Se c’è un autore che per tutta la carriera ha tenuto una traiettoria artistica coerente e riconoscibile, improntata su rigore etico e civile, accompagnato da una forte e genuina – direi anche militante – passione per tutti gli aspetti del discorso fumettistico, quello è Claudio Calia. Fumettista, divulgatore, editore, insegnante, un autore teso, per il suo essere e sentire, alla ricerca di una pulizia/non-pulizia formale che sia ugualmente narrazione politica e (auto) analisi artistica. Ossia, forma indissolubilmente legata alla sostanza del narrare, e narrazione intrecciata alla interrogazione e alla sperimentazione del linguaggio fumettistico.
Dalla denuncia di Porto Marghera, passando per l’intervista a Toni Negri, dai reportage dal Kurdistan alla rivendicazione della protesta in Val di Susa, Calia ha messo sulla carta molte delle tensioni che hanno attraversato la vita di questo paese (e non solo) negli ultimi venticinque anni, tanto che Zerocalcare lo indica, non a torto, come “il graphic journalist per eccellenza italiano”.
In questo 2023 arriva la quasi biografia, il racconto della vita, ma soprattutto del lascito di don Andrea Gallo, in un libro di un impatto grafico mai così potente e centrato, probabilmente il lavoro più maturo e più riuscito dell’autore trevigiano.
Una quasi biografia, in cui il senso della misura e il sottrarsi senza scomparire per l’autore erano probabilmente i presupposti obbligati per far (ri)vivere su carta la figura e la vita di don Andrea Gallo. Via segnata per evitare l’agiografia, l’inutile esaltazione che non avrebbe messo a fuoco ciò che ancora oggi, a dieci anni dalla morte, è necessario testimoniare. Ovvero quello che il Gallo ha costruito nella sua Genova e che ancora resiste. Le sue comunità così importanti per la vita di centinaia di persone, per quella fetta di società messa ai margini, quella tanto amata da un altro illustre genovese, spesso citato da don Gallo: Fabrizio de André. E per tempi che stiamo vivendo, non è un esercizio retorico raccontare tutto ciò, anzi.
Dall’intervista in occasione dell’uscita di È primavera. Intervista a Toni Negri nel 2008, la nostra conversazione sul fumetto, sulla politica e sul mondo che ci circonda non si è mai interrotta. La pubblicazione del suo nuovo libro Allargo le braccia e i muri cadono. Don Gallo e i suoi ragazzi ci dà la scusa per riprendere un filo pubblicamente lasciato in sospeso.
Non è la prima volta che rivolgi il tuo sguardo a un aspetto eretico della società e del mondo contemporaneo. La denuncia su Porto Marghera, l’intervista a Toni Negri, la fortezza Europa e il tema delle migrazioni, la lotta NoTav e la sospensione della democrazia in Val Susa, l’esperienza in Kurdistan. E ora un prete, che per quanto unico e speciale, sembrerebbe distante dalla tua esperienza politica e di vita.
Strano no? Nei primi giorni quando si stava delineando come avrei passato i mesi successivi ero io stesso che mi aggiravo per casa chiedendomi tempestato da dubbi “io che faccio un libro su un prete?”. Ma non è un libro su “un prete”: è un libro sul cittadino Andrea Gallo, sul prete don Gallo e sul Gallo, fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto. E poi spero, attraverso la sua figura, di esser riuscito pure a dire qualcos’altro.
Ma precisamente, cosa ti premeva raccontare in questo libro, al di là della figura enorme di Don Gallo?
Don Gallo è una figura che è stata molto popolare in questo paese. Per anni ha rappresentato una voce nello spazio pubblico che oggi, senza di lui, semplicemente non c’è più. In vista dei tempi bui che ci aspettano, io confido che ogni piccola, piccolissima cosa come può essere un libro, una canzone, un film, possa avere anche la funzione di “tenuta”, se non di rilancio, di certi argomenti e posizioni nel dibattito pubblico: la difesa degli ultimi, l’estensione dei diritti, la pace. Oggi queste posizioni sono state epurate da ogni discorso pubblico o ridotte a macchiette ultra-ideologiche.
Se devo pensare ad alcune figure di riferimento per la mia educazione da ormai ex militante politico e pacifista mi accorgo che molti sono stati dei preti: don Gallo, don Tonino Bello, don Ciotti e ovviamente don Milani. È certamente curioso che in questo paese un ateo, pacifista e libertario debba rivolgersi al mondo cattolico per trovare personalità così radicali e intransigenti, quasi inedite nella galassia democratica e di sinistra degli ultimi 30 anni almeno. Il che mi fa dire che don Gallo, pur con la sua grande rilevanza, non sia stato un’eccezione, anzi testimonia in parte in che contesto si sono sviluppate le lotte civili, le istanze democratiche nel nostro paese.
Guarda, ammetto che le mie figure di riferimento stanno davvero altrove, e una delle cose che mi sono ripromesso, per rispetto della figura di don Gallo, è non immischiarmi in questioni di Chiesa, che non conosco e non è il mio mondo. Poi certo, che in Italia non si riesca a mettere insieme la grande spinta solidaristica che unisce le culture di sinistra e cattolica in qualcosa che possa dare un orizzonte al paese è davvero uno scandalo.
Se c’è un aspetto che mi ha colpito del libro è che in realtà tu non hai messo assieme una biografia vera e propria, un racconto canonico della vita di don Gallo, ma lo hai fatto raccontare da chi l’ha conosciuto e in diversi modi gli è stato a fianco. Quasi fosse più importante quello che ha lasciato in eredità, che ancora è presente nella vita della sua comunità e delle persone che la animano. E difatti “i suoi ragazzi” sin dal titolo sono i co-protagonisti di questo libro.
Questa è la prima volta che faccio un libro su una persona che non c’è più. Potevo scegliere una strada più tradizionale, disegnare don Gallo da piccolo, mostrarlo mentre assiste al dialogo tra la madre e il fratello che annuncia la sua adesione alla Resistenza. Questo avrebbe significato lavorare di fiction, immaginando dialoghi a cui non ho potuto assistere. Sarebbe stato un modo dignitoso di affrontare il racconto. Ma, tornando indietro, alle mie perplessità personali sull’essere proprio io a raccontare la vita di un prete (per quanto di strada), mi sono dovuto anche interrogare da un punto di vista materialista su cos’è la vita di una persona, dieci anni dopo la sua scomparsa. E mi sono risposto che le nostre vite sono quello che lasciamo. E basterebbe la Comunità San Benedetto al Porto di Genova per poter dire che don Gallo ci ha lasciato tantissimo. Ma sono anche le persone con cui abbiamo passato il nostro tempo, quanto le abbiamo influenzate, se sono cambiate dopo il nostro passaggio, come le abbiamo cambiate. E don Gallo, è poco ma sicuro, ha cambiato la vita di un sacco di gente. Ed è a loro, ai suoi “ragazzi”, che ho voluto affidare prioritariamente il racconto della sua vita.
Apri il libro con Haidi Giuliani e di fatto dichiari che la tua Genova è strettamente legata al G8 e a quella cesura nella vita democratica che sono stati quei giorni del Luglio 2001. Io non c’ero a Genova, avevo dei turni al lavoro, ma ho vissuto quelle lunghissime giornate attaccato a Radio Popolare e ancora oggi mi sento addosso la chiara sensazione che mi/ci diceva che sarebbe iniziato (e probabilmente col senno di poi, era già in atto) un lungo declivio che ci avrebbe portato a questa Italia, cinica, disillusa, sconfitta. Tornando lì, e aprendo il libro con la madre di Carlo Giuliani, parlando del Gallo, in qualche modo riannodi i fili di un discorso che in realtà non si è mai interrotto.
Mi piace pensare che ci sia un pugno di lettori che mi legga sempre, e che possa ritrovare questo filo attraverso i miei lavori. Il mio giudizio su Genova poi è meno pessimista: poco dopo abbiamo dato vita al più grande movimento mondiale contro la guerra, solo per dire. Sono stati letteralmente smontati dei centri di permanenza temporanea per i migranti. Abbiamo bloccato i treni della guerra nelle stazioni. Certo è che l’11 settembre del 2001 ha cambiato il mondo in un modo che non riuscivamo a prevedere, prima.
Quali sono state le scelte di metodo che ti sei imposto per la realizzazione di questo libro? Ci sono stati dei vincoli che ti sei fissato, una scelta sul linguaggio da utilizzare?
Senso della misura. Sulla scrittura e ancora di più sul disegno (che poi ne parlo come fossero cose diverse anche se così non è). Ho rifuggito ogni tentazione di spettacolarizzazione, ogni semplice banalizzazione di questioni complesse. È stato come impormi di lavorare con un peso legato al polso: nella realizzazione delle interviste sapevo che dovevo privilegiare il gesto singolo, il singhiozzo, il momento di silenzio, piuttosto che la frase ad effetto o la posizione dinamica. Calma, mi sono imposto di lavorare con calma.
Non solo nel disegno, ma proprio nel concreto della messa in scena sulla tavola, la tua figura – che è sempre stata un soggetto presente nei tuoi fumetti, a ricordare e sottolineare il tuo punto di vista, l’essere quasi protagonista di quello che racconti – a me pare più inserita sullo stesso piano narrativo, quasi fosse finalmente in quel mondo. Ho sempre avuto l’impressione, magari errata, che prima tu recitassi dentro le tavole, quasi ti servisse un espediente retorico per accompagnare la narrazione. Funzionava anche prima, solo che adesso, così, mi pare che sei passato alla tua età adulta di personaggio dei fumetti.
È una cosa a cui mi stai facendo pensare tu, e probabilmente hai ragione. Dal pupazzetto barbuto che faceva il vigile urbano tra le informazioni dei miei primi libri, il salto penso sia stato con Kurdistan. Dispacci dal fronte iracheno in cui però, forse in eccesso, ho proprio teso a “scomparire” dalla pagina. Qui credo di avere trovato una buona mediazione che funziona, per me.
Quanto ha influito la nuova casa editrice, Feltrinelli, nella realizzazione del libro? Pensi che dopo tanti anni con Becco Giallo, questo cambio abbia avuto peso sulla qualità del lavoro che dovevi presentare?
Guarda, Feltrinelli, come BeccoGiallo prima, mi ha dato fiducia. E per come lavoro io, senza fiducia non si va da nessuna parte. Vedi di solito un libro nasce con l’interesse di un editore per il tuo lavoro, tu proponi un argomento, lui ti risponde e via, cominci a lavorare, magari fai un trattamento, una scaletta, un soggetto. Con me questo non è possibile: una volta scelto l’argomento e deciso che ci farò un libro, io parto con i miei viaggi e le mie interviste e saranno loro a determinare i contenuti e la scaletta del libro, solo successivamente a quando le avrò fatte tutte e sintetizzate per la messa in pagina. Da quando mi dici “sì” a un libro possono passare sei mesi senza che tu ne sappia nulla, per poi trovarti di fronte a una bella mole di materiale già “pronto”. Se a quel punto non ti piace, io ho lavorato per niente per mesi. Per cui per lavorare con me ci vuole fiducia, molta, per me e da me. Ti deve piacere quel che ho fatto prima e ti devi fidare di me, e io devo pensare che non cambierai idea appena vedrai il frutto del mio lavoro.
Detto ciò poi, oltre a una questione meramente economica che però non è proprio di poco conto rispetto alla tranquillità che puoi permetterti nel dedicarti a un progetto, la cosa che mi ha più entusiasmato di Feltrinelli è stato l’editing: 4 o 5 giorni con 4/5 editor letterari tutti impegnati sul mio libro, tutti con la volontà di farlo uscire nella sua forma migliore possibile. Questo non è possibile in una casa editrice più piccola, ognuno ha mille ruoli e seguire tutto può essere complicato. Per darti l’idea: il libro si conclude con un dettaglio della lapide di don Gallo. Ecco, l’accento sulla “e” della scritta sulla lapide l’ho dovuto ridisegnare: sul mio libro è giusto, sulla lapide è sbagliato. Questo è il livello di editing con cui ho avuto a che fare, e mi ha entusiasmato un sacco.
Mi raccontavi qualche anno fa che ti stavi un po’ stancando di scrivere di fatti reali e avevi questa necessità di virare sulla fiction, come poi hai fatto e stai facendo con la tua serie autoprodotta I baccanti. Questa deviazione, secondo me, ti ha portato benefici, sia da un punto di vista grafico, arrivando a una tavola e un disegno meno underground, meno fumettoso e di nicchia. E credo, anche la fluidità del tuo raccontare si sia evoluta. Cosa ne pensi?
Non mi sarei aspettato un mio ritorno alla forma “libro di graphic journalism” così presto, in effetti. Il problema, quando fai questo tipo di libri, è che rischi di diventare cinico. Non voglio pensare a una sfiga ogni anno come pretesto per fare un libro, dovevo sganciarmi da quel meccanismo, faccio fumetti perché amo il fumetto. Non so se il mio disegno sia “meno underground” ora. Mi sembra che per i lettori di fumetti mainstream appaia strano come al solito. Poi certo, i fumetti si impara a farli facendoli, sentivo che avevo voglia di raccontare storie di fiction, l’ho fatto (e continuerò a farlo), ho prodotto un sacco in relativamente poco tempo e credo che sia questo ad avere inciso: più lavori, più problemi affronti nel risolvere una tavola, più ne esci maturo e sicuro di quel che fai.
In una delle nostre chiacchierate, mi hai raccontato di una tua storia proposta per Linus (Appunti da Arbat Camp, 23/25 luglio 2019, Linus 3/2020) su cui Igort ti ha fatto sudare prima di essere pronta per la pubblicazione. Questo doverti rapportare con un editor così importante e autorevole, è stato metaforicamente uno di quei gradini che vedo nell’evoluzione del tuo lavoro?
L’esperienza di Linus è stata importantissima. Ci ho pubblicato tre volte, ognuna con Igort come editor, autore che adoro da quando ero piccino e serializzava L’inferno dei desideri su Fuego. I suoi consigli sono stati sempre preziosi e mi hanno aiutato a centrarmi di più sulla narrazione, lasciandomi alle spalle alcuni orpelli grafici inessenziali. Non lo ringrazierò mai abbastanza. La prima storia che ho proposto era di sei tavole: durante la lavorazione sono diventate 2, per darti l’idea.
Poi c’è anche quello che dici. Abbiamo discusso molto su quale dovesse essere la frase finale di una mia storia. Continuavo a proporre alternative perché quella che proponeva lui, penso ancora, non era, semplicemente, da me. Non ho saputo proporre una soluzione che lo convincesse e così quella storia si chiude con una frase sua. Che non c’è niente di male e lavorare con un editor implica una disponibilità a questo tipo di interventi, ma continuo a non riuscire a rileggere quella storia semplicemente perché si chiude con una frase che non mi appartiene, non nel senso che non l’ho detta, ma proprio nel senso che probabilmente non mi esprimerei mai così. Succede. Ma da Linus e l’esperienza con Igort io ci ho guadagnato senz’altro più di quanto loro ci abbiano guadagnato da me. Devo solo un ringraziamento a tutti.
Proprio stamani ho voluto rileggere dopo tanti anni Dossier Tav, perché ricordavo un ottimo ragionamento sul senso del graphic journalism all’interno del mondo dei media e dell’informazione, sulle sue potenzialità e sui suoi limiti. Il che denota, a tuo favore, un approccio consapevole e non ingenuo alla materia. Il libro uscì nel 2012 e nel frattempo c’è stato un proliferare e un espandersi di libri che possiamo incasellare nel genere graphic journalism. Dal tuo punto di vista, a che stato dell’arte siamo?
Secondo me finché non usciamo dalla logica del ghetto, il “libro di giornalismo a fumetti”, “la rivista di giornalismo a fumetti” siamo in una posizione senz’altro in crescita, probabilmente comoda, ma che non è ancora quella ottimale. Una vera legittimazione di questo campo particolare del fumetto ce l’avremo solo quando i quotidiani, i settimanali e i mensili, siano essi cartacei o digitali, cominceranno a ospitare pezzi giornalistici realizzati a fumetti.
Però qualcosa del genere si vede su Internazionale o su Il domani, che però prevedo la tua obiezione, si è affidato a un nome grosso come Zerocalcare, quindi scegliendo credo la via facile. Quello che in genere vedo, anche in ottime iniziative come La Revue Desinée Italia, è che è una certa standardizzazione in questo ambito. Ossia, ci sono anche ottimi racconti dove però prevale più l’aspetto giornalistico e – non sempre – un po’ meno quello autoriale.
Secondo me ancora facciamo confusione col termine “giornalismo a fumetti”, che è una pratica, non una professione. Siamo in un paese in cui il giornalismo è ancora legato a una corporazione, a un tesserino mentre il graphic-journalism è legato – secondo me – più al concetto di “journey”, di viaggio. In questa situazione, c’è chi confonde le acque e dice “se non sei giornalista non puoi fare giornalismo”, come se il racconto della realtà fosse in qualche modo riservato a pochi eletti. Io non sono un giornalista, ma molti miei lavori attengono pienamente alla categoria merceologica che chiamiamo “giornalismo a fumetti”. Per cui, per dire, non essendo giornalista è improbabile che pubblicherò mai sulla Revue Dessinée, che richiede un giornalista ai testi e un fumettista ai disegni. Probabilmente questa impostazione fa sì che vengano fuori storie più “ingessate”, come le definisci tu. Forse è solo questione di un meccanismo che va rodato, e di gemellaggi tra giornalisti e autori che possono essere più o meno azzeccati.
Quello di Zerocalcare è un paradosso che non riesco a sciogliere neppure io: è potente, fenomenale che Zerocalcare sia in grado di portare i suoi contenuti (che dal punto di vista politico e di movimento sono anche miei) ovunque. Deve continuare a farlo. Allo stesso tempo mi secca la solita, provinciale mentalità italiota, per cui appena qualcuno si rivela un fenomeno di successo è da spolpare fino all’osso. Sono contento che Zerocalcare porti i contenuti miei e della mia comunità sotto gli occhi di centinaia di migliaia di persone. Vorrei che la stampa giornalistica puntasse a consolidare il fumetto come ospite delle proprie pubblicazioni guardando un poco più in là rispetto al singolo fenomeno di successo, cercando di consolidare e rendere “progetto” quel che oggi è solo una simpatica estemporaneità legata a pochi, pochissimi nomi.
Hai sempre affiancato il tuo lavoro di fumettista al tuo attivismo nei centri sociali, con Radio Sherwood, accanto ai vari movimenti antagonisti della tua area geografica. Pensi che le due cose si siano influenzate a vicenda, ossia, potevi immaginarti un fumettista diverso partendo da questi presupposti?
Anche quando leggevo i supereroi alle elementari il fumetto è sempre stato, per me, un linguaggio. Cioè, letteralmente, “un modo per dire le cose”. Ora in vista dei cinquant’anni non mi considero certo un attivista, per il rispetto che devo a tutti quelli che si sbattono veramente in questo paese. Ho avuto però un lungo periodo, di svariati anni, in cui avevo abbandonato la mia passione più forte, il fumetto, per l’attivismo. Manifestazioni quotidiane, resistenze agli sgomberi, assemblee, quante assemblee! I fumetti continuavo a leggerli e a frequentarli, ma non attribuivo importanza alla mia voglia di farli. Poi credo fu un Happening Underground a risvegliarmi dal torpore: ero stato invitato a esporre in virtù di alcuni fumettini autoprodotti a fine anni ‘90 e questo mi ha dato un nuovo entusiasmo. Ho raccolto i miei materiali in tre albi intitolati Nuvole, era il 2004 credo, e ho partecipato. E proprio al Leoncavallo in occasione della mostra ho conosciuto Emiliano Rabuiti e pochi mesi dopo davamo vita al primo “Sherwood Comix Festival”, una pubblicazione e un appuntamento dal vivo nell’ambito del più grande festival musicale del Veneto. Proprio in quegli anni emergeva il concetto del giornalismo a fumetti con Joe Sacco. Ho avuto anche occasione di partecipare a un corso intensivo di tre giorni con lui come insegnante, e finalmente avevo trovato un modo per fare fumetti e parlare alla gente che frequentavo, insieme. Se non hai proprio voglia di leggere l’Uomo Ragno perché mai dovrei costringerti a farlo? Però se andiamo in Palestina due volte all’anno contro le politiche del governo di Israele forse il libro di Joe Sacco te lo leggi. Così quando i miei due mondi hanno fatto pace tra loro è stato quello che considero il mio vero inizio.
Sei talmente in movimento e irrequieto che, oltre ad avere una splendida famiglia, lavori come fumettista e progettista di siti web, vai in giro per il medio oriente a tenere workshop sul fumetto e da qualche anno hai messo in piedi una micro casa editrice di promozione sociale Oblò aps, con quale pubblichi fumetti e saggistica. E sei pure editore del magazine web (Quasi) degli amici comuni Paolo Interdonato e Boris Battaglia. Non è un po’ troppo?
È decisamente troppo. Il mercato del fumetto è piccolo, troppo piccolo. Se vuoi provare a vivere almeno vicino alle tue passioni tocca sbattersi un sacco. È solo dopo qualche anno di iper produzione così intensa che posso affermare oggi, “vivo di fumetti”. Non dico “vivo facendo fumetti” ma ormai anche tutta la mia attività informatica è diretta al fornire servizi per l’editoria, senza contare gli innumerevoli laboratori in Italia e all’estero. Poi (Quasi) e Oblò invece sono un piacere: non penso che il mercato sia sempre la risposta a tutto, anzi. Abbiamo bisogno di ambiti dove le idee abbiano il tempo di maturare, e il frenetico mondo dell’editoria non è quello più adatto. Oblò è quell’ambito, per me. Quello senza l’ansia delle vendite e del successo, quello fatto perché ci piace farlo.
Sarà che sei stato un militante politico, che hai frequentato i centro sociali, collaborato a Radio Sherwood, animatore di Sherwood Comix ecc. ecc. e che quindi, posso dirlo con una certa dose di certezza, anche nella tua carriera di fumettista la collaborazione e le contaminazioni sono un tratto importante. Non conosco molti fumettisti che abbiano questo desiderio di comunità, e come dicevo, probabilmente la tua formazione politica e culturale pesa in questo. Quanto è importante per te non essere un fumettista isolato dal contesto e dai propri colleghi?
Secondo me il fumetto ha ancora troppi passi da fare per essere realmente equiparato agli altri linguaggi per poterci permettere di pensare ognuno al suo. Che poi è come ragiona la maggior parte di noi, ma mi è sempre piaciuto sentirmi parte di una piccola nicchia che si rivolge a molt*.
Noto che esistono nel panorama fumettistico italiano in questo senso dei germi di resistenza culturale con diversi esempi di autoproduzioni, di collettivi, che al di là della diversa qualità descrivono comunque una certa vivacità e una voglia di andare oltre certi discorsi editoriali paludosi. C’è qualcosa che ti ha colpito maggiormente in tal senso nell’ultimo periodo?
Lo ammetto, più aumenta l’età più vecchi sono i fumetti che leggo. Da un lato cerco ossessivamente di recuperare tutto quello che volevo leggere da piccolo, che allora non potevo permettermi. Una vera malattia. L’ultimo trofeo di cui sono molto orgoglioso è la raccolta completa delle due serie dedicate a Conan della Comic Art. E poi semplicemente ho un grande interesse per la storia del fumetto, per cui recentemente ho adorato La strana morte di Alex Raymond di Dave Sim che mi ha indotto a completare e cominciare a leggere (probabilmente ci metterò anni!) tutto Terry e i pirati di Caniff e tutto il Rip Kirby di Raymond. Nell’incedere delle pagine rimango a bocca aperta, ogni volta come fosse la prima. Per colpa tua – su tua amichevole segnalazione di un’offerta online, diciamo – sto aspettando giusto in questi giorni che mi arrivino chili di libri di vecchie strisce dei personaggi della DC Comics degli anni 40 e anni 60. Se dovessi consigliare qualcosa in edicola oggi, a parte la coraggiosa resistenza culturale di Linus, direi la ristampa di Martin Mystere delle Edizioni IF (Castelli è il più grande sceneggiatore di fumetti italiano, ci ho messo tanto a rendermene conto, ma va detto) e il Rip Kirby settimanale di Raymond. Va lodata l’esperienza di Gigaciao appena fondata da Sio, Fraffrog, Dado e Giacomo “Keison” Bevilacqua, potrebbe essere davvero storica e i ragazz* si sono addossati una bella responsabilità sulle spalle. Riguardo alla scena attuale di autoproduzioni etc… non vedo più distinzioni così nette come un tempo: Alessio Lo Manto o Emiliano Barletta sono autori che si muovono qua e là con disinvoltura e mi sentirei di consigliarli sempre, per esempio. Mi lascia sempre un po’ interdetto verificare come una rivista come Antifa!nzine possa uscire per anni, essere presente a fiere e coinvolgere decine di autor*, in silenzio. Va molto, molto bene, non le mancano i lettori eppure non ne parla mai nessuno. E allora tornando alla tua domanda con un coup de théâtre rocambolesco: non sono sicuro che le novità che cerchi si considerino, o vengano considerate, parte del “panorama fumettistico italiano”.
Se pensi, addirittura un fenomeno commerciale come Sarah’s Scribbles ha colto così impreparata la critica del fumetto che forse posso ricordare essere citata solo in un articolo di (Quasi) 1. E parliamo di un fenomeno mondiale, mentre sappiamo tutto della più oscura pubblicazione da edicola che nasce senza contesto e senza programmazione a lungo termine. Ci sono autori come Edo Massa, Cheit.jpg, Diari di Brodo, Icaro Tuttle, Takoua Ben Mohamed, Ernesto Anderle e davvero tanti, tanti altri che magari ancora non conosco, che parlano letteralmente a centinaia di migliaia di persone, che fanno indubbiamente “fumetti” e, semplicemente, i loro lavori si diffondono in situazioni che il mondo del fumetto riesce raramente a intercettare.
Parlavamo prima della tua deviazione de I Baccanti, che riprende un’idea di molti anni fa e che dichiaratamente è il tuo tentativo (riuscito) di fare della fiction con venature neanche troppo nascoste socio-politiche. E allo stesso tempo che abbia un formato, quello dell’albo, che rimanda a un’impostazione popolare, proprio in antitesi alla confezione prestigiosa del graphic novel da libreria. E anche questa è una presa di posizione tutt’altro che secondaria.
Nel mio mondo ideale dovresti uscire con un nuovo numero almeno ogni paio di mesi. Perché non lo fai?
Perché il mercato non lo regge. I Baccanti vende bene, quanto basta per produrre un numero e pure mettere da parte qualcosa, ma vende lentamente. Per funzionare come dici tu servirebbe che all’uscita del nuovo numero tutti gli interessati lo comprassero subito, e così via ogni due mesi, o anche ogni mese (se funzionasse non avrei nessun problema a mollare tutto e dedicarmi solo a quello). Semplicemente è impossibile. Anzi, sul sito Oblò – APS, essendoci anche le spese postali, spesso i lettori attendono più uscite per ammortizzare le spese di spedizione, che è pienamente in loro diritto, ma se un numero ci mette sei mesi a vendere quelle 250/300 copie che consentono all’operazione di reggere, non posso uscire con altri tre incrociando le dita, al buio, mentre devo ancora diffondere quello. Mi piacerebbe tanto essere in un mercato più sano e florido, avrei voluto fare la mia serie indipendente autoprodotta, avrei voluto imitare Dave Sim con Cerebus, avrei voluto servirmi di una distribuzione. Ma il nostro contesto è totalmente diverso. Non rinuncio. Devo solo adattarmi alla realtà. I Baccanti continuerà a uscire, il loro mondo si è aperto ad altri autori e vedrete presto novità, fino a che l’anno prossimo, auspicabilmente, uscirà il terzo numero realizzato da me. E così via, negli anni, voglio che questo sia il mio progetto di lungo, lunghissimo respiro. Senza fretta, senza martirio: ogni volta che un numero sarà pronto uscirà. Poi, quando ci saranno un certo numero di pagine, gli arretrati verranno raccolti in paperback per i nuovi lettori, andando man mano a sostituire gli albi. Per cui chi legge è avvisato: la pubblicazione originale de I Baccanti è quella in albetti, destinati a scomparire nel tempo. Se volete i primi due numeri così come sono stati concepiti (e il crossover con gli Harsh Comics di Officina Infernale) è il momento di sbrigarvi, ne sono rimasti pochissimi.
Intervista condotta via mail tra giugno e luglio 2023.
Claudio Calia
Nato nel 1976 a Treviso, si occupa di fumetti e siti internet dagli anni ’90. Ha curato diverse antologie di fumetto indipendente e realizzato vari libri, la maggior parte con BeccoGiallo Editore. Due di questi, Caro Babbo Natale… scritto da Luana Vergari e pubblicato da Black Velvet Editrice, e È primavera, sono stati tradotti all’estero, rispettivamente in Spagna e Stati Uniti.
Ha raccontato storie dal Petrolchimico di Porto Marghera all’attualità dei Centri Sociali in Italia, specializzandosi in graphic journalism e sperimentando, insieme al poeta Lello Voce e al musicista Frank Nemola, i territori della comics poetry.
Frequentemente insegna a corsi, per enti pubblici e privati, di fumetto, giornalismo a fumetti, SEO e Web Marketing e scrittura persuasiva per il web.
È presidente della Associazione di Promozione Sociale per la divulgazione del linguaggio del fumetto Oblò – APS. (tratto da www.claudiocalia.it)
NdR: non possiamo esimerci da citare anche un paio di nostri articoli: www.lospaziobianco.it/diventare-adulti-tavola-alla-volta-sarahs-scribbles-sarah-andersen e www.lospaziobianco.it/sarahs-scribbles-sente-adulto ↩