Carmine Di Giandomenico, abruzzese classe 1973, debutta nel mondo del fumetto nel 1995 disegnando la miniserie Examen, su sceneggiatura di Daniele Brolli. In seguito ha collaborato con Alessandro Bilotta lavorando a Giulio Maraviglia, La Dottrina, Romano e La landa degli aviatori. Tra il 2004 e il 2005 scrive, sceneggia e disegna l’opera in due libri dal titolo Oudeis per la casa editrice saldaPress, che rivisita l’Odissea omerica in chiave moderna. Sempre nel 2005 inizia la sua collaborazione con la Marvel Comics, realizzando varie miniserie e What if su personaggi come Capitan America e Wolverine. Nel 2006, in collaborazione con il co-sceneggiatore Zeb Wells, realizza la miniserie da lui ideata Battlin’ Jack Murdock, che rinarra le origini del personaggio di Daredevil viste attraverso gli occhi del padre,il pugile Jack Murdock.
Nel 2008 ritorna a collaborare con Alessandro Bilotta per la realizzazione del Dylan Dog Color Fest #2 , che segna il suo debutto sul personaggio della Sergio Bonelli Editore. Nel 2009 disegna due miniserie dedicate al personaggio di Spider-Man Noir, rivisitazione del supereroe negli ‘30-’40 del secolo scorso e l’anno successivo lavora a Invincible Iron Man #500, che segna il ritorno del villain il Mandarino nella serie regolare. Nel 2011 è tra gli autori di Fantastic Four #600, numero commemorativo per i cinquant’anni di vita del quartetto.
Nel 2015 interrompe il suo sodalizio professionale con la Casa delle Idee e passa alla DC Comics, diventando il il disegnatore principale della serie The Flash scritta da Joshua Williamson, collegata al rilancio Rebirth che nel 2016 ha gradualmente coinvolto tutti gli eroi dell’universo supereroistico DC.. Nel 2016 su Dylan Dog Color Fest viene ospitato un remake de Il lungo addio (Dylan Dog #74) da lui ri-disegnato per l’occasione su sceneggiatura di Paola Barbato. Nel 2017 diviene disegnatore e copertinista della serie Orfani: Sam, scritta da Roberto Recchioni. Attualmente è al lavoro sul progetto Leone – Appunti di una vita insieme a Francesco Colafella, che verrà pubblicato nel corso del 2019 da ManFont.
Approfittando della nuova edizione de La Dottrina, curata da Feltrinelli Comics, abbiamo fatta una chiacchierata con Carmine Di Giandomenico su quell’esperienza che dista ormai quindici anni nel passato e sulla sua carriera che si snoda tra Italia, USA e progetti personali.
Bentornato su Lo Spazio Bianco, Carmine.
A oltre quindici anni di distanza dalla prima pubblicazione, che cosa può raccontare oggi La Dottrina ai lettori contemporanei? Qualcosa di diverso rispetto al periodo storico in cui fu concepita?
Difficile sapere che cosa possano percepire i ragazzi di oggi de La Dottrina, perché credo che ogni sensazione, percezione dal buio al chiaro, abbia una propria interpretazione personale e singola. Sicuramente l’opera punta a rappresentare tutte le paure innate dei personaggi, di ogni suo protagonista, paure nell’avvicinarsi alla scoperta delle loro emozioni e dei pensieri autonomi che sono stati soffocati per anni da un sistema asettico e anaffettivo, dove crescere ed essere indipendenti spesso fa più paura di un pericolo tangente.
Se dovessi realizzare La Dottrina nel 2019, pensi ci sia qualcosa in particolare che rifaresti allo stesso modo e qualcos’altro che invece cambieresti, più o meno radicalmente, nel tuo stile?
Rivedendola oggi, la ridisegnerei totalmente… Ma anche no, perché rappresenta un percorso, un passaggio mosso di pari passo con Alessandro Bilotta: non è solo un albo a fumetti o un libro illustrato. È un volume che rappresenta la voglia di sperimentare e le giornate passate a ragionare sul come raccontare una delle più belle storie scritte da Alessandro. La Dottrina è anche uno spaccato di ricordi di quello che eravamo e che oggi siamo. No, in fin dei conti, non cambierei nulla.
Che cosa ricordi sulla lavorazione del fumetto? Come si svolgeva il lavoro tra te e Bilotta?
Andavamo a braccetto, si partiva dalla trama di Alessandro e poi io fornivo i miei consigli, che erano sempre molti: alcuni venivano sposati e altri scartati. Una parte del lavoro a quattro mani per rendere l’opera la migliore possibile.
Durante la lavorazione de La Dottrina, tu e Bilotta avevate utilizzato qualche riferimento specifico, letterario o cinematografico?
Io ho spulciato tutte le pitture dei futuristi italiani, con le indicazioni di Alessandro ben chiare e precise da seguire, tra foto, lettere, font e colorazioni varie. Un mio interesse è stato quello, nel trasporto grafico, di creare un’opera visiva in crescendo e in trasformazione, come se i pensieri e le emozioni dei personaggi stessi piegassero il tratto e il tempo per renderli più solidi. Leggendola, credo lo si percepisca.
Examen, Giulio Maraviglia, Oudeis, Battlin’ Jack Murdock, Dylan Dog, The Flash, Leone: tappe – solo per citarne alcune – del tuo percorso artistico e professionale fino ad oggi. In questa linea ideale dove collocheresti La Dottrina, non tanto da un punto di vista cronologico ovviamente, quanto piuttosto come elemento indicatore di come si era sviluppata la tua carriera fino ad allora e come ha proseguito poi.
Non posso collocarle come mi chiedi: ogni pubblicazione ha un tempo, un percorso di vita, e ogni frammento di vita ha un ruolo determinante. Questo sia come narratore che come disegnatore. Il lettore può fare una catalogazione per gusto personale, ma da autore ogni singolo frammento è importante come il primo. La Dottrina è un opera che ha una sua forgiatura e una forza differenti e distanti da tutte le altre. E non credo sia corretto collocarla, come non lo è collocare le altre. La Dottrina è stata un esperimento e, soprattutto, un’emozione inseguita e da raggiungere con forza in un periodo diverso, passato, di un me differente, adolescente e pronto a buttarsi nella mischia senza aver paura di farsi male.
Sei stato per parecchio tempo il disegnatore di The Flash, a partire dal rilancio Rebirth del personaggio da parte della DC Comics, e nella tua gestione grafica della testata hai lasciato il segno “inventando” un modo inedito per rappresentare nelle tavole la velocità alla quale si muove Barry Allen . Com’è nata l’idea di quella scelta grafica e, più in generale, che conclusioni puoi trarre dalla tua esperienza sul personaggio?
The Flash per me non è stato solo un percorso professionale, ma di vita: mi ha lasciato e tolto tanto. Ha avuto un effetto flash point nella mia vita. Ma, detto ciò, è stato divertente cercare di rendere la particolarità del personaggio, la velocità sfuggente e distorta, come un fulmine appunto. E resterà per sempre un’esperienza professionale indimenticabile.
Sappiamo che sei un appassionato di Superman e che un tuo “sogno nel cassetto” sarebbe quello di scrivere e disegnare una storia dell’eroe. Con l’augurio che tale desiderio possa, più prima che poi realizzarsi, chi tra gli autori tuoi colleghi attualmente al lavoro sulle testate dell’Uomo d’Acciaio ti piace e, più in generale, quali sono gli autori anche del passato che hanno contribuito al mito di Superman che ti hanno colpito di più, se non ispirato?
John Byrne, con tutto il ciclo originatosi da Man of Steel, che trovo tra le storie più fresche e belle ancora oggi, in cui l’autore canadese ha ridisegnato la psicologia del personaggio rendendolo vero e sincero, come dovrebbe essere. Mario Puzo che nella sceneggiatura del primo film, assieme a Richard Donner, ha definito il primo fallimento di Kal-el, con la morte del padre.
Joeph Loeb con Superman: stagioni, che ha riportato la freschezza di Byrne nel personaggio. Infine Grant Morrison, che ha riportato l’icona del kryptoniano nelle atmosfere di una fantascienza Anni Trenta, ma con sviluppi moderni sfruttando la gabbia e la forza del comics.
Sul disegno non dico nulla, perché fino ad oggi Superman ha avuto illustratori sopra la media e di altissimo livello.
Ti muovi con straordinaria disinvoltura tra il fumetto “serial-popolare” italiano e quello statunitense. A questi lavori alterni progetti autoriali come è stato Oudeis e come sarà Leone. Il tuo approccio professionale cambia a seconda dell’ambito in cui ti trovi a lavorare e, più in particolare, quali sono le differenze o i punti di contatto tra il metodo di lavoro italiano e quello statunitense, ovviamente riferito al fumetto seriale?
Boh, io disegno e basta…Ah! Ah! Ah! Scherzo, da professionista cerco di mettere la mia disponibilità e il mio operato a beneficio della storia che mi viene affidata, restando fedele a ciò che lo sceneggiatore vuole raccontare. Quando sono autore unico, il discorso cambia: la storia la sviluppo personalmente e non mi serve una sceneggiatura da seguire, perché seguo tutte le sensazioni che voglio raccontare. Questo potrebbe sembrare più semplice ma in realtà è più complesso, perché ci ragiono e ne parlo per molto tempo, e fino a quando non trovo che le cose siano a registro, non muovo un passo. Ma, per iniziare a raccontare una storia tutta mia, devo trovarci dentro una sfida con me stesso, altrimenti resterebbe un semplice esercizio.
Leone – appunti di una vita arriverà nel corso di questo 2019. Puoi raccontarci qualcosa di questo progetto, da che esigenza è nato e che cosa vorrete raccontare tu e Francesco Colafella?
Leone nasce e sarà realizzato a quattro mani, che vuol dire che lo disegnerò assieme a Francesco. Parlerà della vita, o meglio, di alcuni appunti di vita del suo bisnonno. L’unica cosa che posso dire è che non sarà una trama storica e lineare, ma avrà una struttura fluida.
Se un giovane lettore di oggi avesse la fortuna di trovarsi tra le mani un albo di Examen degli anni ’90, anche senza leggere i credits non avrebbe nessuna difficoltà a riconoscere la tua mano nelle tavole.
Già a vent’anni avevi uno stile personale e riconoscibilissimo che è rimasto costante per tutta la tua carriera, pur affinandosi e maturando grazie a lavoro ed esperienza logicamente. Come si è formata quella tua cifra stilistica così peculiare fin dagli esordi?
Inizialmente osservando i grandi maestri, da autodidatta. Poi, una volta avuta la mia prima opportunità professionale e iniziando il lavoro vero, ho capito che il disegno non era così importante, perché contava la capacità narrativa. Il mio tratto non credo sia così particolare né tantomeno un disegno fisicamente estetico, però spero che arrivi al lettore e che sia funzionale alla sequenzialità. Miro maggiormente a quello, alla sequenzialità narrativa.
Rispetto ai tuoi inizi, com’è cambiata – se è cambiata – la strumentazione tecnica che usi per lavorare?
Di quali strumenti ti avvali oggi?
Oggi elaboro tutto con Wacom, cioè con il digitale, quasi indispensabile per le accelerazioni produttive del mercato. Sono un autore che ha vissuto l’epoca del passaggio dal metodo tradizionale analogico a quello digitale. Ma fatemi dire che questo poco importa, perché se non hai basi solide dettate dalla vecchia scuola dove devi sporcarti le mani, i supporti digitali aiutano, è vero, ma mettono anche in evidenza tutte le lacune. Non sono assolutamente contrario all’utilizzo della tecnologia, basta solo sapere come utilizzarla per migliorare l’idea che si vuole inseguire.
Oltre a Leone, puoi dirci su che cosa stai lavorando al momento e che cosa dobbiamo aspettarci per il prossimo futuro?
Per ora non saprei. Dopo Leone credo che mi metterò al lavoro su un’altra mia storia personale che vorrei prendesse vita.
Grazie infinite per il tuo tempo e le tue risposte, Carmine.
Intervista realizzata via mail nel mese di aprile 2019