problema basterebbe ovviare scannerizzando per bene un ottimo lettering manuale, dove per ogni singola lettera fossero acquisite al computer diverse varianti: cioè almeno 3-4 lettere «a», 3-4 lettere «b» ecc. Il software di videoscrittura del lettering dovrebbe pertanto ubbidire a un criterio di rotazione: ogni volta che una lettera venisse battuta, il computer ne inserirebbe la variante 1; la volta immediatamente successiva che la medesima lettera venisse battuta, il computer ne inserirebbe la variante 2; e così via. Ciò significa che in una parola come «Sassari», le tre «s» e le due «a» sarebbero tutte diverse fra loro, dando pertanto a ogni parola quella fluida variabilità che si confà a un vero e proprio lettering manuale.

 

N.D.R.: Quelle sollevate da Marco sono alcune delle tante questioni critiche nello sviluppo del panorama culturale, economico, artistico del fumetto in Italia. Troviamo possa essere un tassello, un punto di partenza per un discorso ancora più ampio. Ci auguriamo che commentiate e diciate la vostra (da lettori, autori, professionisti del settore) su questi temi e su altri che ritenete importanti.

NB: Le immagini di accompagnamento scelte dalla redazione sono puramente indicative e non intendono ledere in alcun modo i diretti interessati. L’immagine di apertura è un dettaglio da una illustrazione di Gustave Doré da l’Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri. Si segnala www.glamazonia.it/board/index.php e comicus.forumfree.org per il recupero di immagini Planeta DeAgostini.

36 Commenti

1 Commento

  1. quasiallegra

    12 Ottobre 2011 a 10:55

    Molto interessante.
    Tra l’altro, per il discorso “categorie dei premi di fumetti”, ho visto che alcune scelte per le candidature al Gran Guinigi di quest’anno sono francamente incomprensibili, e non mi riferisco a un discorso “meritorio”, ovviamente: ad esempio nella categoria “migliore storia lunga” compare come candidato “La fine del mondo e prima dell’alba” di Inio Asano (Panini) che però è una raccolta di storie brevi!

  2. The Passenger

    12 Ottobre 2011 a 11:51

    Sono d’accordo quasi su tutto, ma i mali sono dodici…..la critica fumettistica che magari si fa regalare alle fiere copie e poi ti fa aspettare mesi per una recensione scritta in 5 minuti al cesso o che magari continua sempre a parlare delle solite ristampe ma non ha nessuno che si occupi degli indipendenti di valore?

  3. Turel Caccese

    12 Ottobre 2011 a 13:02

    Ne stavo parlando proprio l’altro giorno con un pò di gente del campo…

    http://web.archive.org/web/20111114060849/http://shockdom.com:80/open/turel/2011/10/10/s2e01-29-the-web-popularity-theory/

    Soprattutto per le traduzioni… bisogna farsele da soli e non è che qui si mastica l’inglese tutti i giorni….
    Complimenti, articolo molto delucidativo

  4. Mirko Perniola

    12 Ottobre 2011 a 15:04

    Splendido articolo, ottime argomentazioni.

    Credo che si debbano spendere un paio di parole anche su altri due argomenti:
    1 – sulle scuole del fumetto, dove spesso si “formano professionalmente” aspiranti tronfi di quella che avete definito “travisata «libertà» artistica” che causa poi “l’anarchia produttiva di non pochi fumettisti, unita alla loro moderata cultura e capacità di documentazione”!

    2 – L’immagine, anche tra i professionisti, del fumettaro scapigliato in calzoncini e maglietta di Topolino, che perpetua in qualunque occasione, anche in quella più ufficiale e mondana, l’idea dello sfigato che fa cose sfigate per gli sfigati.

    Tutto questo proietta all’esterno del mondofumetto un’immagine tutt’altro che professionale ed elevata culturalmente.

  5. borisbattaglia

    12 Ottobre 2011 a 16:03

    l’anarchia sto cazzo! che cosa ne può sapere della libertà un professorino, questo mi ha sempre interessato. ce lo fate un post apposta? dai!

  6. Massimiliano Clemente

    12 Ottobre 2011 a 16:36

    Per ovvi motivi, conosco gran parte delle argomentazioni di Marco. È un ottimo punto di partenza per un esame critico di tutto il settore, nella speranza che non ci si chiuda a riccio difendendo un ruolo, una identità e un orticello che rischia sempre più di inaridirsi e marcire.

  7. Vivi Boccionero

    12 Ottobre 2011 a 18:59

    “Ora come ora, una buona parte dei fumetti editi in Italia avranno anche disegni belli o bellissimi”
     
    Ignorantibus, qual è il soggetto? Matita blu!!!
     
    Fate sempre gli stessi errori…

  8. Marco Pellitteri

    12 Ottobre 2011 a 19:17

    Per Vivi Boccionero: in casi come questo, si può intendere come soggetto sia “una buona parte” (singolare) sia “(dei) fumetti editi in Italia” (plurale). Si tratta di un classico caso di non concordanza del numero fra soggetto e predicato ed è uno di quelli inseriti da vari linguisti in una “lista di tolleranze”. Ma capisco che da alcuni, a causa di determinate e personali abitudini nel parlato o nello scritto, quello che è ormai di uso comune e sancito come corretto anche dai libri di grammatica italiana possa ancora essere percepito come un errore.

  9. Marco Pellitteri

    12 Ottobre 2011 a 19:23

    A The Passenger e Mirko Perniola: grazie dei complimenti e dei commenti, che condivido. Vorrei solo far notare che l’articolo si intitola «11 “cose” che fanno male al fumetto in Italia» e non «Le 11 “cose” che fanno male al fumetto in Italia»! :-) Intendo dire e ribadire che certamente avete ragione, le «cose» che non vanno bene sono più di undici, ma date la colpa al Gabrielli, la rubrica si intitola «Essential 11»…

  10. Cavuccio

    12 Ottobre 2011 a 19:29

    Le argomentazione ci stanno tutte. Per quanto mi riguarda trovo molto importante il “non lavoro” degli uffici stampa. Troppo spesso fuori dalla cerchia del fumetto le notizie che si leggono sono imprecise e banali.Per questo motivo il lavoro stesso di disegnatori e sceneggiatori e addetti del settore non è visto come tale ma percepito, o come attività artistica elitaria, o come attività da appassionati, di “cose da ragazzini”.

    PS la didascalia di DragonBall è sbagliata volutamente? ;-)

  11. Marco Pellitteri

    12 Ottobre 2011 a 19:46

    Cavuccio, grazie del commento.
    Per quanto riguarda la didascalia, dov’è l’errore? Se alludi alla varietà di ortografie per il titolo del manga di Akira Toriyama, credo che sia pienamente ammissibile anche «Dragonball», oltre a «Dragon Ball» e «DragonBall», poiché il logo ufficiale associato tanto al manga quanto all’anime in questione non presenta una separazione fra le parole «Dragon» e «ball».

  12. Vivi Boccionero

    12 Ottobre 2011 a 20:02

    Marchetto, non puoi fare la predica e poi aggrapparti a una fantomatica “lista di tolleranza”. Alle stesse liste, approntate all’uopo, potrebbero appellarsi tutti quei fumettari gnuranti che tu tanto disprezzi. È proprio leggendo capolavori come “Un’infinità di fumetti sono sillabati in modo sistematicamente errato” che lo scolaretto va in corto. E allora addio maieutica.

  13. Marco Pellitteri

    12 Ottobre 2011 a 20:40

    Vivi Boccionero, come vedi rispetto questo mancato accordo del numero fra soggetto e predicato con una certa coerenza. Quindi o sono coerente nell’errore, o sono coerente nell’usare correttamente la lingua italiana. Che, come tutte le lingue naturali, non è una scienza esatta ma ha moltissime eccezioni alle regole (le quali a loro volta, nel caso delle lingue, sono descrittive, non prescrittive: è l’uso che fa la regola e non l’inverso; a volte questo non piace nemmeno a me, ma non possiamo farci niente). Sennò, perché mai si dovrebbe dire “Le mille e una notte” invece delle “mille e una notti”? Gli esempi sarebbero moltissimi, riguardo la questione dei mancati accordi di genere e numero.
    Nel caso dell’accordo o non accordo, a volte rilevato come problematico, fra numero del soggetto e numero del predicato, se non ti ho convinta potresti leggere qui: http://www.accademiadellacrusca.it/faq/faq_risp.php?id=4702&ctg_id=93. Ciao.

  14. Vivi Boccionero

    12 Ottobre 2011 a 21:36

    Secondo me non c’hai badato. Period.

    Comunque, stavo pensando, Marchetto… Io, contraria alle liste di tolleranza, sono la Maga Merlin. E tu… tu sei il Re Berluschka di Britaña, che appassionatamente bacia l’anello al Papa di Tomaña e altrettanto appassionatamente lo mette in culo (ameñ) alle suoriñe do Brasil.

    Ricomunque, ora vado. Perché io mi dedico solo ed esclusivamente al RRoby. Io lo amo quel fumettaro.

  15. Michele

    12 Ottobre 2011 a 21:44

    Intervengo solo per puntualizzare la questione lettering.
    Il discorso è complesso. E, per mia esperienza, non lo considererei uno dei problemi del fumetto. Ti assicuro che questi particolari interessano solo a una fetta minuscola di lettori.
    Ad ogni modo:
    1 Ogni editore ha dei correttori di testo che supervisionano il lavoro del letterista. Sono loro a dover essere esperti di italiano e correggere errori del traduttore e a capi sbagliati.
    2 Sicuramente il lettering fatto a mano è più bello ma attenzione. Questo non basta a fare un bel lettering. Nell’esempio bonelliano che hai messo c’è troppo poco spazio bianco intorno al testo (per non parlare dell’interlinea, cioè lo spazio tra una riga e l’altra) e questo appesantisce la lettura.

    • Marco Pellitteri

      13 Ottobre 2011 a 07:55

      Caro Michele,
      grazie mille del tuo commento. Mi permetto di rispondere ai tuoi due punti.
      1 – I correttori dei testi sono indispensabili, su questo credo concordiamo tutti. Tuttavia io nel punto del cahier sul lettering ho sottolineato l’importanza di una conoscenza tecnica, da parte del letterista che esegua il lettering con strumenti digitali, dello strumento di sillabazione del software di impaginazione che egli usa per inserire i testi nelle nuvolette e negli altri spazi della vignetta preposti al loro contenimento; con la giusta regolazione, il problema della sillabazione sparisce quasi del tutto (ci sono però scuole di pensiero secondo le quali nei fumetti sarebbe meglio evitare di spezzare le parole). Se a ciò si aggiunge che oltre alla competenza tecnica, nemmeno la conoscenza della lingua italiana è da considerarsi opzionale, abbiamo il quadro completo: non bisogna dare per scontato che il lettering oggi sia sempre e solo eseguito al computer, visto che esistono autori e case editrici che si avvalgono ancor oggi del lettering manuale. Da ciò consegue che se il letterista non conosce quelle semplici regole grammaticali di sillabazione in base alle quali mandare correttamente a capo le parole, tutto il lettering, nuvoletta dopo nuvoletta, sarà un pasticcio di errori che rallenterà moltissimo il lavoro (correzioni su correzioni). La responsabilità primaria di questo tipo di lavoro è del letterista stesso, non del correttore dei testi, che ha semmai il compito di accorgersi di qualche umana distrazione degli autori, del traduttore, del letterista.
      2 – Quella che segue è un’opinione personale, quindi non vuole contrastare la tua ma solo convivervi in pace. Nell’esempio tratto da Dylan Dog che citi, scelto dalla Redazione, trovo che, per quanto la vignetta sia un caso limite di nuvoletta molto grande e piena di testo, il lettering sia ben eseguito: è visibilmente e vistosamente manuale, ha le sue irregolarità e variabilità, è necessariamente fitto (è una nuvoletta specificamente funzionale al contenimento di un lungo monologo) ed è ben ordinato; la sua visibile manualità si integra a mio parere alla perfezione con la pasta visiva generale della vignetta. È però possibile che lettori abituati a un letttering sempre più «asettico» e arioso perché realizzato al computer con delle font troppo regolari e con interlinee e spaziature troppo ampie (grazie anche a un’eccessiva riduzione del corpo del carattere rispetto alla dimensione della nuvoletta in cui il testo è contenuto, si vedano i manga per come tradotti e curati in Italia in molti casi) abbiano perso familiarità con quel gusto manuale e con quelle proporzioni un po’ più «affollate» del lettering manuale dei fumetti popolari italiani di case editrici come Bonelli, Astorina e altre (sia quelle in attività come Star Comics, sia quelle del passato e che hanno fatto la tradizione del tascabile all’italiana, nel bene e nel male).

  16. Antonio

    12 Ottobre 2011 a 21:50

    Todd Klein oggi digitalizza i propri font e fa lettering al computer.
    Come praticamente tutti i top letteristi in USA.

  17. Valentina

    12 Ottobre 2011 a 21:52

    Negli ultimi anni ho riflettuto spesso su quali siano le cause della situazione del fumetto in Italia. L’ho fatto specialmente da quando ho iniziato a lavorare in biblioteca e mi trovo sostanzialmente d’accordo con questa lista.
    Attualmente, nella Rete Bibliotecaria in cui lavoro, sono disponibili diversi titoli (più di 4000), distribuiti in una o più copie in più di 200 biblioteche.
    Ovviamente in alcune di queste i fumetti sono “sepolti” in scaffali anonimi, ma in altre (e sono sempre di più) sono ben visibili e proposti agli utenti negli scaffali delle novità o nelle bibliografie.
    Nonostante questo, la circolazione rimane bassa, “relegata” a pochi appassionati.
    Nelle biblioteche ci troviamo a fare i conti (letteralmente) con la cronica penuria di risorse e così siamo obbligati a fare scelte drastiche sugli acquisti: si compra ciò che gli utenti richiedono, ciò che ha più probabilità di passare per il maggior numero di mani. E il fumetto viene sistematicamente sacrificato, rendendoci “complici” della sua poca diffusione e promozione.
     

  18. MicGin

    12 Ottobre 2011 a 23:30

    hai riunito molti temi e spunti su cui discutiamo da… anni! per esempio il discorso premi. o traduzioni. spero non finisca nel solito flame… una possibile dodicesima cosa che attualmente fa male al fumetto italiano ;-)

    • Marco Pellitteri

      13 Ottobre 2011 a 14:03

      Perché un flame? Il mio è un normalissimo articolo, la gente lo legge, si fa un’idea, è d’accordo, non è d’accordo, aggiunge altre argomentazioni a supporto o meno, oppure se ne frega e va avanti.

  19. Michele

    13 Ottobre 2011 a 14:41

    Come dicevo, quello sul lettering è un discorso complesso.
    Per esempio, nei manga i balloon sono tendenzialmente verticali e non spezzare le parole è spesso impossibile.
    Invece continuo a considerare il lettering di DD portato ad esempio troppo ordinato, regolare (le doppie sono praticamente identiche, tanto da sembrare un font) e fitto. Preferisco quello di Tod Kleid su Sandman. :)

  20. giorgio trinchero

    13 Ottobre 2011 a 15:54

    ma quella cosa dei font a 4 versioni (ma anche 3 mica sarebbe male) come si fa? cioè, che programmi gestiscono un font così, esistono font del genere fatti da professionisti che magari si possono comprare?

    • Marco Pellitteri

      13 Ottobre 2011 a 17:40

      Un software del genere dev’essere realizzato e programmato, ma è molto semplice da fare, per chiunque ci capisca anche poco di programmazione. Una qualsiasi, piccola azienda di software potrebbe realizzarlo in poco tempo. Questo per quanto riguarda l’algoritmo di rotazione delle varie lettere (se digito la «a» n. 1, la prossima «a» battuta sarà necessariamente quella del tipo «2» e poi quella del tipo «3» e così via). Un altro discorso è il caricare sul software la font manuale: in questo caso, un software del genere che fosse discretamente progettato avrebbe tra le sue funzioni quella di accettare l’incameramento da parte del singolo utente di una font in cui ogni carattere fosse inserito in varie versioni. Mi sembra un’idea così ovvia che probabilmente questo software già esiste da anni e io non lo conosco.

  21. McNulty

    13 Ottobre 2011 a 18:34

    Caro Marco, ho trovato l’articolo interessante, sarebbe bello se ne potesse discutere facendo le opportune valutazioni e commenti, ma con rispetto e coerenza.
    Personalmente non sono d’accordo sul punto 5, anzi, mi danno fastidio le inteviste (specie su FumodiChina) in cui i vari autori ammettono di non leggere più fumetti. Prova ad immaginare Scorsese che non vada al cinema, o Lucarelli che non legga Camilleri! Ben vengano , quindi, i commenti ed i confronti tra addetti ai lavori.
    Anzi, proprio le recensioni di tanti wannabe senza arte ne parte non fanno altro che togliere dignità al fumetto. Questo vale meno per cinema o letteratura, dove la professionalità è più rintracciabile e la distanza dai commenti dei vari forum molto evidente.
    Ammetto di non essere un grande amante dei manga, per cui ho trovato superficiale il concetto del ribaltamento delle tavole. Questo perchè QUALSIASI opera straniera riprodotta in Italia prevede un lavoro di adattamento. I comics sono pensati per formati a 22 pagine, da noi sono generalmente raggruppati in albi da 3 storie e mezzo. La lingua giapponese si legge dall’alto verso il basso, quindi  la traduzione occidentale, che si legge da sinistra verso destra,  è già di per se una forzatura. L’inglese presenta tutta una serie di sfumature ed accenti che la lingua italiana non riesce proprio a riproporre. Insomma, perchè tutto questo accanimento sull’adeguamento del senso delle tavole? Questo tipo di integralismo, se ortodosso, dovrebbe portare alla stampa precisa precisa dei fumetti originali con allegato le opportune traduzioni, ma credo sia una soluzione che nessuno auspichi!
     
     
     

  22. DaZa

    13 Ottobre 2011 a 18:54

    Alcuni punti sono, secondo me, marginali (il 6,  il lettering digitale…) ma nel complesso condivido anche se alla fine è un po’ la scoperta dell’acqua calda: il fumetto non vende perché è brutto.
    Non il linguaggio in sé e magari non tutti i prodotti, ovviamente, ma nella media sì. Di qualcuno si salva la storia, di altri il disegno, magari è bello ma editato/tradotto male o distribuito peggio o costa troppo…  O due, tre, tutte queste cose assieme. E’ simpatico ma già visto. E’ nuovo ma non ha un mercato perché il target di riferimento è stretto, si è perduto o non esiste.
     
    Tutto già detto e ridetto. E la soluzione può essere riassunta così: il mondo professionale del fumetto deve fornirsi di un’identità e uno spirito comune.
    Iniziando con una definizione di “professionale” che includa tutte quelle caratteristiche che distinguono un prodotto serio da uno no (budget verosimili per intraprendere un’impresa editoriale, cultura umanistica di chi pretende di fare comunicazione in ogni forma ecc.)
    Non, come oggi, una miriade di individualità anche in conflitto che vanno dal “sono un professionista perché mi pagano per quel che faccio” al coltivare anime fanzinare, messianiche o che…
    Solo da qui si può partire con trovare soluzioni a problemi piccoli e grossi, attuare politiche promozionali del media fumetto ecc.

  23. giorgio trinchero

    13 Ottobre 2011 a 20:51

    ah, ok, perchè questa cosa del font a più versioni l’avevo gia sentita dire, ma un po’ così, ipotetica, poi non l’ho mai vista. Qui sembrava certa, ma è comunque ipotetica… Se qualcuno lo trova potrebbe mettere un link, a me interessa. Se non costa tanto me lo compro.

  24. Claudio Giovannoni

    13 Ottobre 2011 a 22:14

    A sensazione mia, direi che almeno 4 o 5 punti possano essere semplicemente accorpati in un’unica voce: “poche risorse”. Che generano i problemi di tempo e denaro.

    E’ evidente che se l’investimento di base è basso, e le retribuzioni ai professionisti sono basse, questi saranno costretti ad accettare più lavori contemporaneamente, dedicando ai relativi lavori meno tempo. E poco tempo si traduce in poca qualità. Il traduttore che si supervisiona da solo, il traduttore inesperto, l’editore poco attento, il lettering digitalizzato al risparmio, gli addetti stampa part time, il disegnatore che copia gli altri. Ci fossero risorse, magari certi lavori verrebbero completati in maniera migliore. 

    Il problema quindi è reperire risorse economiche che consentano a tutti di lavorare con la massima professionalità, e che consentano agli editori di potersi affidare a professionisti di qualità anzichè, come spesso accade, a giovani inesperti, vogliosi di accettare quasi qualunque condizione pur di poter mettere una o due righe in più sul curriculum.

  25. Simone Rastelli

    14 Ottobre 2011 a 14:23

    Pellitteri ha ben scritto una lista di doglianze; e certo se ne potrebbero aggiungere altre. Credo Claudio tocchi un punto sanguinante: il fumetto è un mondo povero. Innanzitutto di lettori, e, di conseguenza, di risorse economiche.
    Questo è un dato di fatto, direi.
    Bene. Facciamo un passo avanti, alziamo lo sguardo: che cosa possiamo fare tutti noi per cambiare questo stato di cose?

  26. Alabama

    15 Ottobre 2011 a 01:33

    Grazie per le parole spese in favore delle traduzioni. Da traduttrice apprezzo, e credo che se ne parli sempre troppo poco.
    Sarebbe bello se nelle recensioni dei fumetti comparisse anche il nome del traduttore, o se si valutasse la traduzione come elemento per giudicare l’edizione di un fumetto.
    Sarebbe bello.

    • Lo Spazio Bianco

      15 Ottobre 2011 a 10:56

      Ciao Alabama, grazie del commento. Ci teniamo a sottolineare che dal rilancio del sito, ormai un anno e mezzo fa, segnaliamo sempre i nomi dei traduttori nei nostri pezzi.

    • Alabama

      15 Ottobre 2011 a 17:56

      È vero, voi lo fate, mi scuso per non averlo specificato. Purtroppo siete i soli (attendo smentite, magari!).

  27. Simone Rastelli

    15 Ottobre 2011 a 12:16

    Fra i mali non trova posto alcuna osservazione sui siti web che si occupano di fumetto: ulteriore segno della loro scarsa rilevanza? O della buona educazione di Pilliteri?

  28. Marco Pellitteri

    15 Ottobre 2011 a 16:45

    Oh, il perfido Gabrielli mi ha tolto la facoltà di modificare i commenti! Forse perché ieri ho corretto il mio nome nel commento di non ricordo chi: mi chiamava Pillitteri e io invece sono Pellitteri. O Rastelli, tu quoque?! Due errori: la i invece della e e una sola t invece di due! :-) 

    Comunque trovo che alcuni siti web che si occupano di fumetto abbiano una positiva rilevanza, altri invece poca rilevanza tout court (positiva o negativa che sia). Quindi nell’un caso, i siti web sono un bene per il fumetto, non un male; e anche nell’altro, data la loro irrilevanza, non si può dire siano un male.
    Ecco perché non ne ho parlato.

    • Lo Spazio Bianco

      16 Ottobre 2011 a 12:33

      Hei, giuro che non ho toccato nulla! Prova a riaccedere con le tue credenziali… :)

  29. F

    15 Ottobre 2011 a 23:03

    Concordo pienamente sui punti 9 e 10. 
    Per quanto riguarda la questione delle riviste, che ora sembri stiano tentando una timida (ri)comparsa sulla scena fumettistica italiana, sarebbe interessante assistere a un corretto uso delle potenzialità delle medesime. A mio parere potrebbero essere un ottimo strumento per presentare determinate opere che non troverebbero alcun tipo di spazio in pubblicazioni “singole” nelle case editrici nostrane. Considerando la serializzazione della storia pubblicata in rivista e la possibilità di avere una sorta di multi-pubblicazione (diverse storie in un solo numero) i costi per le differenti pubblicazioni verrebbero decisamente diminuiti (è come andare a un concerto di un singola band o assistere a un festival di più gruppi).
    Ciò che mi auspico è una presa di coscienza prima di tutto dagli autori, che in altri tempi fecero grandi cose, tra cui fondare testate del calibro di Metal Hurlant o scindersi dalle case editrici monopolistiche per aprirne di altre, come Image comics e Top Cow (sappiamo tutti che i brackground storici e geografici erano ben lontano dall’Italia del 2011..ma vabe, fa sempre bene sognare).

    Per il punto delle edicole la distribuzione è un gran problema (il primo problema che potrebbe bloccare sul nascere quella presa di coscienza di cui parlavo prima), qua si parla di leggi e regole non scritte dettate da sindacati e associazioni lavorative, cose assurde che mettono in una posizione di svantaggio le fumetterie e non le fanno “decollare”. L’idea della resa con la cauzione è molto bella e potrebbe attirare anche persone ancora “vergini” rispetto al mondo dei fumetti.

    Il fatto, in fin dei conti, è che mi sembri che tutti, soprattutto gli AUTORI, si accontentino dell’attuale situazione fumettistica italiana (e mondiale) e che cerchino di continuare a vivere guadagnandosi (chi più chi meno) il proprio gruzzoletto per andare avanti. Ma se noi per primi non siamo coloro che vogliono una (ri)nascita del fumetto, quando potremo finalmente giungere a un’evoluzione di questo medium (economica, sociale, artistica, culturale)?
    Se la “rivoluzione” è possibile perchè si sente solo puzza di stagno?

  30. MMS

    24 Agosto 2012 a 17:25

    Nulla d’aggiungere.
    Articolo perfetto. Purtroppo.

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