Dario Sicchio è uno sceneggiatore romano classe 1990. È cofondatore dello Studio Panopticon dove lavora come montatore audiovisivo. Ha esordito come sceneggiatore di fumetti nel 2015, su Verticalismi, con la miniserie Walter dice: successivamente pubblicata da Magic Press in edizione “Director’s Cut”. È co-creatore, assieme a Letizia Cadonici, della miniserie horror Kingsport (pubblicata assieme a Uno Studio in Rosso) e della serie di genere western-soprannaturale Black Rock assieme a Jacopo Vanni (per Wilder). Nel 2017 per Editoriale Cosmo sceneggia Battaglia – Lo Stalliere e co-sceneggia la serie Caput Mundi – I Mostri di Roma. Per Edizioni Star Comics adatta Il Giro di Vite per la collana I Maestri del Mistero. Nel 2017 torna a lavorare con Lorenzo Magalotti su Chiodotorto Vol.1 (Magic Press), che rappresenta il seguito spirituale del loro fumetto d’esordio (biografia tratta dal sito www.wilderonline.com).
Quando hai cominciato a interessarti ai fumetti sia come lettore che professionalmente? Quando e come per la prima volta ti sei detto “nella vita voglio fare lo sceneggiatore”?
I fumetti hanno sempre fatto parte della mia vita. Anche i miei genitori erano lettori di fumetti e quindi ne sono sempre stato circondato, talmente tanto che era una cosa che davo un po’ per scontata. Non pensavo nemmeno che fosse un interesse raro o che potesse sfociare in qualcosa. Fin da quando avevo undici anni mi divertivo a realizzare piccoli fumetti per conto mio, ma nonostante questo non avevo mai pensato alla cosa nell’ottica di una possibile carriera. Tutto è cambiato quando ho frequentato il DAMS di Roma Tre, iniziando un percorso di preparazione in sceneggiatura cinematografica. È stato durante gli anni dell’università, nel pieno di un percorso di vita e di studi che mi ero prefissato da tempo, che mi sono accorto che lavorare nel cinema non era quello che volevo fare veramente. La passione che avevo per i fumetti stava prendendo sempre più piede nella mia testa e volevo darmi una chance in quell’ambito. So perfettamente quando è stato il momento in cui ho deciso di farlo, vale a dire durante il mio primo Lucca Comics da spettatore, nel 2012. In quei pochi giorni mi sono talmente imbevuto di quell’ambiente che ho pensato “Ma perché no? Perché non fare un tentativo?”
Ovviamente ero molto spaventato all’idea di abbandonare un percorso di vita che mi ero prefissato da così tanto tempo. Per fortuna tutte le persone che avevo attorno all’epoca mi hanno sostenuto e incoraggiato, mettendomi anche in guardia sull’impegno che avrei dovuto mettere nel perseguire un simile obiettivo. Quella è stata una spinta davvero importante.
Cosa sono a tuo parere i webcomic nell’attuale scenario fumettistico e cosa hanno rappresentato e rappresentano all’interno del tuo percorso?
Per me i webcomic sono stati l’inizio di tutto. Il fumetto è un ambito molto “auto-attento”, uno degli ultimi nel panorama dell’editoria. Gli editori di fumetti rivolgono sempre un occhio ai giovani autori e alle nuove proposte. Se da esordiente realizzi un prodotto di qualità, hai un’elevata probabilità che qualche editore l’abbia visto: questo non si traduce automaticamente in lavoro, però la grossa fortuna del settore è che è sempre alla ricerca del nuovo, non si è ancora fossilizzato.
In generale, il webcomic, insieme all’autoproduzione (e forse anche meglio di questa), è diventata la nuova gavetta, soprattutto per gli sceneggiatori: l’unico modo che si ha per iniziare a fare fumetti è fare un fumetto, non esiste un modo per proporsi senza aver realizzato nulla.
Per me poi, il webcomic ha acquisito anche un valore ulteriore a quello di semplice mezzo per esordire; dopo Walter Dice:, infatti, ho continuato a fare webcomic. Ne sto realizzando uno tutt’ora. Perché è un linguaggio a sé stante, con una metrica di scrittura, una concezione della pagina, della storia e del ritmo completamente diversi dal fumetto cartaceo. Ma anche perché mi sono accorto che il webcomic, al pari delle autoproduzioni, ha acquisito anche una sua nicchia di pubblico specifica. Lo stereotipo del web vuole che il pubblico a cui ci si rivolge con un contenuto online gratuito sia ampio (dunque assolutamente generalista), distratto e desideroso di contenuti brevi e semplici, da consumare con rapidità e scarsa attenzione. Col tempo ho scoperto che questo non è necessariamente vero. Ci sono veri e propri appassionati di webcomic. Parliamo di lettori di fumetti così smaliziati, che l’offerta editoriale non gli basta e che quindi cercano qualcosa di ancor più particolare. Questo mi ha fatto capire che con i webcomic potevo scrivere e creare fumetti per gente come me, gente che legge veramente tanti fumetti.
Come cambia il tuo approccio alla scrittura quando passi dal web alla carta?
Allora, iniziamo dalla parte più banale: il webcomic, essendo un prodotto interamente mio e degli altri artisti coinvolti, ha come principale diversità che posso fare il cacchio che mi pare! Il che può essere una cosa buona oppure no, ma è comunque una differenza importante.
Quando Walter Dice: stava per fare il salto sul cartaceo, ne rilessi i primi episodi, che avevo scritto senza avere esperienza di nessun tipo. Mi prese quasi un coccolone perché solo allora mi resi conto dell’enorme differenza di linguaggio tra fumetto web e cartaceo. Ne dico una su tutte: l’assenza di voltapagina è sia una liberazione che una limitazione, perché far percepire uno stacco di ambiente o un passaggio di tempo è molto più difficile. Sulla carta hai le pagine, che costituiscono una monade narrativa. Per fare un esempio, creare della suspance in un webcomic è un vero “dito in culo” (terminologia professionale). In un’opera che vuole trasmettere suspense è importantissimo il ritmo, saper modulare accelerazioni e rallentamenti, silenzi dove la narrazione è sospesa e il lettore va più veloce, alternati a momenti in cui la narrazione procede, ma il lettore è spinto a leggere più lentamente. Ma come si fa a far percepire una pausa o un silenzio in un fumetto in cui le pagine sono in continuo movimento? Quando leggi un webcomic scrolli le pagine, muovi continuamente la tavola, quindi se una pagina muta in un fumetto da edicola viene percepita come una pausa enorme, una tavola muta in un webcomic non è niente. Ti servirà il doppio della sospensione per far percepire la stessa sensazione al lettore.
Quando mi sono reso conto di queste cose ho capito che il webcomic è un linguaggio a parte e mi sono accorto di volerne fare ancora, perché è qualcosa di completamente diverso… e poi si ritorna anche al cazzo che mi pare!
Una buona parte del tuo lavoro immagino che si svolga gomito a gomito con gli altri colleghi che sono parte dello Studio Panopticon. Lavorare in studio aggiunge qualcosa al tuo lavoro, come lo cambia?
Quest’ottica da collettivo che abbiamo allo Studio Panopticon è nata per caso: lo studio l’abbiamo fondato io e Maria Letizia ed è uno studio multimediale, dove lavoriamo su contenuti multimediali, produciamo audiolibri e materiale per radio: questa era la nostra attività principale, prima di iniziare a ingranare per bene con i fumetti. Dopodiché, essendo uno spazio molto grande, abbiamo deciso di aprirci al co-working, dividere lo spazio e le spese dello studio con altri. Chiunque poteva venire, dunque, che fosse un programmatore o un architetto, non ci eravamo posti dei limiti. Per aggregazione spontanea però sono venuti per la maggior parte dei fumettisti e attualmente siamo in nove, otto fumettisti e un fonico.
Per me, che sono uno sceneggiatore, lo studio ha anche un lato negativo: io ho bisogno di silenzio per lavorare, ma con tutti quei disegnatori accanto è come se ci fosse la ricreazione ventiquattro ore su ventiquattro! I miei amati colleghi riescono a tenere quattro computer accesi contemporaneamente e a seguire quattro serie tv diverse nello stesso istante, commentandole pure ad alta voce… in particolare, vorrei nominare Giorgio Spalletta, che è il più grande produttore di inquinamento acustico dopo il Big Bang.
A parte questo però ci sono solo lati positivi. Innanzitutto, c’è da dire che non ci sono attriti sulle decisioni perché il posto è mio e di Maria Letizia e quindi decidiamo noi: da questo punto di vista, lo studio non è democratico e dunque non si litiga.
Tornando seri, il lavoro del fumetto richiede molta concentrazione, costanza, weekend, sere e notti, ma soprattutto può essere alienante, e l’umore può incidere parecchio. Stare insieme, nella più antica logica del branco, spalleggiarsi, farsi forza e magari anche prendersi in giro per ricordarci a vicenda che in realtà non c’è tutto questo motivo per lamentarsi, tutto questo aiuta parecchio. E poi, ovviamente, è stimolante perché ci scambiamo continuamente pareri… oltre che tirarci i piatti!
Ti occupi anche di montaggio. Hanno influito in qualche modo sulla tua scrittura questa tua professione parallela e la tua preparazione sull’argomento?
Completamente! Io non ho fatto scuole di sceneggiatura per i fumetti, ho studiato montaggio e sceneggiatura per il cinema, quindi sostanzialmente, quando ho cominciato a scrivere fumetti, tutto quello che sapevo di sceneggiatura l’ho dovuto buttare. Quando ho fatto Kingsport, con il collettivo Uno Studio in Rosso, Michele Monteleone (il mio attuale coinquilino) supervisionava le sceneggiature. Il primo script che gli ho mandato era scritto con la formattazione e la logica di una sceneggiatura per il cinema. Lui me l’ha candidamente rimandato indietro dicendomi “no, io non la posso leggere!”. Fu amore a prima vista.
Tornando al montaggio, è stata una palestra incredibile. Il mio puntiglio quando scrivo un fumetto è il ritmo: la regia, gli stacchi, i raccordi, le narrazioni parallele, tutto ciò deve essere percepibile, chiaro e soprattutto fluido. Uno dei miei più grandi crucci è che la narrazione scorra, badando molto alle modulazioni ritmiche. E tutto questo deriva dalla mia preparazione di montaggio, che in fin dei conti è la scrittura del tempo.
Spesso il lettering dei tuoi lavori è stato curato da Maria Letizia Mirabella, che in un certo senso ha dato “voce” alle tue sceneggiature. Com’è lavorare con lei, come arricchisce il fumetto che poi arriva ai lettori?
La cosa che bisogna capire innanzitutto è che Maria Letizia è Hitler!
A parte gli scherzi, il percorso professionale mio e di Maria Letizia è partito insieme: io ero interessato alla sceneggiatura, ma non ero sicuro di darmi una chance nel fumetto; lei faceva lavori di grafica per redazioni e giornali, ma avrebbe voluto farlo per il fumetto, ambito nel quale siamo entrambi autodidatti. Walter dice: è stato il primo progetto per tutti e due e il nostro primo test sul campo. Dopo Walter dice: ognuno ha seguito la propria strada professionale e la fortuna ha voluto che siamo riusciti a lavorare nuovamente insieme molte volte. Collaborare con Maria Letizia non è difficile, perché riesce veramente a valorizzare il tuo fumetto: lei vuole sapere la storia, vuole conoscere i personaggi e quindi creare qualcosa di significativo col suo lavoro, nonostante il suo ruolo sia, per antonomasia, il più invisibile dell’intero processo produttivo. Lei vive il suo lavoro con una passione incredibile, ma anche come una missione e una lotta. Il letterer è il ruolo meno riconosciuto del mondo del fumetto, e lei stessa ti direbbe che è anche un po’ una fortuna poter lavorare in questa maniera fantasmatica, ma allo stesso tempo si batte moltissimo perché il lettering sia riconosciuto, sia a livello artistico che a livello di diritti del lavoro.
Per lei il lavoro è una gioia e una missione ed è alla continua ricerca di qualcosa di migliore. Non è mai soddisfatta e forse non lo sarà mai, ma in questo suo percorso si lascia dietro solo lavori di assoluta qualità. Odia i disegnatori e la loro incapacità di capire i template.
I tuoi personaggi sono spesso distruttivi, tormentati dalla colpa o assetati di vendetta. Come costruisci i tuoi personaggi, quali domande animano la loro genesi, cosa vuoi indagare?
Queste sono domande che spesso mi sono posto anche io. Quando cominci a scrivere, in realtà, vuoi solo fare la cosa migliore possibile e c’è anche un po’ di incoscienza in quella fase. Quando ho scritto Walter dice: avevo chiaro il tipo di personaggio che volevo, ma l’ho scritto senza farmi domande, stessa cosa per i personaggi di Kingsport; ma a un certo punto, quando ti trovi a portare avanti più progetti contemporaneamente, sono le domande che cominci a farti, a fare la differenza. Anche perché ho scritto personaggi molto diversi tra loro. L’unica cosa che so è che per scrivere bene un personaggio lo devo trovare interessante io per primo e questo avviene solo quando io stesso non so tutto di lui: questo è il motivo per cui, ad esempio, quasi mai i miei protagonisti hanno un monologo interiore. Se scrivo di personaggi come Walter o Chiodotorto, che si macchiano di azioni orribili, non voglio sapere cosa stanno pensando. Per dei personaggi del genere penso che la cosa più interessante per un lettore è che siano un mistero, la domanda chiave deve essere “posso empatizzare con loro?“. Mi piace creare figure dalla moralità insondabile, che destabilizzino il lettore e lo colpiscano dove fa più male: nella naturale propensione all’immedesimazione. Per ottenere questo, devi tormentare l’empatia del lettore, dandogli qualcosa e poi togliendoglielo subito dopo: gli fai pensare “questa è una vittima“, poi lo stesso personaggio finisce per esagerare e allora il lettore pensa “no, no, non posso essere d’accordo con una cosa del genere“. Ma come dicevo, fino a poco tempo fa, ho sperimentato questo processo con molta incoscienza. Questa sperimentazione ha poi raggiunto il suo momento critico quando ho scritto il Guardiano, il protagonista di Black Rock. Per la prima volta mi sono veramente posto delle domande. Con lui ho tentato un processo inverso: ho creato un personaggio che all’inizio non ha altra identità che non sia la sua funzione (e il suo nome). Da lì non sono andato a investigarlo, ma a smontarlo, pezzo per pezzo.
Per la collana Roberto Recchioni presenta: I maestri del mistero edita da Star Comics hai lavorato al volume Il giro di vite. Come è stato riadattare un romanzo, quali sfide ti ha imposto?
Anche lì sono partito con molto entusiasmo e poi mi sono ritrovato di fronte a delle questioni difficili. La cosa è partita quando Michele Monteleone mi ha coinvolto nel progetto e mi ha detto quali erano i testi che si pensava di riadattare e quando mi ha nominato Il giro di vite ho subito detto “voglio quello!“. Avevo letto il romanzo anni e anni prima e lo ricordavo come una splendida storia di fantasmi. Poi, rileggendolo per questo lavoro, mi sono reso conto che le cose non stavano esattamente così, che la storia era qualcos’altro, forse addirittura il racconto della follia di una donna malata. In quel momento mi sono accorto di aver scelto un romanzo che non ti dice praticamente niente, né come si chiamano i personaggi né da dove vengono, che ti nasconde volutamente degli elementi e che, ogni volta che i personaggi cominciano a porsi delle domande vitali, fa sì che la storia salti da una scena all’altra, negandoti le risposte. Un gioco mortale di lacune accuratamente studiate. Soprattutto, il finale del romanzo è quasi indecifrabile. Nel fumetto ho dunque dovuto affrontare graficamente qualcosa di non raccontato: ma è tutto lì, l’orrore e il dubbio sono una questione di destabilizzazione, e la destabilizzazione nasce dal non sapere e quindi a un certo punto ho capito che non dovevo trovare un modo di colmare quei vuoti narrativi o quelle omissioni, le dovevo invece sottolineare. È un lavoro che mi ha portato a razionalizzare sia l’approccio ai personaggi che alla grammatica della narrazione.
Caput Mundi è stato il tuo primo fumetto seriale da edicola. Come sei entrato nel team e qual è stato il tuo ruolo?
Per Editoriale Cosmo stavo già lavorando a Battaglia – Lo stalliere (pubblicato in edicola poco dopo il primo numero di Caput Mundi, ndr), quando Giulio Gualtieri e Michele Monteleone mi contattarono per offrirmi di co-sceneggiare il primo numero di questa nuova serie. Caput Mundi sarebbe stato non solo un nuovo lavoro per l’edicola, ma un vero e proprio fumetto seriale, il prodotto di punta dell’editore che stava lanciando il proprio universo condiviso; in più era il primo numero e mi sarei ritrovato a lavorare con tutta una serie di autori con più esperienza di me, abituati a lavorare tra di loro, ben oliati e che avevano già steso la trama della serie. No pressure. All’inizio mi sono posto in maniera molto timida. Quando io e Michele cominciammo a collaborare sull’albo, gli mandavo addirittura tre versioni della stessa scena, per chiedergli quale gli piacesse di più. Tutto questo finché una sera sostanzialmente mi ha detto: “Smettila di chiedere tutto, fai come ti pare, mettici quello che vuoi!”
Quando ho finito il lavoro sul primo albo, Giulio era molto soddisfatto e mi ha chiesto di lavorare anche sugli ultimi tre capitoli della serie. È stata un’esperienza istruttiva perché ho scritto per un progetto non mio, con personaggi non miei, con un plot non sviluppato da me e dovevo essere allo stesso tempo sia al servizio del progetto sia mettere qualcosa che fosse nel mio stile. Un lavoro che ha richiesto capacità di mimesi. È stato terrificante in alcuni aspetti, ma allo stesso tempo avevo Giulio vicino che mi guidava passo passo. E mi faceva terrore psicologico.
Entrando nel dettaglio, come si è svolto il tuo lavoro su Caput Mundi, come hai dovuto cambiare la tua scrittura?
La serialità ha due fasi, quella alfa e quella omega, assolutamente granitiche. La fase alfa è la concezione: un lavoro di concezione che deve essere molto più esplicito e articolato di qualsiasi altra cosa tu possa fare da solo, perché devi tenere in considerazione che stai lasciando quei “giocattoli” in una particolare posizione per un altro sceneggiatore, che sta lavorando insieme a te su cose che tu non hai ancora scritto e che quindi deve sapere esattamente come tu chiuderai quell’albo e come lui dovrà inserirsi. Per dirne una, anche abbastanza sempliciotta: se X alla fine di un albo subisce un pestaggio, allo sceneggiatore che verrà dopo di te dovrai segnalare quanti giorni dopo si svolgono gli eventi che lui dovrà raccontare a sua volta, e gli esatti punti in cui X è stato picchiato (se sugli occhi o sulla bocca) e se questo avrà delle conseguenze, perché tutto ciò influirà sul modo in cui X apparirà e – magari – si comporterà nell’albo successivo. Albo che però verrà iniziato ben prima che tu sia anche solo vicino a finire il precedente.
Poi c’è la fase omega, che è altrettanto granitica, ed è l’assenza di margini di manovra sulle tempistiche: un albo deve uscire, cascasse il mondo, in un determinato giorno, e quindi devi finire il tuo lavoro entro una determinata scadenza. Non esiste possibilità di deroga.
È solo nel mezzo fra queste due fasi che il tuo lavoro somiglia di più a quello che puoi aver fatto su altri progetti. Certo, i ritmi sono più sostenuti e allo stesso tempo devi essere più focalizzato, però nella sostanza stai facendo lo stesso lavoro che hai fatto fino a quel momento.
Capisci veramente cosa vuol dire lavorare a una serie quando cominci a sentire l’esigenza di farti domande che prima non avevi bisogno di farti, anche tipo “che stagione è? Come sono vestite le persone?”, e ti poni nell’ottica di essere al servizio di qualcosa, con la consapevolezza che quello che fai può essere preso, rimaneggiato, cambiato. Ovviamente, c’è da considerare anche l’intesa che hai con gli editor, più è forte e meno il tuo lavoro sarà stravolto. Nel mio caso, con Giulio, con il quale avevo già condiviso l’esperienza di Seasons, e il sostegno di Michele, che era già più esperto di me in queste cose, è stata una lavorazione molto tranquilla.
Nelle tue opere non fai mistero di guardare alla narrativa e al cinema americano, riprendendone scenari e stilemi. Con Caput Mundi hai dovuto invece raccontare una storia ambientata nella tua città, Roma, sia nei centri del potere che nelle borgate, e l’hai fatto senza abbandonare però quel modo di narrare tipicamente americano. Come hai (ri)costruito lo scenario di Caput Mundi?
È stato un lavoro di sintesi. Dovendo rendere Roma il teatro della tua narrazione, gli esempi non ti mancano: hai serie televisive di successo, soprattutto quelle ambientate nella Roma criminale; hai dei film di successo, che guardano non solo alla Roma criminale, ma anche a quella patinata. In realtà, vivendo a Roma sei quasi abituato a vederla come setting e non come la tua città. Il fatto che sia effettivamente il posto in cui vivi ti permette di scoprire e utilizzare elementi che altri non userebbero: lì dove molti avrebbero usato Tor Bella Monaca, a pochi sarebbe venuto in mente di usare l’Ex SNIA o il Quadraro. Roma è una città molto scenica, quindi puoi astrarti facilmente dalla quotidinianità con cui la vivi e sfruttarla quasi fosse un personaggio vero e proprio.
Ma se Caput Mundi da un lato è una serie che affonda le radici in uno scenario italiano è allo stesso tempo anche un’operazione basata sull’idea di un universo narrativo con alla base il più classico dei team up. Dunque le radici dell’operazione affondano nell’esempio americano. La sfida è stata attingere dall’esempio dato da quel tipo di prodotti (di cui sono un grande appassionato), trovando allo stesso tempo il modo di allontanarsene, trovando un linguaggio specifico e adatto al mercato dell’edicola italiana.
La tua produzione, come abbiamo visto, è molto varia. È possibile individuare un filo rosso che leghi tutte le tue opere e la tua scrittura, una traccia sempre presente?
Credo di non averci mai pensato, però secondo me ci sono due tracce riscontrabili in ogni mio lavoro.
La prima è la moralità irrisolta: i miei personaggi sono sempre raccontati in situazioni in cui alla fine non danno mai una chiara risposta morale. Questo perché non mi piace dare risposte semplici e soprattutto non mi piace imboccarle al pubblico. Tocca al lettore decidere, ad esempio, se Walter o Chiodotorto siano o meno i “buoni” della storia.
La seconda traccia è il feticcio: adoro in ogni mio lavoro inserire e creare setting riconoscibili, fare dell’ambientazione stessa un personaggio, inserendovi poi un elemento grafico straniante che va a perturbare il tuo modo di vivere quella storia. Come tutto quello che è fuori o sotto al Villaggio di Black Rock, o in Kingsport dove la trama più macabra e orrenda è portata avanti da un ragazzino o ancora la presunta presenza del diavolo nella città di Chiodotorto. Così come ho provato a inserire elementi destabilizzanti anche in opere non di mia creazione come Giro di vite, Battaglia o Caput Mundi.
Ti propongo una sfida: saresti in grado di presentare ai lettori de Lo Spazio Bianco ogni tuo lavoro con una breve frase?
A me chiedi una cosa in breve?! Poco fa ero in treno con Lorenzo (Magalotti, ndr) e gli ho detto “ti dico a volo un’idea che mi è venuta” e gli ho parlato per quaranta minuti!
Dai, ci provo!
Walter dice: – Non ti puoi fidare di una persona di cui non vedi mai gli occhi.
Kingsport – Tutti dicevano che stava per arrivare una tempesta, ma la tempesta già c’era da un anno.
Chiodotorto – I demoni vivono in città, ma il Diavolo abita in periferia.
Black Rock – Oddio, ti giuro, non mi viene in mente. Solo… leggetevelo.
Giro di vite – In penombra anche i quadri sembrano muoversi.
Caput Mundi – Il mondo è pieno di cose ambigue, ma ci sono mostri che sono mostri sia dentro che fuori.
Domanda “classica” per chiudere l’intervista, su cosa stai lavorando al momento?
Ci sono molte cose di cui non posso ancora parlare, ma ecco quello che posso dirvi.
Io e Michele Monteleone siamo al lavoro sulla seconda stagione di Caput Mundi, intitolata Caput Mundi – Nero (attualmente in uscita). Rispetto alla prima stagione, durante la quale ho lavorato per lo più su soggetti prestabiliti, stavolta sia le sceneggiatura che i soggetti di tutti gli episodi sono miei e di Michele, per cui non potremmo essere più contenti. A maggior ragione dato che stiamo lavorando con un cast di disegnatori incredibile.
Poi io e Lorenzo Magalotti siamo all’opera secondo volume di Chiodotorto, che chiuderà la storia ed è, all’atto pratico, la cosa più folle che abbia mai scritto e spero sarà altrettanto folle da leggere.
Sto lavorando a due nuovi progetti per Wilder, di cui non posso dire nulla se non che farà parte di un’iniziativa a cui io e Jacopo Vanni stiamo lavorando da un po’. Infine, sto realizzando un numero davvero impressionante di proposal, alcuni da solo, alcuni a quattro mani con Monteleone (da quando viviamo insieme siamo una coppia di fatto oltre che creativa): tutta roba di cui sono assolutamente orgoglioso e che spero possiate stringere fra le mani a brevissimo.
Intervista tenuta dal vivo a Napoli Comicon 2018 e completata via mail.
Si ringrazia l’autore per la disponibilità.
Paolo Passalacqua
5 Dicembre 2018 a 17:15
Piacevolissima Intervista.
Sarebbe interessante poter vedere anche qualche pagina delle sceneggiature, passando dall’impostazione del web comic, vedi Black Rock a una di Caput Mundi o Chiodotorto.