Danilo Deninotti nasce a Mondovì, in provincia di Cuneo, il 22 luglio 1980. Vive e studia a Bologna tra il 1999 e il 2006 – con una parentesi di un anno in America, in cui fa il lettore di italiano in un'università del Connecticut. Dall'autunno del 2006 vive a Milano. Ha lavorato quasi dieci anni nella comunicazione come copywriter, ha fatto il traduttore freelance, ha collaborato come giornalista musicale per Linkiesta e conduce (insieme a Fabio Deotto) il podcast ChakiChaki – che fa parte del network Querty.
Oltre a Quando ero un alieno e Wish You Where Here, ha pubblicato anche un omaggio a fumetti a Miles Davis, uscito su Pagina99 nel numero del 27 novembre 2014 – scritto insieme a Giorgio Fontana e disegnato da Lucio Ruvidotti.
Chi è Danilo Deninotti e come è diventato autore di fumetti?
La mia avventura nel mondo dell'editoria e della narrazione parte da quando frequentavo l'università a Bologna. Insieme ad Andrea Ferrari (da anni editor di Edizioni BD), avevamo creato una rivista letteraria chiamata Eleanore Rigby, in un periodo in cui c'era una sorta di “buco” nel campo delle riviste: l'esperimento aveva funzionato, tanto che eravamo stati anche inseriti in Voi siete qui, il best off delle riviste letterarie dei Minimum Fax del 2007.
A quel progetto partecipavano anche il nostro amico Giorgio Fontana (Premio Campiello 2014), Filippo Ferrari (il fratello di Andrea, giornalista) e Dario Rodighiero (un altro amico, designer). Grazie a quella autoproduzione tutti noi abbiamo cominciato a muovere i primi passi in questo mondo. Andrea ha iniziato a lavorare in editoria, Giorgio a pubblicare romanzi e io a scrivere e proporre in giro soggetti per fumetti fino a quando ho trovato un riscontro positivo con la storia su Kurt Cobain. Il successo di quel libro mi ha dato l'opportunità di andare avanti e continuare a scrivere.
Successo per certi versi inaspettato, visto che oltre ad avere venduto molto bene in Italia, è stato pubblicato in USA, in Canada e in Spagna nel 2014, è uscito a fine 2015 in Brasile per la casa editrice che pubblica in quella nazione autori del calibro di Bill Watterson e Joe Sacco, e nel 2016 uscirà anche per il mercato francese.
Più o meno questi sono stati gli inizi, poi tutto il gruppo di amici si è spostato in blocco qui a Milano e continuiamo a collaborare tra noi. Per esempio con Giorgio (che recentemente ha anche iniziato a scrivere per Topolino) abbiamo in cantiere qualche progetto assieme e, per uscire un momento dall'ambito del fumetto, tutti insieme abbiamo anche aperto un locale sul Naviglio Grande che si chiama Il Secco (e dove leggenda narra che si servano solo bollicine, n.d.r.).
Prima di diventare un autore, sei stato anche un lettore di fumetti?
Assolutamente sì, anche se forse ho compiuto un percorso meno tradizionale, cioè sono arrivato al fumetto attraverso la narrativa, non solo come lettore ma anche come scrittore.
In realtà sono un lettore di fumetti “tardo”: da bambino, alla lettura di Topolino (che è tutt'ora tra i miei appuntamenti fissi settimanali) e de Il Giornalino, affiancavo la lettura di un classico come Asterix. Ricordo che quando frequentavo la scuola media, il sabato andavo in biblioteca a prendere due o tre volumi alla volta delle avventure del gallo che mi portavo a casa per leggerli la domenica.
A questo è seguito un periodo di totale abbandono delle letture a fumetti, per poi riavvicinarmici con la lettura dei primi fumetti di Davide Toffolo, con la produzione di Coconino e quella di Black Velvet (effettivamente, potreste anche definirmi un lettore un po' fighetto…), oltre a tutti i vari consigli che da sempre mi offre Andrea Ferrari.
Tendenzialmente non sono un lettore di fumetto seriale, seguo ovviamente la Bonelli, anche per motivi di studio, mentre non sono mai stato troppo interessato al fumetto supereroistico statunitense, pur avendone letto negli anni alcune opere principali, soprattutto per studiarne tecnica e linguaggio.
Mi sembra che ci sia un filo che lega il tuo primo lavoro a Wish you were here, il tuo secondo libro a fumetti, dedicato a Syd Barrett e ai Pink Floyd: in Kurt Cobain: Quando ero un alieno ti fermavi nel momento in cui i Nirvana iniziavano il loro percorso musicale, qui approfondisci invece le dinamiche interne dei Pink Floyd e il prezzo del successo. È voluta questa “continuità” narrativa?
Sì. Quando ero un alieno era nato dall'esigenza di parlare di Kurt Cobain in un modo che non era mai stato fatto, cioè raccontandone infanzia e adolescenza, prima del successo con i Nirvana. Per fare questo, mi sono concentrato sul tema dell'amicizia, della ricerca delle persone affini.
Quando, visto il buon risultato di quel volume, mi hanno proposto di scrivere un altro fumetto la mia idea è stata di proseguire sulla medesima strada, andando questa volta a parlare delle dinamiche post successo in un gruppo musicale e, allo stesso tempo, raccontando i legami di amicizia e fratellanza tra persone ma in un'ottica diversa. In Kurt Cobain c'era uno sguardo positivo, mentre in Wish you were here ho voluto raccontare l'allontanamento, la distanza, la mancanza, l'assenza.
Riflettendo su questi spunti mi è venuta quasi subito in mente la figura di Syd Barrett, perfetta per parlare di quei temi, ancora di più perché nessuno aveva ancora scritto una biografia a fumetti su di lui.
Riflettendo su ciò che hai appena detto su Kurt Cobain, cioè il cercare di raccontarlo da un punto di vista originale, non posso non fare un parallelismo con Nevermind di Tuono Pettinato, opera tra l'altro quasi coeva con la tua e con la quale mi sembra avere vari punti di contatto.
Sì, è vero. Devo dire che Tuono si è rifatto tantissimo al libro di Tommaso Pincio Un amore dell'altro mondo, oltre ovviamente a Calvin & Hobbes. Tuono e io ci conosciamo, e solo a cose fatte abbiamo scoperto che avevamo lavorato sullo stesso personaggio. E quando è uscita prima la mia graphic novel e poi la sua, è stato evidente che siamo coetanei, che abbiamo ascoltato lo stesso genere di musica, che abbiamo la stessa percezione sul personaggio di Cobain e che siamo andati a toccare le stesse corde narrative, da fan.
Se sei cresciuto con quella musica, se sei stato fan dei Nirvana, tutte le rappresentazioni stereotipate che sono state date di Cobain non possono che darti fastidio.
Quello che colpisce è il modo nel quale ti avvicini alla figura di Syd Barrett in questo tuo ultimo lavoro: mostri ciò che all'esterno appare del suo buco nero interiore, ma non ti addentri mai nella sua testa con la pretesa di spiegare quali fossero i suoi demoni.
Sai che non ci ho mai riflettuto su questa cosa? Però mi viene in mente una domanda che mi avevano fatto al tempo dell'uscita del fumetto su Cobain, cioè perché avessi raccontato la sua giovinezza e la sua adolescenza. La mia risposta era stata che non ero una rockstar e che solo quando lo sarei diventato, facendomi di eroina e stando insieme a una ex-spogliarellista avrei potuto raccontare il Cobain personaggio di successo!
Per questo libro vale lo stesso ragionamento, fatto sicuramente in modo involontario. Quello che posso conoscere è che cosa è accaduto esteriormente a una persona come Barrett e posso provare a raccontarne le dinamiche, perché alla fine io sono solo un osservatore: quello che aveva dentro di sé, poteva vederlo solo lui. È da qui che arriva anche l'idea grafica degli occhi vuoti, dei buchi neri, che ovviamente è un rimando ai “black holes in the sky” della strofa di Shine on you crazy diamond.
Mi sono davvero limitato a raccontare cose che conosco. Tutti abbiamo dei demoni che ci perseguitano, e o li combatti o ti lasci dilaniare. Barrett si è lasciato sconfiggere dai suoi. Prendi per esempio quando decide di tornare a casa della madre – il classico rintanarsi in un luogo dove ci si sente protetti: è un'esperienza che uno può avere fatto o avere visto fare a qualcuno che conosce, per questo sono riuscito a raccontarla e, credo, a rendere l'idea che la fuga non è mai un'opzione.
Una delle parti peggiori della vicenda di Syd Barrett è proprio da quando decide di sparire e fino alla sua morte (7 luglio 2006, n.d.r.). Molta gente ha continuato a perseguitarlo per capire cosa gli fosse successo. Quindi, anche involontariamente, anche non essendo in prima persona cresciuto con la sua musica e quella dei Pink Floyd, il rispetto per il personaggio e per la sua vicenda, credo di averli avuti.
Hai detto che non sei cresciuto con la loro musica, ma allora qual è il tuo legame con i Pink Floyd?
Risale ai miei vent'anni, al periodo dell'università. Prima i miei ascolti erano rivolti al mondo musicale indipendente, grunge, post hardcore, quel mondo che era stato in un certo modo scoperchiato dai Nirvana.
I Pink Floyd li ho scoperti grazie a un mio coinquilino grande appassionato di Roger Waters con il quale facevamo lunghissime session di ascolto della loro musica.
Insieme ai Grateful Dead, loro mi hanno permesso di allargare la mia conoscenza musicale, di apprezzare la ricercatezza del suono laddove prima ricercavo solo una batteria che picchiava duro. Io adoro il primo disco dei Pink Floyd perché dentro c'è tutto e in un certo senso mi ha permesso di capire e apprezzare di più certa musica che già ascoltavo.
Quali libri o fonti specifiche hai usato come riferimento bibliografico sulla vita dell'artista?
Con questa domanda tocchi un tasto dolente, perché per colpa mia nell'ultima pagina del volume non è stato stampato l'elenco delle fonti bibliografiche come c'era invece nel libro su Cobain: stavolta mi sono dimenticato di mandare il file in casa editrice… speriamo di avere la fortuna di pubblicare all'estero anche questo fumetto, così magari riusciamo a rimediare!
Comunque ho fatto riferimento a una serie di documentari e a una serie di libri. Tra i primi i più famosi sono The story of Wish You Were Here e il Making of The Dark Side of the Moon e poi un documentario più specifico che si intitola Pink Floyd between Syd &the Dark Side. A questi va aggiunto un documentario della BBC, Pink Floyd and Syd Barrett story, che è stato girato mentre lui era ancora in vita.
Passando ai libri, il primo da citare è Crazy Diamond edito da Arcana, poi un libro che è una vera e propria summa, Lo scrigno dei segreti, sempre edito da Arcana, e infine l'autobiografia di Nick Mason, Inside Out.
Mentre eri impegnato nel lavoro di ricerca propedeutico alla scrittura del libro, hai scoperto dei particolari della biografia di Syd Barrett che non conoscevi o che ti hanno colpito e ti hanno fornito spunti interessanti per la tua storia?
C'è un aneddoto famoso – presente anche nella prima stesura della sceneggiatura ma che poi abbiamo deciso di eliminare – che risale a quando David Gilmour era già nella band in affiancamento a Syd. I Pink Floyd devono andare a suonare, se non ricordo male, a Southampton, ma gli altri componenti non passano a prendere Barrett di fatto estromettendolo dal gruppo. In base a questo episodio, ti fai una certa idea delle dinamiche che hanno portato all'esclusione di Syd.
Poi, in realtà, leggendo e ascoltando le interviste, scopri che nessuno dei suoi compagni ha mai davvero voluto mollare Barrett per inseguire la fama. Soprattutto scopri che, al contrario, hanno provato in tutti i modi ad aiutarlo: Roger Waters ha raccontato che varie volte hanno anche provato, inutilmente, ad accompagnarlo da uno psichiatra.
Apprendere fatti del genere mi ha aiutato nella scrittura e a rafforzare il tema di fondo del libro: tra i membri della band c'era un'amicizia sincera, si volevano veramente bene.
Effettivamente, leggendo il fumetto si percepisce sin dall'inizio l'amicizia con Roger Waters, ma si capisce anche lo stretto legame con David Gilmour, sfatando il diffuso luogo comune che tra lui e Syd ci fosse dell'antagonismo.
Sì, era importante per me evidenziare anche l'amicizia che legava Barrett e Gilmour. Tra l'altro, la difficoltà nel restituire tutto questo è stata quella di voler usare scene e frasi realmente accadute e dette, come lo scambio di battute tra Waters e Syd che chiude il libro.
Se sono riuscito in questo mio intento sono contento perché non è stato semplice, neanche per il disegnatore. Penso alla sequenza in cui Waters consiglia a Barrett di rifiatare un momento, di prendersi un po' di tempo per scrivere le canzoni senza per forza dovere andare in tour o in studio. Anche quei dialoghi sono avvenuti davvero, io ovviamente per motivi di sceneggiatura li ho adattati, e la scelta della griglia di dodici vignette uguali di quella pagina, in cui di Syd cambia solo l'espressione, è stata una sfida grafica che aveva l'obiettivo di far capire al lettore il punto di vista di Roger, il suo accorgersi per la prima volta in modo definitivo che Syd è ormai irrecuperabile.
Perché fintanto che lo leggi in una biografia letteraria è un conto, ma il fumetto deve far passare tutto questo attraverso un volto, un'espressione, una reazione: quindi devo dare onore al merito a Luca Lenci che mi è venuto dietro in queste scelte.
Parliamo un po' di Luca Lenci, allora, che in questo libro adotta uno stile ispirato a Paul Pope. Tutte le varie scelte grafiche che troviamo nelle pagine nascono direttamente dalla tua sceneggiatura o sono frutto di un lavoro comune tra te e il disegnatore?
Tutto ciò che vedi nel libro parte dalla sceneggiatura, quindi mi assumo la “colpa” di tutto! Il mio obiettivo era che, graficamente, questo libro fosse completamente diverso da quello precedente.
In Kurt Cobain avevo voluto provare a usare una griglia classica, quasi bonelliana per certi aspetti, con un forte richiamo ad alcuni fumetti scritti da Brian Wood come Local (miniserie in 12 parti edita in USA dalla Oni Press e disegnata da Ryan Kelly, n.d.r.) e The New York Four (sempre disegnato da Kelly, nd.r.).
Con Wish you were here l'idea era di compiere un vero e proprio salto, provando a pensare ogni tavola diversa dall'altra, usando molti piani sequenza e giocando con la struttura della pagina. Devo ringraziare nuovamente Andrea Ferrari, perché quando gli ho esposto questa mia idea, mi ha suggerito una serie di opere da leggere e da studiare, tra cui Elektra lives again di Frank Miller.
Alcune tavole richiamano, o meglio ricopiano spudoratamente, alcune sequenze presenti in quel capolavoro di Miller: per esempio quando nella stessa vignetta ci sono più immagini dello stesso personaggio che si muovono in sequenza, oppure quelle in cui immagini e testo raccontano due cose diverse (la sequenza di Barrett che si allontana dalla casa della madre).
Prima di scrivere una tavola me la disegnavo (male, molto male…). Mi sono fatto una sorta di pessimo storyboard, che è tornato utile in alcuni momenti del lavoro di Luca come integrazione alla sceneggiatura. Lui poi di suo ha aggiunto tantissimo a ogni tavola, magari ampliando le inquadrature o scegliendo un punto di vista dall'alto e lavorando sui livelli di piano.
Dunque, anche Andrea Ferrari in qualità di editor è stato fondamentale.
Assolutamente sì, in primis a indirizzarmi verso le letture giuste e poi nell'aiutarmi a dare un inizio diverso al racconto. In origine, la mia storia cominciava più avanti nel tempo, da quella che poi è diventata la tavola 7, quando i Pink Floyd sono in USA a suonare.
Andrea invece mi ha suggerito di provare a partire prima e insieme abbiamo fatto un lavoro di scrittura a quattro mani dell'incipit del libro.
E la scelta di Luca Lenci come disegnatore come è avvenuta?
Per il volume precedente avevamo fatto fare un po' di prove a vari disegnatori e poi avevamo scelto Toni Bruno – con cui tra l'altro siamo diventati grandi amici. Visto che lì la cosa aveva funzionato, abbiamo ripetuto l'operazione anche in questa occasione e tra i vari disegnatori interpellati c'era anche Luca Lenci, che mi ha colpito sia per il suo stile ancora un po' acerbo, e dunque in divenire, sia per la sua capacità di disegnare rifacendosi a stilemi mutuati dai manga, proprio come Paul Pope al cui stile Luca si ispira moltissimo.
Per fare la prova io non ho inviato nessuna sceneggiatura, ma solo un paio di riferimenti lasciando poi assoluta libertà interpretativa al disegnatore. Lenci mi ha impressionato sia per le inquadrature scelte che per il livello di dettaglio e per il lavoro che riesce a fare con i mezzi toni, con i grigi.
Poi si vedeva che Luca aveva voglia di lavorare e di starmi dietro e, credimi, io sono un vero rompiballe! E poi è stato velocissimo: ha fatto storyboard, matite, chine e colore in cinque mesi.
Nel volume ci sono tantissimi riferimenti che potremmo definire “fan services”: l'immagine del prisma che rifrange la luce, la fabbrica presente nella copertina di Animals…
Ti faccio i complimenti perché sei stato uno dei pochi a beccare quel riferimento. Tra l'altro quella scena è vera: Barrett spesso la sera era solito camminare fino a quella fabbrica.
Oppure la sequenza nella quale un Barrett ormai calvo e imbolsito si taglia le sopracciglia con la lametta come Bob Geldoff in The Wall…
Quella tavola e tutte le precedenti: quelle del palazzo dove abitava Syd, l'inquadratura dell'orologio di Topolino e della mano, le ho mutuate esattamente dalle prime sequenze del film.
Comunque, la domanda che volevo farti è che alla fine tutti questi riferimenti assumono nel libro valenza narrativa o strutturale, come il prisma che rifrange la luce diventa la gabbia della doppia tavola.
Esatto, sono tutte cose volute e ragionate a tavolino. In particolare poi, oltre a quello che dici tu sull'utilizzo del prisma come gabbia, volevo che quell'elemento fosse determinante anche nella tavola successiva, in modo che fosse la luce stessa del prisma a illuminare i Pink Floyd nel momento in cui appaiono sul palco. Un'altra cosa divertente è che in quella stessa pagina, tra il pubblico, si vede in primo piano un tipo con gli occhiali: è Andy Warhol, che era stato realmente spettatore di quel concerto.
Sono tutte cose che mi diverto molto a immaginare e scrivere. Anche la citazione dell'immagine di copertina di Abbey Road dei Beatles, non potevo non farla! Idem per la sequenza nella camera di Barrett quando lui e gli altri prendono l'LSD e tutta la tavola si legge in verticale. È un omaggio a una puntata di Mad Men dove appunto si drogano e dicono più o meno le stesse cose presenti nei dialoghi del fumetto: l'ho fatto per un'amica con cui avevamo riso molto di quella sequenza.
In ogni caso, tutti questi omaggi e riferimenti sono inseriti con l'intenzione di non distrarre il lettore, né tantomeno perché siano obbligatoriamente riconosciute da tutti.
Visto che la musica è un'altra tua grande passione, suggerisci ai nostri lettori una o più canzoni da ascoltare durante la lettura di Wish you were here?
Citare i Beatles è sempre molto banale, ma secondo me i loro primi singoli sono molto adatti, anche in considerazione del fatto che Syd Barrett – come del resto Kurt Cobain – era un grande fan di John Lennon.
Poi posso dirti cosa ascoltavo io mentre lo stavo scrivendo, cioè i Wilco. Questo libro lo associo molto al ritmo delle loro canzoni, soprattutto quello di Kamera contenuta in Yankee Foxtrot Hotel.
Quale sarà il tuo prossimo progetto in ambito fumettistico? Bolle già in pentola qualcosa?
Sto lavorando su alcune cose. Da una parte, come dicevo prima, con Giorgio Fontana stiamo portando avanti un po' di idee a quattro mani, dall'altra ho un paio di progetti in incubazione – uno molto personale e un altro sempre a tema musicale.
Se dovessi consigliare un fumetto da leggere per i nostri lettori?
Quest'anno uno dei fumetti che mi sono piaciuti di più è Sandro di Alice Socal e poi – giusto per non smentire i miei gusti da fighetto! – Poco raccomandibile di Chloè Cruchadet e I pesci non hanno sentimenti di Michele Petrucci. E consiglio tantissimo anche Fidati, è amore, l'adattamento a fumetti che Daniele Serra ha fatto del racconto di Lansdale – un lavoro splendido sia a livello di narrazione che di scelte grafiche.
Grazie per questa bella intervista, Danilo!
Grazie a voi!
Intervista realizzata telefonicamente il 4 gennaio 2016