Perdonate il vostro articolista, per essersi fatto irretire dalla pigrizia ed aver rimandato così al lungo la presentazione di questo bellissimo volume. Uscito ormai da tre anni presso Adelphi, Il Libro della Giungla a Londra, di Bhajju Shyam è comunque facilmente reperibile nelle librerie: vi consiglio pertanto di procurarvelo, perché vale assolutamente la pena sfogliarlo, ammirare le immagini, leggere le note dell’autore e riflettere.
Il volume raccoglie in una sorta di diario sedici dipinti del pittore indiano (della comunità gond, ci avvertono i curatori, Sirish Rao e Gita Wolf) Bhajju Shyam, che racconta il suo soggiorno di due mesi a Londra, nel 2002, per affrescare le sale di un ristorante. Per Shyam è l’incontro con un mondo sconosciuto: nel tempo libero, che strappa al lavoro con qualche riluttanza (“Quelli del ristorante continuavano a ripetere che dovevo prendermi un paio di giorni di riposo per andare a vedere la città. Ma io proprio non me la sentivo. Dovevo finire“), l’autore osserva, registra, tenta di interpretare e capire gli usi e le tradizioni della città che lo ospita e dei suoi abitanti. La comprensione passa necessariamente attraverso la traduzione dei comportamenti nel linguaggio della propria esperienza, e qui per “traduzione” possiamo intendere veramente l’atto di trasportare (in questo caso un’esperienza) da un mondo ad un altro. Solo riuscendo a trasformare quell’avventura in un racconto comprensibile agli altri membri della sua comunità, Shyam potrà diventare un Bhujrukh, “il bardo tradizionale dei gond, che ripete all’infinito i nostri miti e le nostre canzoni“. E questo, a sua volta, farà sì che quel suo viaggio entrerà a far parte dei miti della comunità e Shyam ne sarà al tempo stesso protagonista e cantore.
Due anni dopo, nel 2004, Sirish Rao e Gita Wolf propongono a Shyam di rievocare quell’esperienza in una sorta di memoria illustrata, a beneficio dei lettori occidentali. Ancora una volta, si pone un problema di linguaggio, laddove l’obiettivo, la sensazione che intende suscitare nel lettore, è ben chiaro all’artista gond: “voglio che riceva l’essenza di quanto ho provato. Non c’é bisogno di mostrare tutto“.
Per quel diario, Shyam utilizzerà i segni ed i simboli che padroneggia, cioé quelli della cultura e della tradizione gond: la pioggia londinese diventa allora una filigrana multicolore, la metropolitana un lombrico, l’autobus numero 30 un cane, e così via, in una successione di immagini che nascono dall’incontro dei due mondi e dei loro stimoli, come in una reazione chimica di cui Shyam è il catalizzatore (sebbene un catalizzatore che immaginiamo cambiato).
Questa suggestione è il risultato fondamentale dell’opera e il suo primo livello di godimento si ferma, compiutamente, a questo punto: osservate le immagini, sono affascinanti. Scorretele, vi ammalieranno. Potrete tornare indietro ogni volta che volete e continuare ad ammirarle. E fermarvi lì, senza approfondire, senza interrogarvi sulla loro genesi.
Ma esiste un altro livello di lettura, la cui chiave è nelle note che Shyam appone ai singoli disegni, quando spiega le scelte e motivazioni che lo hanno guidato nella loro composizione. Come accennato sopra, ogni soggetto riproponeva all’autore la stessa sfida: rappresentare elementi di una cultura diversa da quella di appartenenza nel suo linguaggio e quindi renderli comprensibili a individui della comunità ospite. Ebbene, in molte note Shyam ci illustra il percorso di traduzione. Questa sfida è in realtà condivisa da ogni artista e può essere più o meno impervia in base alla distanza fra i riferimenti culturali dei tre attori in gioco nella comunicazione: il soggetto, l’artista e il destinatario.
Gli artisti si esprimono attraverso una pluralità di linguaggi (narrativi e visivi, nel caso di fumetto ed illustrazione), pluralità che per l’arte ha lo stesso ruolo della biodiversità in ecologia: una scarsa diversificazione segnala un disequilibrio, una situazione di pericolo o una patologia (ambientale/ biologica in un caso, culturale nell’altro). Il linguaggio serve per comunicare, così quella pluralità può essere vista come molteplicità dei canali di comunicazione, che fra loro non sono solo diversi tecnicamente, ma anche qualitativamente, perché trasmettono con efficacia diversa le varie componenti (la gamma di emozioni, sensazioni, riflessioni, eccetera) che formano l’opera. All’autore spetta la decisione su quale sia la combinazione ottimale di quei canali.
separatorearticoloIl linguaggio ha una sintassi, ovvero un insieme di regole, che definiscono la modalità condivisa (da chi quel linguaggio usa) di composizione dei messaggi. Condividere un linguaggio significa innanzitutto condividere quelle regole, in modo da poter decifrare l’informazione ricevuta e assemblare quella da trasmettere, sperando che non sia fraintesa. Ora, il problema è che il significato di ciò che è trasmesso fa riferimento ad una serie di categorie (quello che grossolanamente possiamo chiamare “contesto culturale”): se queste non sono condivise, la comunicazione è destinata a fallire. E questo scenario si presenta non solo nel confronto di culture diverse, ma anche quando in una cultura si introducono elementi ad essa estranei. Shyam racconta “Una volta in un dipinto ho messo una bicicletta. Lo so che non è una delle nostre immagini tradizionali, ma mi piaceva l’idea, e comunque avevo rispettato lo stile gond. […] Certi artisti che ho conosciuto a Delhi mi hanno criticato. Dicevano: ‘Sei un artista tribale. Perché dipingi cose moderne?’ Nel tuo villaggio l’acciaio non c’é, e allora come puoi dipingere una bicicletta?“. Che cosa fare, quando si intende comunicare qualcosa di lontano dall’esperienza dei destinatari? Arrendersi di fronte al timore di non essere capiti? Si può sfruttare un linguaggio condiviso, piegandolo, forzandolo, estendendolo, trasformandolo; ma la vera sfida è non lasciare indietro i lettori (osservatori, ascoltatori, eccetera), ma trascinarli, far compiere loro lo stesso percorso di trasformazione, affinché non si sentano perduti, bensì portati ad un nuovo modo di sentire, di percepire, di osservare il mondo. Questo viaggio (a cui, come scritto sopra, partecipano sia gli autori, sia i lettori) richiede sempre uno sforzo e può concludersi in un qualunque punto fra gli estremi della comprensione e della totale frustrazione.
Parliamo dei nostri amati fumetti. Quel percorso potete sperimentarlo semplicemente leggendo un’opera di un genere a voi estraneo, qualcosa che avete sempre rifiutato. Se siete fedelissimi bonelliani, provate uno shojo manga; se non uscite dal territorio nipponico, provate una qualsiasi testata Marvel/DC, e così via, sfruttando le collezioni ed il conforto (e supporto) degli amici. è probabile che, almeno all’inizio, vi troviate disorientati, come se foste catapultati in un paese straniero, dove le persone intorno a voi parlano (magari proprio con voi, quando li interrogate per avere informazioni) in un linguaggio incomprensibile. A quel punto, per ritrovare la strada, avete bisogno di qualcuno che vi spieghi le regole ed il contesto in accordo ai quali quell’opera è stata costruita. Esattamente come fa Shyam in questo volume, mettendo in luce un processo che spesso ci sfugge, soprattutto quando, per pigrizia, confiniamo le nostre letture all’interno di un solo genere.
Infine, sottolineiamo che la storia della nascita di questo libro è un’avventura in sé: nell’introduzione a cura di Rao Sirish e Wolf Gita scopriamo così un ennesimo caso in cui la realtà ha intrecci che in una sceneggiatura non accetteremmo mai, perché troppo inverosimili!
Riferimenti
Il sito della casa editrice: www.adelphi.it