Tintin e il tempio del Sole chiude l’avventura iniziata nel precedente Le sette sfere di cristallo, raccontando il recupero da parte di Tintin e del Capitano Haddock del Professor Girasole, rapito dai discendenti degli antichi Inca e trasportato in Perù. L’avventura è divisa in tre lunghe sequenze fortemente caratterizzate.
La prima è ambientata fra città e villaggi e vede i due protagonisti, inizialmente disorientati e bloccati dall’indolenza e dall’omertà dei locali, trovare finalmente il bandolo della matassa grazie a Zorrino, un ragazzino peruviano che Tintin ha salvato dalle violenze di due bianchi.
La seconda parte è un lunghissimo viaggio attraverso le Ande, lungo sentieri che salgono fino alle cime innevate, seguono gole e dirupi e tagliano fiumi e foreste.
La terza si svolge in una comunità di discendenti degli Inca, con un ritrovato Professor Girasole totalmente ignaro di ciò che sta accadendo, inconsapevole perfino di essere prigioniero.
Se la prima parte dell’avventura è fra le più emozionanti dell’intera saga e la terza si segnala tanto per la cura della resa dei costumi1 quanto per uno scioglimento piuttosto occasionale, entrambe rappresentano comunque un’evoluzione dell’approccio di Hergé a situazioni classiche. La sezione centrale invece porta con sé qualcosa di nuovo il cui sintomo è l’importanza, quasi l’invadenza, dello scenario naturale.
La natura protagonista
Incastrato fra due sezioni ricche di tensione, il lungo viaggio attraverso la Cordigliera delle Ande ha la cadenza del passo dei nostri eroi: un ritmo costante con improvvise accelerazioni. Hergé e i suoi assistenti valorizzano il paesaggio che, attraverso i suoi mutamenti sia orografici sia cromatici, scandisce non solo lo spazio fisico ma anche quello psicologico.
Nella sua lentezza, nel suo continuo procrastinare lo scioglimento, questa sequenza arriva a comunicare un senso di scoramento e di velleitarietà dell’azione. C’è sempre un’altra cima da scalare, un altro passo da valicare: il “quanto manca?/Siamo ancora molto lontani” diventa un rintocco che scandisce, più che l’avvicinamento alla destinazione, l’allontanamento dal presente. Se è probabilmente esagerato appesantire il viaggio di significati allegorici, lo straniamento e l’immersione graduale in una dimensione diversa da quella della prima parte sono oggettivi.
Di fatto, Hergè sospende lo svolgimento dell’intreccio e tenta di utilizzare questa sospensione dell’azione per dare spazio al legame fra Zorrino e Tintin.
Haddock non basta
La contabilità e il senno di poi ci consentono di mettere in risonanza il rapporto fra Tintin e Zorrino con quello fra il protagonista e il piccolo Chang, che incontrammo ne Il loto blu e ritroveremo nell’avventura in Tibet (qui con un’ulteriore richiamo interno offerto dall’esperienza del viaggio in scenari naturali incombenti e co-protagonisti).
Dal punto di vista della figura di Tintin, quello che emerge nei due casi è una dinamica secondo la quale l’eroe si fa carico di un problema specifico e riesce a risolverlo, o almeno mette in condizione il suo protetto di risolverlo. Sia Chang sia Zorrino infatti, seguendo Tintin, passano da una condizione di rischio quotidiano a una di sicurezza e, entrambi orfani, trovano un surrogato di famiglia. Merita notare che l’ambiente che li accoglie è strettamente legato alle cultura e tradizione locale e lontano dall’influenza degli europei. Più interessante, però, è il fatto che in entrambi i casi l’obiettivo di Hergé sia sviluppare una dimensione affettiva di Tintin, la cui personalità appare schiacciata su quella di un solutore di problemi, certo brillante nelle intuizioni e impavido, ma impersonale.
Ampliando lo sguardo, questo tentativo segnala che accanto alla titubanza di Hergé a inserire emozioni e relazioni complesse nelle sue trame (peraltro in conformità al genere e al tempo cui Tintin appartiene: si veda dall’altra parte dell’oceano il Mickey Mouse di Floyd Gottfredson) c’è la tentazione o almeno l’intuizione dell’importanza e delle potenzialità offerte da quella dimensione. Una dimensione che abbiamo colto manifestarsi in Haddock, ad esempio nel suo sconforto alla sparizione di Girasole, ma che nel Capitano resta allo stato embrionale, inibita dalla dominante umoristica sotto la quale Hergè mantiene il personaggio.
Detto altrimenti: Hergé sta tentando di capire se e come è possibile far evolvere Tintin pur rimanendo all’interno del territorio dell’avventura per bambini e preadolescenti. Come sintomo di questa ricerca indichiamo anche la definitiva emerginazione di Milou, non più compagno di avventura ma semplice comparsa che l’eroe salva più volte.
Note sparse
Il tempio del Sole fu serializzato sulla rivista Tintin fra il settembre 1946 e l’aprile 1948, la sua pubblicazione afflitta da una pausa fra il giugno e l’agosto 1948, causata da una crisi di depressione di Hergé. Il volume uscì nel 1949 dopo la consueta opera di taglio per raggiungere la foliazione standard di 62 pagine. Per gli appassionati, Casterman e Moulinsart non hanno mancato di produrre un’edizione che raccoglie le tavole pubblicate sul rivista nel loro formato originale “all’italiana”, sviluppato orizzontalmente.
La prefazione curata da Jean-Marie Embs e Philippe Mellot, con la collaborazione di Philippe Goddin, si sofferma stavolta largamente sulle fonti dell’opera e i dettagli di realizzazione, sottolineando la cura dedicata da Hergé e dal suo studio alla creazione dell’avventura generalmente considerata fra la migliori della saga.
Abbiamo parlato di:
Tintin e il tempio del Sole
Hergé
Traduzione di Giovanni Zucca
In allegato a La Gazzetta dello Sport, Corriere della Sera, Marzo 2017
29+62 pagine, cartonato, colori – 7,99 €
ISBN: 977203975726270014
Sebbene Hergé mescoli, consapevolmente o meno, quelli di varie civiltà andine. ↩