L’arrivo delle Divinità americane: dal romanzo al fumetto

L’arrivo delle Divinità americane: dal romanzo al fumetto

Philip Craig Russell trasporta in fumetto "American Gods", pluripremiato romanzo di Neil Gaiman: analizziamo luci e ombre dell'operazione.

American Gods, pluripremiata opera letteraria del 2001 di Neil Gaiman, è un romanzo fluviale e imperfetto1 che, dopo sedici anni dall’uscita, viene adattato contemporaneamente in fumetto e serie televisiva, entrambi attesi con molta curiosità ma anche col timore di un risultato deludente.

La prima trasposizione, edita da Dark Horse Comics, porta la firma di P. Graig Russell, mentre  la seconda è affidata a Bryan Fuller e Michael Green, produttori con buona esperienza nel campo della fantascienza e della lavorazione di soggetti di origine fumettistica.

Gaiman, al solito, si mantiene ai margini delle trasposizioni: la scelta di Russell per il fumetto segue il criterio dell’esperienza e dell’affidabilità, e questo primo numero conferma l’agio del fumettista con le sfide del cambiamento di medium.
Nel romanzo, lo scrittore inglese condensò una poetica già definita in Sandman: gli dei hanno un ciclo di vita che dipende dalla fede degli esseri umani; nascono, acquistano un ambito di potere, declinano e scompaiono. In particolare, in American Gods viene messa in scena la lotta per la sopravvivenza fra divinità antiche e divinità moderne2.

Scott Hampton utilizza un approccio lontanissimo da quello pittorico per cui è noto. In American Gods #1, tramite gli ambienti, le figure e i volti, definisce una dominante fredda e claustrofobica.

Craig Russell, già autore di simili operazioni per altre opere gaimaniane, quali Cacciatori di sogni, Coraline e The Graveyard Book, cura la sceneggiatura del fumetto e ai disegni è affiancato da Scott Hampton. In questo numero d’esordio, che sfrutta con ampi inserti il testo originario (tanto che Gaiman è citato nei credit quale autore della storia e dei dialoghi), nella prima parte Hampton illustra la vicenda del protagonista Shadow Moon, mentre Russell, insieme allo storico collaboratore Lovern Kindzierski, si riserva la sequenza di chiusura Somewhere in America. Le due sezioni della storia vivono di atmosfere antitetiche, così diverse da dare l’idea di due livelli di realtà distinti.

Il racconto dei giorni di Shadow a cavallo della permanenza e uscita di prigione, il suo passaggio da un mondo iper-regolato fin nei minimi eventi a uno senza riferimenti, è caratterizzato da una dominante di straniamento. Shadow durante la detenzione aveva sopito il suo ego per adeguarsi alle regole e sopravvivere nel contesto carcerario, proiettato completamente nella prospettiva del ritorno in libertà, dalla moglie e da un lavoro che lo aspettava.
Uscito dal carcere, si trova a vagare senza riferimenti a causa di un tragico evento: per non farsi inghiottire dal senso di vuoto, si afferra ostinatamente a ogni piccola cosa sulla quale aveva edificato i suoi progetti, cercando di rimettere in piedi quel che può. Solo che, come in un incubo, ogni piccolo evento sembra allontanarlo dalla strada che tenta di percorrere.

Somewhere in America, episodio di coda di American Gods #1, è illustrato da Russell, contraddistinto da toni caldi e definito per contrasto – innanzitutto visuale – con Shadow, illustrato da Hampton.

All’effetto di straniamento contribuiscono i vari elementi del racconto: le scelte cromatiche e lo stile simil-fotografico delle immagini, che sono spesso quasi distorte in prospettive forzate; le espressioni dei volti, a volte definiti con ombre e linee, altre con semplici campi di colore piatto dentro un contorno; gli sguardi con occhi spalancati – talvolta quasi persi,  talvolta quasi folli – soprattutto quando guardano verso il lettore, come se volessero comunicare verità assolute; lo stacco fra i piani delle figure, come se la profondità non fosse continua, ma costituita da una sovrapposizione di strati separati dal nulla.

In generale, l’approccio di Hampton risulta in qualcosa di tutt’altro che gradevole, bensì di inquietante, ossessivo e spesso claustrofobico. Il racconto è costruito come una successione di brevi scene che mostrano ricordi, presente e aspettative del protagonista: la frammentarietà costruisce la variegata dimensione esistenziale di Shadow, sulla quale incombe, creando una tensione plumbea, il breve trafiletto della prima pagina, che annuncia da subito al lettore ciò che attende il protagonista.
Questa anticipazione rende penosa la lettura del percorso di Shadow, perché siamo consapevoli  di quanto fragile siano l’assunto e la fede che gli hanno consentito di  sopravvivere.

Somewhere in America è invece caratterizzato da toni caldi e tratti morbidi: sono poche pagine di fatto molto più confortevoli delle precedenti e offrono l’occasione di rilassare la tensione e l’atmosfera paranoica della prima parte. Tanto il racconto di Shadow finiva per trasmettere disagio da ogni dettaglio, quanto questa coda appare ospitale, ben decorata, quasi calligrafica.
Scelta narrativa voluta da Craig Russell che se nell’atmosfera ricreata si discosta dal romanzo – le cui pagine della sequenza virano molto più sull’orrore della situazione -, da un punto di vista di significato richiama in modo evidente la poetica dello stesso: senza la fede e la devozione degli esseri umani, le divinità non potrebbero esistere.

Da menzionare, in chiusura, la splendida copertina di Glenn Fabry che già aveva firmato le cover dell’adattamento a fumetti di un’altra opera di Gaiman, Nessun dove, e le copertine alternative anch’esse efficaci e di impatto.

Abbiamo parlato di:
American Gods #1
Neil Gaiman, Philip Craig Russell, Scott Hampton, Lovern Kindzierski
Dark Horse Comics, marzo 2017
29 pagine, colori – 3,59 € (edizione digitale)


  1. la cui versione italiana, edita da Mondadori, è stata purtroppo inficiata da una traduzione di Katia Bagnoli qualitativamente non omogenea che causa una discontinuità stilistica nella lettura 

  2. Di recente, la miniserie Marvel Comics dedicata a Ercole ha affrontato lo stesso tema 

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