Paolo Eleuteri Serpieri: il western, le donne e la promessa di Tex

Paolo Eleuteri Serpieri: il western, le donne e la promessa di Tex

Ospite di Collezionando 2022, Paolo Eleuteri Serpieri si è fermato per raccontarsi, da architetto mancato a Maestro del fumetto, con un pensiero al suo Tex.

Abbiamo incontrato Paolo Eleuteri Serpieri a Lucca, in occasione di Collezionando dove, in quanto ospite d’onore, ha avuto una mostra allestita negli spazi fieristici.
L’età gli ha lasciato un passo incerto, ma la passione per la sua arte emerge con forza dal suo sguardo e dalla disponibilità di raccontarsi. Mentre si racconta sfilano i suoi lavori, i suoi viaggi, gli incontri e una fiera consapevolezza di essere riuscito a realizzare i suoi sogni di bambino.uGiqPfgN_1504200727381sbpi

Buongiorno e grazie per la sua partecipazione a questo incontro.
Prima di guardare alla sua esperienza pluriennale, vorrei soffermarmi sui suoi esordi. Lei ha cominciato facendo studi di architettura.
Sì, però la mia idea non era quella. L’ultimo anno, all’università mentre già lavoravo, mi chiedevo se fossi impazzito a fare l’architetto.
Facevo prospettive per uno studio di architetti. Loro progettavano edifici o altro, e io sviluppavo quei progetti mostrando come sarebbero stati una volta realizzati. Spesso capitava che guardassero ai miei lavori e dicessero: allora abbiamo sbagliato tutto. Questo perché non riuscivano a vedere la realtà di quelle volumetrie, cosa che a me veniva naturale. Io gli davo i miei lavori e dicevo: questo è quello che avete progettato voi.
Tornando alla domanda, sì ho cominciato lavorando in quel mondo, ma non l’ho mai sentito mio. Appena ho potuto, me ne sono andato perché in realtà volevo fare altro, e così ho iniziato a fare il pittore, un mestiere che ho fatto per diversi anni e che ancora sento mio. All’inizio realizzai opere che si ispiravano a un futurismo particolare, poi anche realiste.

L’arrivo al fumetto come è stato, erano gli anni Settanta?
Come fumettista feci una cosina negli anni ‘60, ma è meglio dimenticarlo, quando ci ripenso mi accorgo che non era granché. Ho davvero iniziato nel 1975.
Un mio vecchio amico, che seguiva con interesse le cose che realizzavo e che lavorava in una grossa casa editrice, mi chiese perché non facessi i fumetti. Quando me lo chiesero accettai, anche perché a causa di reminiscenze antiche, di quando ero ragazzo, mi accorsi che quel mondo mi piaceva.
Come tutti quelli della mia generazione anche per me era grande la passione per il Western e glielo dissi subito, lui accettò e così abbiamo iniziato a collaborare.

La passione per il western è una costante praticamente in tutta la sua carriera, anche declinata al femminile. Un genere che si apre anche al racconto epico.
L’ho detto in un’altra occasione. Io amo le donne. Spesso con la mia pittura avevo dipinto corpi femminili affascinato dall’estetica. Chi ha creato le donne ha fatto un lavoro magnifico e quando iniziai a fare fumetti quel gusto nel rappresentare quell’estetica mi mancava.
Siamo degli umani e la fascinazione del bello è parte della nostra natura.
Il Western era la mia grande passione, anche mediata dai il cinema, soprattutto John Ford. Quando queste due passioni si sono incontrare quel che venne fuori fu la storia dell’Indiana bianca, una storia che sente forte l’influenza di quel cinema, soprattutto Sentieri selvaggi.
Di quel mondo mi piace l’aspetto storico, fondamentale per costruire un contesto credibile in cui fare muovere la fantasia, ma anche gli spazi narrativi che offre.

1419946736365.jpg--l_eroe_e_la_leggendaIl Western, proprio per l’incontro tra storia e racconto, è l’epica del ventesimo secolo?
Assolutamente. Storia e leggenda si accavallano continuamente. Prendi la storia di Little Big Horn, un evento che ho illustrato ben tre volte, fermandomi su episodi diversi. Probabilmente dal punto di vista storico sono stati raccontati mille aspetti e ce ne sono tanti altri che possono ancora essere messi in evidenza. Alcuni di quegli elementi li ho valorizzati, altri li ho dovuti mettere da parte perché il medium che ho utilizzato, il fumetto, ha regole di narrazione a cui occorre attenersi. Essenziale, perché il racconto funzioni, è la cura per l’aspetto mitologico dei personaggi che vengono raccontati
Ricordo che avrei voluto realizzare qualcosa di molto più attendibile ma non mi fu possibile proprio per questa ragione.
Il Western mi ha sempre affascinato proprio in quanto Mito.
L’ultima che è stata pubblicata, in Francia per la La Rousse, in Italia per L’Eternauta, nel 1993, è anche essa mediata dalla mitologia. Quando il confine tra storia e fantasia diventa sottile, il racconto diventa inevitabilmente epico.
Nei miei fumetti ho mitizzato anche i nativi americani perché figlio a mia volta di un modello narrativo che così aveva insegnato a guardarli.
Prendi ad esempio Custer e la sua chioma. Lui portava i capelli corti a suo dire a causa di un’incipiente calvizie. In realtà portava i capelli corti per la paura di farsi scalpare: paura che all’epoca era assolutamente fondata.
Quando l’ho disegnato, pur conoscendo la verità storica, l’ho rappresentato con i capelli lunghi perché il mito attorno a questo personaggio prevede che Custer li porti in quel modo. Si tratta di un personaggio uscito dal suo contesto storico, tanto che la sua stessa morte è un evento storico diventato leggenda.
È impossibile ancora oggi capire come sia avvenuta, per il semplice fatto che nessuno di quelli presenti ha potuto raccontarla semplicemente perché non furono lasciati testimoni in grado di farlo. Nessun soldato sopravvisse.
Forse giusto i nativi che lo affrontarono avrebbero potuto raccontare una verità storica, ma nessun ha mai indagato la loro versione.
Questa mancanza di testimonianze ha fatto sì che il racconto di quell’evento diventasse mitologico, che dipendesse dalla costruzione che fa chi la racconta, e per chi ama e racconta il western è impossibile non restare affascinato dal mito attorno a quel momento storico.
Tutto quel mondo mi ha sempre appassionato, fin da bambino. Mi piaceva disegnare quegli spazi che vedevo al cinema e tutto quello che aveva a che fare con quel mondo. Soprattutto i cavalli.
Il mio modello era il cinema, ma non solo. Fondamentale per la mia formazione sono state le illustrazioni di Raffaele Paparella. Proprio l’esercizio per realizzare i cavalli è stato il punto da cui tutto è iniziato.
Qualcuno di molto importante, e lo stesso Hugo Pratt, dicevano che se uno non sa disegnare i cavalli è meglio che si dedichi ad un altro genere, uno qualsiasi ma non al western.

Non si fa fatica a immaginare che sia così. Molto spesso i cavalli nel western hanno la stessa importanza del protagonista, al punto di avere un nome, come per le spade degli eroi delle saghe fantasy.
Esattamente. Nello scrivere fumetti fu decisiva questa mia passione nell’illustrare quel mondo anche attraverso il mito. I cavalli, le pianure sconfinate, le Montagne Rocciose o la Monument Valley, gli spazi che John Ford portava al cinema a me piaceva rappresentarli con il disegno.
Tornando a quella prima storia che realizzai negli anni Sessanta, convinto da un editore che aveva aperto una rivista, fu proprio ambientata nella Monument Valley. Una roba da dimenticare, senza dubbio, fatta di corsa perché in quel momento avevo altre urgenze, verso cui a distanza di anni sono davvero poco indulgente ma che mi introdusse comunque in quel mondo. Già prima di dedicarmi al fumetto avvertivo la fascinazione di raccontare quel mondo.

Guardando al mondo del fumetto, come lo vede cambiato oggi rispetto ai suoi esordi, che impressione ha del fumetto attuale?
Il fumetto di oggi mi appartiene meno. Come dicevo a un amico, sono un giurassico, soprattutto se guardo allo sviluppo tecnologico del fumetto.
Sono contento che i miei fumetti piacciano ancora, ma il mio mondo è diverso da quello di oggi.
La mia ansia verso la tecnologia è qualcosa che mi caratterizza da sempre, tanto che spesso l’ho affrontata nelle mie storie in chiave distopica.
So bene che potrei fare fumetti usando il computer, e qualcosa la so fare, ma in definitiva quel tipo di approccio, che resta artigianale per chi lo utilizza, mi annoia, non lo sento mio non solo per una questione generazionale, che conta, ma soprattutto perché nasco come pittore e resto un autore che disegna usando il pennello.

In questi giorni di Fiera, stiamo chiedendo a molti suoi colleghi quali siano le storie che hanno che la hanno maggiormente colpita?
Sono ancora un lettore di fumetti, ho moltissimi amici che li realizzano e li seguo con molto interesse. Tra quelli che ricordo con più affetto però ce ne è alcuni a cui sono molto legato. Soprattutto a Ken Parker, il lavoro che hanno fatto Berardi e Milazzo è stato straordinario. Una storia in particolare, Adah, mi ricordo che mi aveva emozionato moltissimo. Quella è decisamente una storia a cui sono affezionato.

tex serpieriParlando di epica nel fumetto, è impossibile non fare riferimento al suo approccio apocrifo a Tex e a un racconto che ne ha celebrato proprio la leggenda. Come è nata quella storia?
Per prima cosa, per l’ambientazione storica: scelsi un periodo antecedente alla Guerra di secessione americana (1861 – 1865) quindi siamo intorno al 1850. In quel periodo era costume comune portare i capelli lunghi, semplicemente perché non c’era il tempo per tagliarli soprattutto per gli uomini di Frontiera.
Premesso questo, quando ho iniziato a raccontare un’avventura di Tex, ho voluto raccontare dii un uomo di frontiera, un cowboy che non avesse modo di tenere i capelli in ordine. Un figlio del suo tempo anche in fatto di chioma.
Ho immaginato come potesse apparire nel periodo in cui volevo collocarlo, prima che diventasse soldato e poi ranger, e ritenni che fosse pacifico che anche lui portasse i capelli più lunghi di come siamo abituati a vederlo.
Tornando al discorso che facevamo su Custer, a quel tempo la chioma fluente era una caratteristica comune, soprattutto tra i nativi americani. Era un segno di potere a cui difficilmente rinunciavano, come nel mito di Sansone. La rimozione dei capelli era un gesto di estrema umiliazione, che ridefiniva i rapporti di potere.

Nel racconto, in una delle sequenze più crude, Tex scalpa un capo tribù.
In quella sequenza c’è uno scontro serrato e Tex ha la necessità di mettere al sicuro le persone che è chiamato a proteggere. Quel gesto, in quel momento, è necessario per togliere autorità al capo sconfitto e appropriarsene garantendo così la sicurezza ai suoi sodali.
La rimozione dello scalpo, per i nativi, nasceva proprio con un intento di affermazione di forza. Non si trattava di un semplice trofeo, ma era un modo per acquisire il potere dell’avversario sconfitto, anche quando si trattava di un colone, visto come invasore.
Chiaramente Tex, essendo un texano del nord, aveva a che fare con gli i popoli delle pianure, cavalieri straordinari come il comanche e certe dinamiche oltre a conoscerle sapeva bene quando fosse necessario ricorrervi.

Immagino che Tex per lei sia stata una lettura importante, persino formativa. Anche se approcciato come maestro riconosciuto, che effetto ha fatto scrivere un personaggio tanto importante per un fumettista innamorato della Frontiera e per l’immaginario collettivo?
Ho scritto il Tex che avevo in testa e sì, è stato emozionante. In quella storia è un sedicente Carson (quello vero era morto nel 1968) a raccontare del suo pards in un modo che ne esalta proprio la leggenda. Il destinatario del suo racconto è invece un giovane Gianluigi Bonelli.
Conoscevo molto bene Sergio, un amico a cui ho voluto molto bene e so bene che probabilmente avrebbe avuto da dire qualcosa sulla realizzazione del volume, di cui abbiamo in realtà parlato a lungo.
Ricordo però che del mio Tex gli avevo parlato anni prima che lo realizzassi. La sua prima risposta fu categorica: Non se ne parla nemmeno! Poi però mi telefonava.
Sai, mi diceva, ti ho chiamato per fare due chiacchiere con te… ho po’ ripensato alla tua proposta per Tex. Se intervenissimo su qualche punto, facciamo qualche limatina, potrebbe andare.
In quel momento se ne parlava solamente perché stato lavorando su Druuna, per questa ragione il progetto su Tex restò una promessa che ho potuto mantenere solo nel 2015.
Dopo che Sergio se ne è andato ci avevo pensato spesso. Ne parlai con la Bonelli, con Davide, il figlio di Sergio, e finalmente la storia di cui chiacchieravo tra amici durante le nostre telefonate è stata realizzata.
Davide ha apprezzato anche la chiusura del volume. Un tributo alla sua famiglia che sentivo doveroso.
Un collega, uno sceneggiatore che stimo molto, mi ha scritto dicendomi che il finale lo aveva commosso. È stato un bel riconoscimento.

Grazie per la sua disponibilità, è stato un vero piacere
Anche per me.

Intervista registrata il 2 aprile 2022

Paolo Eleuteri Serpieri

Paolo Eleuteri Serpieri, Veneziano di nascita, si forma artisticamente a Roma.
Dopo gli studi artistici, si occupa di pittura entrando a far parte degli allievi di Renato Guttuso, prima diventare un Maestro del fumetto italiano.
Grande appassionato di western, nel 1985 realizza Morbus Gravis, un fumetto la cui storia è un misto di fantascienza, erotismo e avventura, in cui vede la luce Druuna, il suo personaggio più celebre, realizzata per il mensile francese Charlie e pubblicata in Italia a puntate sulla rivista l’Eternauta.
In seguito sulla rivista Glamour pubblica fumetti western di carattere erotico.
Nel 2015 realizza Tex. L’eroe e la leggenda, l’albo di Tex che apre la collana dedicata ai cartonati in formato francese.

 

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