Dopo l’enorme successo di Deadpool & Wolverine, che a luglio 2024 ha deliziato i fan riportando sullo schermo l’iconico Artigliato Canadese interpretato da Hugh Jackman, tocca ora al quarto film stand alone di Capitan America tentare di conquistare il favore del pubblico. Con un nuovo regista (Julius Onah), un nuovo volto dietro la maschera dell’eroe a stelle e strisce (Sam Wilson, interpretato da Anthony Mackie) e le stesse atmosfere da thriller spionistico che hanno fatto la fortuna dei precedenti capitoli, era lecito essere cautamente fiduciosi in merito alla buona riuscita del progetto. Purtroppo qualcosa dev’essere andato drammaticamente storto, perché Captain America: Brave New World non è solo un film deludente ma potrebbe tranquillamente ambire al podio dei peggiori prodotti MCU usciti dopo Avengers: Endgame. E non è che la concorrenza non sia serrata.
Si sa che il coinvolgimento del pubblico dipende in larghissima parte da quanto accattivanti siano i personaggi e purtroppo proprio il cast rappresenta la prima nota dolente di Brave New World. Infatti tutti i personaggi -senza eccezioni- mancano totalmente di tridimensionalità e questo a causa di una grossolana mancanza a livello di scrittura: non hanno niente che li definisca, all’infuori dello specifico ruolo che ricoprono all’interno della storia. Il protagonista, Sam, viene ritratto come un eroe integerrimo che combatte per la giustizia e salva gli innocenti. E basta. Stop. Qui inizia e finisce la sua caratterizzazione. Nessun accenno ad altri aspetti della sua vita che possano arricchirlo di ulteriori sfaccettature, nessun fatal flaw attorno al quale sviluppare un arco narrativo che possa portare a un’evoluzione del personaggio, niente di niente. Anche quei timidi tentativi di cucirgli addosso una personalità più definita falliscono miseramente, perché il film non perde occasione per contravvenire alla regola “show, don’t tell”. Si limita cioè a enunciare i fatti a parole, senza alcun riferimento visivo a supporto. Ad esempio, la missione di Sam per dimostrare l’innocenza dell’amico Isaiah (Carl Lumbly) poteva essere uno spunto interessante, in grado di traslare l’intera vicenda su un piano personale ed emotivamente coinvolgente. Peccato che il rapporto tra i due appaia fin da subito poco credibile, proprio perché la loro amicizia esiste solamente a parole, senza che venga mai mostrato concretamente (tramite flashback o altri espedienti) come si sia sviluppata o come si manifesti nel presente. Di conseguenza quel coinvolgimento emotivo che il film vorrebbe generare negli spettatori finisce inevitabilmente per evaporare.
Come detto, questo è un problema che interessa praticamente tutti i personaggi; sarebbe inutile fare l’elenco delle criticità di ognuno. Comunque il punto fondamentale è che se una sceneggiatura fallisce nel dare ai suoi personaggi una caratterizzazione che vada oltre il mero ruolo che ricoprono, se non si consente loro di avere difetti, relazioni, una vita, diventa impossibile per il pubblico percepirli come persone concrete in grado di generare empatia. Ciò che rimane sono solo sagome bidimensionali al servizio della trama.
Ironicamente, per fare un paragone con un personaggio ottimamente delineato non occorre nemmeno andare troppo lontano ma basta rimanere all’interno del MCU e volgere lo sguardo niente meno che a Tony Stark. Vero, se l’alter ego di Iron Man ha riscosso un tale successo tra i fan dei film Marvel, il merito è da attribuire in larghissima parte all’istrionica interpretazione di Robert Downey Jr.. Tuttavia anche il modo in cui il personaggio è stato gestito a livello di scrittura e caratterizzazione non è affatto trascurabile. Infatti in ognuna delle pellicole a lui dedicate ha sempre dovuto fare i conti con difficoltà personali che lo hanno tenuto saldamente ancorato a una dimensione prettamente umana. Nel primo film l’aver sperimentato sulla propria pelle gli orrori della guerra lo ha portato a maturare come individuo, in Iron Man 2 ha dovuto affrontare i suoi problemi di alcolismo, nel terzo capitolo si è ritrovato attanagliato dagli attacchi di panico. In breve, Stark è un genio, miliardario, playboy, filantropo ma è anche un essere umano fallace. Uno spettatore, anche disattento, riesce a percepire quando un personaggio è ben scritto, quando ha sfaccettature che gli danno spessore, e non può che rimanerne intrigato.
Vale la pena, invece, soffermarsi sul cattivo, Samuel Sterns, portato sullo schermo da Tim Blake Nelson. Uno dei villain meno riusciti di tutta la produzione Marvel Studios. Manco a dirlo, è anch’egli afflitto dai medesimi problemi descritti finora. Le sue motivazioni legate al desiderio di vendetta nei confronti del presidente Ross (Harrison Ford) appaiono incredibilmente aleatorie e poco credibili, perché, ancora una volta, tutta la back story che dovrebbe dare loro consistenza viene unicamente raccontata, senza che venga mai mostrato nulla dei suoi trascorsi. A questo si aggiungono un’interpretazione a dir poco sciapa e un lavoro di make up che, tentando di dare al personaggio un look a metà strada tra l’eccentricità dei fumetti e una visione più realistica, finisce per renderlo solamente grottesco. Ma a parte tutto ciò, c’è anche un altro motivo che contribuisce in maniera significativa a rendere Sterns un antagonista altamente dimenticabile ed è la totale assenza di una base comune sulla quale sviluppare il conflitto con l’eroe e che possa generare aspettativa nello spettatore.
In un blockbuster d’azione di questo tipo, uno degli espedienti più efficaci per introdurre un cattivo e far sì che il pubblico lo percepisca come una minaccia tangibile, meritevole di interesse, consiste nel mostrarlo nell’atto di sopraffare l’eroe avvalendosi degli stessi mezzi che quest’ultimo padroneggia. Ad esempio, Hulk è un campione di forza bruta e nella scena iniziale di Avengers: Infinity War Thanos lo sottomette facilmente usando la forza bruta. In Mission Impossible: Phantom Protocol, Ethan e la sua squadra vengono dipinti come dei maestri nelle tecniche di spionaggio e durante la missione al Cremlino l’antagonista utilizza quelle stesse tecniche di spionaggio per ribaltare la situazione contro gli eroi.
Beninteso, non vuol dire che sia impossibile rendere interessante un conflitto in cui eroe e cattivo sfruttano capacità diverse ma questo richiede un livello di competenza che gli scrittori di Brave New World palesemente non hanno.
In questo caso, Sam viene mostrato come un eccellente soldato, esperto nel combattimento e nelle tattiche militari, mentre la sua nemesi è un gracile individuo che può controllare le menti altrui. Come detto, manca una base comune sulla quale sviluppare il conflitto che in questo modo perde di plausibilità, l’antagonista non riesce a imporsi come una minaccia tangibile agli occhi degli spettatori e di conseguenza questi ultimi non hanno motivo di sentirsi coinvolti o anche solo interessati a ciò che succede sullo schermo. Tant’è vero che in tutto il film non vi è mai nemmeno un momento in cui Sam venga messo in palese difficoltà dalle azioni del nemico, non si ha mai una sensazione di reale pericolo o di timore per le sorti di Cap e compagni.
La situazione è talmente tragica che, nel tentativo di innalzare il livello di tensione e intrattenimento in vista del terzo atto, a un certo punto si decide di estromettere Sterns dalla narrazione senza troppe cerimonie per sostituirlo con un’altra, più nerboruta minaccia. Esatto, si tratta di quel Red Hulk, alterego di Ross, sbandierato in tutto il materiale promozionale nei mesi precedenti all’uscita della pellicola. Purtroppo neanche questa trovata riesce a convincere, perché il gigante rosso si riduce a essere nient’altro che il solito, scontato mostro di CGI presente in quasi ogni terzo atto di quasi ogni film di supereroi che venga prodotto da dieci anni a questa parte. Vero, in questo caso funziona leggermente meglio rispetto, per esempio, a Doomsday di Batman v Superman o al demone-drago di Shang-Chi, perché il pubblico ha avuto modo di conoscere il presidente Ross nel corso delle due ore precedenti e di sviluppare un minimo di legame emotivo.
Resta però il fatto che anche Red Hulk condivide con i personaggi sopracitati il medesimo problema: non ha alcun build up. Viene cioè introdotto in maniera estemporanea solo alla fine, senza alcuna apparizione pregressa che possa metterne in luce la forza e le capacità. Ne consegue che, quando inizia lo scontro nel climax del film, lo spettatore si ritrova senza punti di riferimento che gli consentano di valutare il grado di pericolosità di questo nuovo nemico e se debba essere in apprensione o meno per le sorti del protagonista, cosa che finisce inevitabilmente per smorzare il suo coinvolgimento nella battaglia.
Certo, è ragionevole supporre che le capacità dell’Hulk rosso siano equiparabili a quelle della sua controparte verde ed è quindi molto probabile che la stragrande maggioranza del pubblico, avendo già familiarità col personaggio, abbia comunque un’idea abbastanza chiara di cosa aspettarsi. Nondimeno, la regola “show don’t tell” rimane sempre valida: senza riferimenti visivi, tutto il resto sono solo parole e speculazioni aleatorie. Si potrebbe obiettare che la necessità di conoscere personaggi ed eventi pregressi per godersi appieno ogni prodotto sia uno dei requisiti fondamentali su cui si basa il Marvel Cinematic Universe e che quindi ci si debba aspettare che determinati elementi vengano dati per scontati. Questo però, traslando la questione su un piano più generale, solleva un quesito: fino a che punto questo “patto col pubblico”, legato all’interconnessione tra le varie produzioni e alla necessità di avere una visione d’insieme, può giustificare le mancanze strutturali dei singoli film? E quando invece si finisce col tirare troppo la corda e diviene lecito evidenziare tali mancanze?
La risposta però è soggettiva; sta a ognuno decidere se e in che misura accettare questo compromesso. Tuttavia l’analisi di un’opera che voglia essere il più oggettiva possibile deve basarsi unicamente su ciò che questa offre a chi ne fruisce, senza venire influenzata da fattori esterni all’opera stessa. Nel caso di specie, al di là di tutte le possibili considerazioni collaterali, rimane il fatto che affidarsi esclusivamente alle conoscenze pregresse degli spettatori per generare coinvolgimento e aspettativa attorno al climax del film, senza mostrare nulla precedentemente che aiuti a cementare tali sensazioni, è un errore di storytelling.
In realtà, non sono solo i personaggi a soffrire di una scrittura mediocre ma è un limite che si estende alla sceneggiatura nel suo insieme. La progressione della storia è infatti troppo lineare, tutto avviene esattamente come ci si aspetta, senza colpi di scena o sottotrame di rilievo. Per dire, sarebbe bastato approfondire il personaggio di Ruth (Shira Haas), l’ex Vedova Nera al servizio di Ross, fornendole delle motivazioni personali dietro l’acredine che dimostra nei confronti di Sam ed estendendone il ruolo all’interno del film. Ciò avrebbe aggiunto un elemento di imprevedibilità potenzialmente in grado di carpire l’interesse di chi guarda. Invece tutto si mantiene su un livello estremamente superficiale, questo conflitto viene risolto con disinvoltura già a metà film e da lì la storia prosegue senza deviazioni su quell’unica strada già prestabilita.
Essendo questo fondamentalmente un film d’azione, sarebbe lecito aspettarsi che almeno le coreografie dei combattimenti siano confezionate con perizia. Duole invece constatare che, anche in questo frangente, Brave New World offre solo delusioni, in primis per via di una realizzazione tecnica scadente. Registicamente infatti i combattimenti sono confusionari e piagati da un montaggio febbrile che rende difficile seguire l’azione che si dipana sullo schermo. Intelligibilità ulteriormente minata da una fotografia che in qualche occasione diventa troppo scura o si avvale di una fastidiosa illuminazione sfarfallante.
Il secondo motivo per cui le sequenze action deludono le aspettative è che appaiono tremendamente generiche e questo perché non sfruttano mai le caratteristiche dell’ambiente nel quale si svolgono. Ad esempio, il combattimento contro i soldati che segue al primo faccia a faccia con Samuel Sterns si svolge in un laboratorio di un campo militare ma avrebbe potuto tranquillamente collocarsi in una scuola, in un resort, in un impianto nucleare, su un’astronave e non sarebbe cambiato assolutamente niente. La coreografia dello scontro non prende mai in considerazione l’ambiente circostante, il quale diviene una mera cornice, ma si limita a proporre continuamente attacchi corpo a corpo, piroette e acrobazie con lo scudo. Tutte cose già viste e riviste in ogni altro film di Capitan America o addirittura in ogni altro film d’azione. Francamente, questa è un’occasione sprecata, perché costruire una scena d’azione in modo da integrare in essa le peculiarità della location che la ospita significa conferire unicità alla scena stessa. Più una scena appare unica e più diviene memorabile; viceversa, più sembra generica e più è destinata a venire dimenticata.
Per rendere cristallino il concetto, si può citare Argylle, l’ultimo lavoro di Matthew Vaughn. Il climax del film si svolge su una petroliera e durante uno scontro del petrolio fuoriesce e si sparge sul pavimento, rendendolo scivoloso. A quel punto, non potendo rischiare di usare armi da fuoco, la protagonista inizia a pattinare sul petrolio, affrontando i nemici con armi bianche e mosse di danza.
Ecco, questa è una scena che rimane subito impressa proprio perché è unica. Sfrutta le caratteristiche dell’ambiente per distinguersi dalla massa, per offrire qualcosa che nessun altro film d’azione è in grado di offrire. Brave New World non lo fa mai e come diretta conseguenza si finisce per dimenticarsi di quanto appena visto quasi immediatamente.
A onor del vero, c’è una sola sequenza d’azione abbastanza riuscita: la battaglia aerea sopra l’Oceano Indiano. Non è basata su una peculiarità dell’ambiente, bensì del protagonista, vale a dire la capacità di volare, cosa che la rende sufficientemente innovativa, rispetto a quanto visto ai tempi in cui era Steve Rogers a portare lo scudo. Aggiungendo il setting diurno e una regia mediamente più centrata, bisogna riconoscere che riesce a regalare un buon grado di intrattenimento.
Per tirare le somme, è inutile usare giri di parole. Captain America: Brave New World è un film sbagliato. È un lavoro grossolano sotto praticamente tutti i punti di vista, tanto che occorre scavare in profondità anche solo per trovarne un piccolo pregio. Sicuramente la colpa è anche dei numerosi inciampi produttivi e rimaneggiamenti a cui è andato incontro ma se si deve valutare il prodotto così come è stato rilasciato al pubblico, allora il verdetto non può che essere una perentoria bocciatura.
Abbiamo parlato di:
Captain America: Brave New World
Regia di Julius Onah
Storia di Rob Edwards, Malcolm Spellman e Dalan Musson
Con Anthony Mackie, Harrison Ford e Giancarlo Esposito
Marvel Studios, 2025
Live action, 118 minuti