“Se non siamo più come ci siamo amati,
non sapremo mai quel che saremmo stati” (Tutto in un abbraccio – Claudio Baglioni)
L’anno era il 1992, il mese novembre. In edicola usciva il numero 74 di Dylan Dog, Il lungo addio, seconda storia nata da un soggetto di Mauro Marcheselli1, che Tiziano Sclavi aveva trasformato in una sceneggiatura per i disegni di Carlo Ambrosini.
La collana dedicata all’Indagatore dell’incubo aveva appena compiuto sei anni di vita e quei lettori che avevano amato il personaggio e le sue storie sin (quasi) dall’inizio – la maggior parte dei quali adolescenti intorno ai 14 anni – avevano da poco varcato, o stavano per farlo, la soglia dei loro venti anni.
La canzone degli amori infelici…
Il lungo addio confermava, per l’ennesima volta, quale perfetto e arcano tempismo Sclavi avesse saputo regalare alla sua creatura e la capacità dell’autore di parlare al cuore di un’intera generazione di adolescenti. Un tempismo che faceva sì che le storie di Dylan affrontassero argomenti e sentimenti che i suoi lettori sentivano così vicini e preponderanti in quella stagione della loro vita tra la fanciullezza e l’età adulta.
Quella storia non era da meno e in essa Marcheselli e Sclavi (che in coppia hanno realizzato alcuni tra le migliori storie di Dylan Dog) affrontavano forse quella che ancora oggi è rimasta la storia d’amore definitiva di Dylan, e creavano Marina Kimball, uno dei personaggi femminili più amati di tutta la serie. Soprattutto, davano una veste adolescenziale a quell’amore di Dylan, facendo vivere attraverso l’Indagatore dell’incubo stati d’animo e sentimenti molto vicini alla maggior parte dei suoi lettori.
E ammazziamo il tempo e ammazza noi quel tempo indietro…
A ventiquattro anni di distanza, come si può affrontare la riproposizione di una delle storie che sono annoverate tra le classiche del canone dylandoghiano?
La risposta convincente arriva da Ancora un lungo addio, rilettura a colori in 32 pagine di quel Dylan Dog #74 a opera di Paola Barbato e Carmine di Giandomenico, che esce nel numero 31 della collana di collaterali della Gazzetta dello Sport Dylan Dog – I colori della paura.
La sceneggiatrice milanese ha affrontato questo compito nell’unico modo sensato. La storia originale è talmente memorabile agli occhi degli appassionati e dunque qualsiasi tentativo di confronto con essa che ne prevedesse una riscrittura avrebbe portato a un risultato insoddisfacente, soprattutto perché Il lungo addio nella compiutezza del suo sviluppo narrativo è già perfetto.
Tuttavia, in quella storia, Sclavi aveva fatto procedere il racconto anche attraverso alcune elisioni, alcuni passaggi volutamente lasciati inespressi tra le righe della sceneggiatura. L’autore pavese ancora una volta legava lo schema narrativo scelto per il suo racconto con il contenuto dello stesso: l’omesso, il non detto rifletteva quella condizione sentimentale espressa da Dylan e Marina, quel non voler sapere, quel preferire di non avere una risposta definitiva, leitmotiv dei due personaggi tanto nella loro adolescenza quanto nell’età adulta. Così, era il lettore chiamato a riempire quei vuoti affascinanti e significativi – che hanno aperto alla Barbato la possibilità di scrittura di un ampliamento di quel racconto, di una narrazione dei “non detti” della versione originale.
E da lì l’autrice ha scelto di partire, come confermano le sue parole:
“[Quello di ampliare la storia originaria] è stato il primissimo approccio: ribaltare il punto di vista e mostrare la storia con gli occhi di Marina non sarebbe bastato. C’erano anse e spazi che invece consentivano di vedere cose che in nulla avrebbero modificato l’originale. È stata una scelta molto naturale.”
Ecco che dunque la Barbato continua a far oscillare il racconto tra presente e passato, come l’originale, presentandoci molte delle stesse scene viste nelle pagine di Dylan Dog #74 ma da un punto di vista diverso. Questo spostamento di prospettiva permette di mostrare al lettore particolari inediti o nascosti che in un certo qual modo aprono alla narrazione di momenti da collocarsi tra una sequenza narrativa e l’altra della storia di Marcheselli e Sclavi, o che ampliano alcune scene lì raccontate.
Anche la sceneggiatrice milanese punta sul ritmo dei dialoghi e degli scambi tra Marina e Dylan e, come Sclavi, ne spezza efficacemente il ritmo dinamico con le riflessioni tratte dai pensieri dei due protagonisti adolescenti. Ma è anche brava a ritagliare un ruolo significativo a Robby, personaggio che nella storia originale era semplice strumento narrativo per muovere gli eventi, e che qui assurge a una tridimensionalità caratteriale nell’arco di sei vignette di un’unica tavola che la Barbato gli regala.
Perché dietro a un gran finale serve sempre un bel teatro
L’epilogo della storia de Il lungo addio chiudeva in modo perfetto quella narrazione. Difficilmente era possibile aggiungere qualcosa di più, anche a livello di impatto emotivo, a quel finale tipicamente sclaviano che scioglieva in modo naturale i nodi della trama imbastita nelle pagine precedenti.
La Barbato però è stata brava anche in questo, e per il suo racconto breve confeziona un finale credibile che da un lato mantiene e conferma il lirismo di quella chiusura creata dagli autori originari, e dall’altro ha l’enorme pregio di rendere questa storia vicina al sentire dei lettori che allora avevano vent’anni, ma oggi sono degli adulti di quaranta.
In questa operazione c’era il rischio di cadere in toni melensi e fintamente romantici, data la voce prettamente adolescenziale della storia originaria. Il finale pensato dalla Barbato evita questo passo falso con il semplice inserimento delle tre vignette di chiusura della storia che regalano a tutta la vicenda un nuovo significato, non in antitesi con quello di ventiquattro anni fa, ma anzi in perfetta armonia.
La stessa autrice, su questa scelta, rivela:
“L’idea è stata di Mauro Marcheselli, dato che la storia originaria è tanto sua quanto di Tiziano. Mi ha suggerito anche di porgerla nella maniera più delicata, così da poter dare una chiave di lettura diversa all’estenuante rincorsa di Dylan rispetto a Marina e al suo passato. E del resto questa è una storia “altra”, e ci può stare.”
Come mettersi di schiena a quel falsario del ricordo
A reinterpretare le splendide tavole di Carlo Ambrosini in questo nuovo racconto è stato chiamato Carmine Di Giandomenico. Rispetto ad Ambrosini – maestro dello stile bonelliano di cui è stato uno degli autori che negli anni ne hanno “codificato” il canone – il disegnatore abruzzese, grazie alla varietà delle proprie esperienze professionali e ai lavori realizzati per il mercato statunitense, ci regala un Dylan molto personale e soprattutto imposta le tavole giocando fra un’applicazione molto strutturata della griglia e una sua interpretazione più libera.
Laddove ne Il lungo addio Ambrosini giocava molto con la mezzatinta, per differenziare le scene ambientate nell’adolescenza dei protagonisti da quelle che si svolgevano nel presente narrativo, Di Giandomenico lavora sulla possibilità offerta dal colore, inserendo una patina seppia nelle sequenze con i giovani Dylan e Marina, che rimanda a qualcosa lontano nel tempo.
Per il resto, Di Giandomenico, come ci rivela lui stesso, fa la scelta di allontanarsi completamente dal modello originario di Ambrosini:
“Ho evitato completamente di visualizzare ogni sua vignetta dell’albo originale. Tranne per un paio, dove erano richiesto dalla sceneggiatura di Paola Barbato. Questo per evitare influenze e ansie che potessero frenarmi.
Ho pensato solo ed esclusivamente a inseguire le emozioni che Paola voleva raccontare, cercando di dare una mia visione grafica della trama.
Ovviamente il lettore affezionato e appassionato metterà, come è giusto, nel naturale ordine delle cose, e a confronto le due storie e stili grafici. Ma permettetemi di dire che Paola ha sviluppato una trama a sé stante. E di conseguenza ho cercato di dare un taglio completamente distante da quello del Maestro Ambrosini per dare maggiore valore alla storia di Paola.”
In generale, i corpi rappresentati da Di Giandomenico sono molto più atletici e scolpiti di quelli de gli stessi personaggi ne Il lungo Addio, suggerendo le radici della formazione e delle esperienze professionali d’oltreoceano del disegnatore. Il suo Dylan adolescenziale è molto più adulto nel fisico di quanto non lo fosse quello di Carlo Ambrosini e forse dei vari personaggi è quello che più si discosta visivamente dalla storia originale, quasi in una sorta di “avvicinamento” o di specchio per i lettori che nel 1992 per la maggior parte avevano 20 anni e oggi invece sono entrati nei loro 40:
“Stilisticamente ho voluto realizzare un Dylan completamente differente da quello del numero 74. Portarlo a una dimensione, passatemi il termine, moderna. Più dinamico. Un Dylan che sia figlio dei nostri giorni. Come una sorta di upload del carattere giovanile, togliendolo dalla classica raffigurazione del ragazzo gracile e disadattato. Questa scelta l’ho presa una volta letta la trama. In più teniamo conto che questo albo-storia è come uno “specchiarsi al rovescio”. E chi guarda potrebbe ricordare Dylan in forme diverse. In fondo, proprio come il lettore di ieri che conserva gelosamente le emozioni del Il lungo addio. Ognuno di noi ha fatto propria quella storia, e, se la ricordiamo senza sfogliarla, ognuno di noi la ricorderà a modo suo, facendo proprie sia le fattezze dei protagonisti sia le emozioni.
So che verrò criticato per questo. Ma se ci si sforzasse di non andare al semplice confronto si capirebbe il perché della sua fisicità più adulta.”
La scelta del disegnatore, seppur magari possa scontentare qualche lettore, si inserisce perfettamente e si lega a quella della Barbato legata all’epilogo della storia, di fatto contestualizzando all’oggi un racconto iniziato ventiquattro anni fa.
Cento, mille addii
Se un limite può essere visto in Ancora un lungo addio è quello di essere un racconto legato a doppio filo alla storia originaria e dunque completamente e pienamente apprezzabile in tutte le sue sfumature solo da coloro che hanno letto Dylan Dog #74. Perché, in effetti, gli stacchi e i non detti presenti anche nella storia della Barbato e di Di Giandomenico se appaiono affascinanti per chi conosce già la vicenda, possono diventare ostici per chi invece ne è all’oscuro.
D’altronde, è il formato comic book di 32 pagine a imporre il cambio di passo , a determinare una “evasione” ragionata dei ritmi originali. E proprio l’universo dei comic book americani, dove la pratica del remake è stata ingegnerizzata e portata a livelli industriali, ci indica il modo corretto di leggere l’operazione di Barbato e Di Giandomenico. Vi siete mai chiesti quanti autori si sono confrontati con le origini di Superman o Batman? Quante volte ci è stata (ri)raccontata quella storia? Bob Kane, così come Siegel & Shuster, hanno perso da tempo il monopolio di quei miti originali. Serialità e riscrittura sono due facce della stessa medaglia.
Così, in fondo, potremmo dire che Ancora un lungo addio non è il remake dell’originale di Sclavi, Marcheselli e Casertano, quanto invece una sua riscrittura alternativa. È solo uno degli infiniti “addii” che Dylan e Marina si sono dati nello spazio bianco tra le vignette, che ciascuno di noi da lettore può immaginare come vuole.
E nella differenza tra l’opera originaria e la riscrittura sta il fascino della nuova versione che offre una doppia possibilità. Per il lettore quella di andare a recuperare quella storia, se ancora non l’ha mai letta, e per la SBE quella di proporre presto in un bel volume da libreria i due racconti uno dietro l’altro, magari con un titolo che potrebbe essere Un unico lungo addio.
Abbiamo parlato di:
Dylan Dog – I colori della paura #31
Ancora un lungo addio
Paola Barbato, Carmine Di Giandomenico
Gazzetta dello Sport/SBE, febbraio 2016
36 pagine, brossurato, colore – 1,99 €
ISSN: 977203959622960031
[Ringraziamo Paola Barbato e Carmine Di Giandomenico per le loro dichiarazioni.]
la prima era stata quella pubblicata nel settembre 1992 in Dylan Dog #72 – L’ultimo plenilunio ↩
Massimiliano
18 Febbraio 2016 a 09:27
Mi piace tantissimo che abbiate utilizzato come titoli versi di canzoni di Claudio Baglioni…Claudio il mio cantante preferito, Dylan il mio fumetto preferito, e non dimentichiamo che già si sono incontrati ne Le Vie dei Colori magicamente disegnata da Claudio Villa
la redazione
18 Febbraio 2016 a 12:22
Senza dimenticare che Di Giandomenico fece i disegni per Patapàn, il sito web di Claudio Baglioni!
Massimiliano
18 Febbraio 2016 a 12:45
ed anche quelli di Un Piccolo Natale in più la raccolta di Natale di tre anni or sono, ho anche il su autografo nel cofanetto!!!
la redazione
18 Febbraio 2016 a 20:53
Ci arrendiamo! ;-)