Daria Emiliani fa fumetto per pura passione da sempre, e da pochi anni ha iniziato a pubblicare nel suo blog
Blocco degli Schizzi brevi storie autobiografiche ironiche e acute, autocritiche e riflessive, pacate e non banali, al centro delle quali oltre a lei stessa stanno il suo mondo, la sua famiglia, la sua vita e il suo cane. Contrariamente allo stereotipo che vede il moderno autore di fumetti come un giovane nerd che passa il suo tempo chiuso in casa a disegnare, attivissimo sui social e sempre in cerca di pubblicità, appassionato di videogiochi e serie tv, ma soprattutto con una vita interamente dedicata al fumetto, Daria è invece una persona con priorità diverse, con poco interesse verso il “promuoversi”, con altri impegni e cose molto più concrete alle quali pensare: una casa da mandare avanti, un figlio da accompagnare a scuola o ai corsi pomeridiani, pranzi e cene da preparare, un cane da portar fuori e anche un lavoro. Ma nonostante tutto, rimane in lei una grande voglia di ritagliarsi qualche piccolo momento libero nel quale provare a raccontare e raccontarsi attraverso il fumetto (con ottimi risultati).
Attirati e conquistati dal suo lavoro, abbiamo raggiunto Daria per sapere qualcosa in più di lei.
Per prima cosa parlaci di te: chi sei, da dove vieni, dove vai?
Innanzitutto, grazie per l’intervista, una cosa che mai in vita mia mi sarei aspettata… ma sei partito subito con una domandona, anzi tre! Chi sono: di sicuro sono un’Imperfetta Cronica: da qui il titolo del mio squinternato diario a fumetti. Nella mia vita, per trovare una parvenza di equilibrio, ho provato diverse soluzioni, fatto diverse scelte, cambiato strada centinaia di volte; sono stata pure in analisi e ho avuto qualche più o meno divertente disavventura che racconterò quando mi sentirò pronta, ma non c’è stato nulla da fare: se cercate un’esperta in fallimenti, degna della migliore citazione di Samuel Beckett (che poi tanto fallito non era), eccomi qua: testarda, disattenta, volubile, egocentrica, con la testa costantemente fra le nuvole, ansiosa e pessimista – nonché con un’autostima invisibile e un istinto materno lillipuziano.
Vengo da un piccolo paese della bassa Romagna, da una famiglia completamente normale, a tal punto che ero considerata quella un po’ strana, la classica pecora nera. Lungi dall’andarne orgogliosa, fino all’adolescenza avanzata ho cercato di adeguarmi a una parvenza di “normalità”, cercando di compiacere la mia famiglia e sentirmi in qualche modo accettata e amata. Poi, a poco a poco, ho capito che indossare una maschera è faticoso e doloroso, in quanto la tua vera natura preme costantemente per uscire fuori, e l’accettazione e l’amore che ricevi in cambio di quella fatica e quel dolore non ti ripagano, perché sai che quella accettata e amata non sei davvero tu. Sicché, meglio essere una Daria autentica, difetti inclusi, anche a costo di litigate apocalittiche con coloro dai quali avresti voluto essere accettata e amata – inutile precisare che sono uscita di casa piuttosto presto. Tuttavia, giorno per giorno, sto ancora scoprendo chi sia una Daria autentica e, credo, non finirò mai di impararlo.
Dove vado, non lo so bene: sono sempre in equilibrio instabile fra le mie passioni e desideri e il mio senso del dovere (del tipo: Vorrei sedermi a disegnare ma i gatti di polvere sul pavimento stanno miagolando dalla fame…), ma nel frattempo, se vedo una strada che mi attrae, se ne ho la possibilità e credo di non danneggiare le persone che mi stanno vicino, provo ad imboccarla. In questo modo ho preso delle capocciate micidiali, ma posso dire che preferisco una capocciata micidiale al rimpianto di non averci provato!
Artisticamente parlando, invece, il discorso è un po’ diverso: da persona insicura, convinta che scrivere e disegnare fossero sciocchezze, che scriveva e disegnava di nascosto e si vergognava a mostrare i propri lavori, lentamente, anche grazie ad alcune persone che mi hanno incoraggiata, ho fatto passi da gigante (a volte, uno avanti e tre indietro, ma l’importante, alla fine, è avanzare, no?): prima disegnando da autodidatta, poi frequentando corsi, poi trovando il coraggio di mostrare i miei lavori, e addirittura mettere su un piccolo blog. Va bene, disegno e scrivo dacché ho memoria, ergo il mio progresso è stato mooooolto lento (più del mio processo creativo)… ma mica tutti abbiamo il turbo, no?
Da dove nasce e come si è sviluppata la tua passione per il fumetto?
Questa è una storia lunga (anch’io non sono più giovanissima), e non posso parlare di fumetto senza parlare di cartoni animati perché, inizialmente, il mio sogno era quello di diventare una disegnatrice di questi ultimi.
Sono nata a metà degli anni ’70, quando la tecnologia non era nemmeno lontanamente quella di oggi e nelle case… lo so che sembra il paleolitico, ma la televisione, se c’era, stava in salotto e al massimo in cucina e, spesso, quell’unica televisione era ancora in bianco e nero e senza telecomando; i videogames erano disponibili solo nelle sale giochi delle fiere di paese; il computer non esisteva nemmeno negli uffici e si scriveva a mano o a macchina; dovevano ancora arrivare i videoregistratori, figurarsi i dvd recorder; i cellulari non si sapeva cosa fossero e molti non avevano il telefono: noi l’avevamo giusto perché mio padre faceva il meccanico; i cartoni animati venivano trasmessi solo qualche ora al giorno e solo su alcuni canali (e i canali si contavano sulle dita delle mani); la Disney era pressoché l’unico studio di animazione conosciuto dal pubblico occidentale e, se andava bene, produceva un film all’anno – quante cose sono cambiate! Però c’erano i libri, i giornali, le riviste, un sacco di pubblicazioni. Dunque, ho imparato a leggere molto presto, leggevo tantissimo e di tutto, anche il quotidiano locale che comprava mio nonno, e ai miei faceva comodo, perché avere una bambina – malaticcia e di solito parecchio inquieta – che si metteva buona calma anche cinque ore in una stanza piena di libri e giornali a leggere e disegnare era una bella comodità. Quelli erano gli anni del Corriere dei Piccoli e del Giornalino, per citare i più famosi settimanali per bambini (c’era anche Topolino, ma non mi è mai piaciuto: mi sembrava un Superman in versione topesca, e non ho mai amato i supereroi. Piuttosto preferivo, ogni tanto, Paperino, che come personaggio apprezzavo molto di più). Dalla biblioteca comunale ho attinto parecchio, con tutti i volumi a quel tempo disponibili dei Peanuts, di Mafalda e dei Puffi. Poi sono usciti Candy Candy e tutti i giornaletti minori, le fanzine, che riprendevano le storie degli anime giapponesi (quanto mi piacerebbe ricordare il nome di qualche disegnatore che ci lavorava, e sapere se sta ancora lavorando in questo campo!), e la mia paghetta settimanale finiva lì, oltre che in qualche musicassetta. C’era anche la Bonelli, con molte meno pubblicazioni rispetto ad oggi e, anche se non ho mai amato troppo Tex (non sono un’appassionata del genere western), mi piaceva Ken Parker, non tanto per le storie, quanto per i disegni di quel grande di Ivo Milazzo. Poi, dalla fine degli anni ’80 fino al decennio scorso, sono stata una vera appassionata di Dylan Dog, e ho molto apprezzato anche la criminologa Julia. Quanto tempo speso a studiare l’inimitabile, inarrivabile inchiostrazione di Corrado Roi…
Ed eccoci ai cartoni animati. Andare al cinema, allora, era un evento, e la Disney era l’unica, poco produttiva (eh certo: si faceva tutto a mano, non esisteva la CG!) casa d’animazione conosciuta in occidente. Oltre ad essa, ricordo che il cinema parrocchiale riproponeva i film tratti dalle strisce dei Peanuts e i lungometraggi del grande Bruno Bozzetto che poi, più tardi, iniziarono ad essere trasmessi in televisione nel periodo natalizio – gli stessi ogni anno, ma per me era sempre una festa! Nei tardi anni settanta, come ben si sa, iniziarono ad essere trasmessi, oltre alle serie americane e ai corti italiani come il geniale La Linea, anche gli anime giapponesi, e rimasi folgorata da quello stile di disegno tanto diverso da quello occidentale. I miei preferiti, all’inizio, erano il Grande Mazinga e Cybernella, ma anche qui sono presto diventata onnivora: se mi piacevano i disegni, ero capace di guardare anche un cartone animato di cui non apprezzavo la trama. Non posso fare l’elenco di tutti gli anime che mi hanno influenzata, ma voglio citare tutti quelli in cui ha lavorato Miyazaki, (lo stile era riconoscibile anche da una bambina piccolissima), in particolare Conan, il ragazzo del futuro; le prime serie di Lupin III, quelli fantascientifici di Leiji Matsumoto, le maghette dello studio Pierrot, Lady Oscar, Holly e Benji, le due Mimì e Mila e Shiro, D’Artagnan e i Moschettieri del Re, Lamù e Maison Ikkoku, molti di quelli della serie World Masterpiece Theater, di cui peraltro avevo già letto i romanzi … potrei andare avanti all’infinito! Da ragazzina, ricordo che attendevo con trepidazione l’ora della puntata delle serie che mi interessavano, mi mettevo davanti alla televisione armata di fogli e matita e, poiché non avevo il videoregistratore (pochi miei amici l’avevano, in casa mia è entrato solo quando avevo quindici anni), durante la visione dell’anime non facevo altro che prendere appunti visivi.
Ecco: avrei voluto diventare disegnatrice di cartoni animati, per dare ai ragazzi le stesse emozioni che provavo io; nel frattempo, frequentavo la scuola “Arti e Mestieri” del paese (in cui però si faceva quasi di tutto tranne che semplicemente disegnare), e copiavo, copiavo, copiavo dai fumetti e dai cartoni animati che mi piacevano. Alle scuole medie avevo già capito che, anziché lavorare in èquipe in uno studio di animazione, potevo fare tutto da sola, dalla storia ai disegni, con un semplice foglio di carta e una matita, ma non sapevo bene come fare e le mie prime tavole consistevano in fogli A4 piegati in due, e poi spillati insieme fino a comporre una sorta di volumetto.
Tuttavia, pur disegnando in continuazione, non mi è stato possibile frequentare il Liceo Artistico. Alle superiori, il mio sogno era l’Accademia delle Belle Arti ma, dopo la maturità, ho preferito trovare lavoro e andarmene di casa. Però, continuavo a disegnare, ne sentivo proprio il bisogno – e quante volte mi sono domandata perché diavolo lo facessi, visto che non mi fruttava né economicamente né in alcun altro modo, dato che non mi sentivo abbastanza brava per mostrare i miei lavori. Così, siccome comunque non riuscivo a smettere (sembra il discorso di un drogato e, in effetti, il disegno era la mia droga, insieme allo sport: ma lo sport, se non altro, mi faceva guadagnare un bel fisico, mentre il disegno era una sorta di – si può dire? – masturbazione, fine a se stessa e al piacere momentaneo che ne derivava), per perfezionarmi decisi di iscrivermi alla scuola di fumetto Humpty Dumpty di Bologna, poi a quella d’illustrazione di Sarmede. Successivamente ho frequentato altri corsi, anche sulla figura umana dal vero, e continuato a studiare e praticare da autodidatta… ed eccomi qua.
Quando hai “deciso” che saresti diventata ANCHE un’autrice? Ho messo la parola “deciso” tra virgolette perché su questo ho un dubbio: secondo te autori si nasce o si diventa?
Dipende. C’è chi ci nasce, ma io sicuramente no, la mia è stata un’evoluzione. All’inizio scrivevo storie e le illustravo, o provavo a metterle giù a fumetti, imitando quelli che leggevo; tuttavia, le mie storie erano quasi sempre quelle che oggi vengono definite fanfiction, variazioni sul tema del cartone animato, del film o del romanzo che mi piaceva in quel momento. Allo stesso tempo ho sempre tenuto un diario segreto, in prosa, che arricchivo con varie illustrazioni. Anche dopo avere frequentato la scuola di fumetto ho sempre adattato e disegnato storie tratte da racconti brevi o romanzi che mi erano piaciuti, interpretandoli ma non discostandomene troppo. Tra l’altro ho avuto un periodo di stacco dal disegno quando, nel 2007, è morta mia nonna: ero andata parecchio in crisi, e avevo lasciato il fumetto per dedicarmi solo a qualche ritratto e qualche schizzo estemporaneo. Poi, nel 2008, è nato Tommaso e, fino al 2012, il tempo per disegnare è stato scarso. Paradossalmente, ho ricominciato proprio per lui, riproducendogli i personaggi dei cartoni animati per farglieli colorare – si trovano anche disegni pronti su internet, nonché albi in edicola, ma il mio era un pretesto: finalmente avevo un nuovo scopo per tenere in mano carta e matita. E quasi due anni fa, grazie all’arrivo del Whippet Rodomonte, è scattato qualcosa che mi ha portata al diario a fumetti che pubblico sul blog, quando riesco – avrei tante cose da dire, e mi piacerebbe davvero avere il turbo inserito nella mano… o giornate di quarantott’ore!
Quali sono tuoi autori preferiti? La Daria lettrice e la Daria autrice apprezzano gli stessi autori?
Direi proprio di sì! Sono onnivora, sia per la letteratura, sia per i fumetti. Leggo tutto quello che mi capita, o quasi: c’è sempre da imparare, specialmente per un’autodidatta come me. Fra i fumettisti, per quanto riguarda gli italiani il mio top è Davide Reviati, ma ammiro molto gli “storici”, quelli legati alla mia infanzia (alcuni per i disegni, altri per i temi trattati, altri per entrambe le cose), come Grazia Nidasio, Dino Battaglia, De Luca, Pratt, Crepax, Manara, Gipi, la Ziche, Silver, Vanna Vinci (che è stata mia insegnante alla scuola di Bologna). Altri autori da valorizzare sono un altro mio insegnante, Flavio Montelli, che sta lavorando a una biografia che, da quel che ho visto, si rivelerà una cannonata, e Nan Cercignano, che sta emergendo proprio in questo periodo, anche lei dopo anni di abbandono – la trovo grande anche per questo: rimettersi in gioco non è mai uno scherzo. Purtroppo non conosco benissimo certi giganti, come Magnus, Toppi e Mattotti, ma sto cercando di rimediare. Fra gli stranieri sono rimasta indietro, lo ammetto… Schulz, Quino, Eisner, Franquin, McKay, Goscinny & Uderzo, la Takahashi, la Ikeda, Matsumoto, Taniguchi, un po’ di Hiromu Arakawa, Yuzo Takada, Kei Tome, Tsukasa Hojo, Kenichi Sonoda, Akira Toriyama e Katsuhiro Otomo. Ultimamente, ho letto Anya e il suo fantasma della giovane Vera Brosgol, e mi è piaciuto tantissimo, come Through the woods di Emily Carroll e alcuni lavori del francese Bastien Vivès.
Fra gli scrittori moderni la mia preferita è l’irraggiungibile Oriana Fallaci (non condivido tutto quello che scrive, ma scrive da dio, e questo mi basta per leggerla e rileggerla e cercare di imparare quello che posso), al pari con Umberto Eco, che ho scoperto da pochi anni ma è subito diventato uno dei miei miti. Per le fiction Margaret Mazzantini, Niccolò Ammaniti, e lo Stephen King degli inizi: tutti artisti che, in qualche modo, mi hanno influenzata. E poi… ho un debole per Roald Dahl e per Cressida Cowell, purtroppo pubblicata in Italia con scarso successo e scarsa lungimiranza quando il mercato era inflazionato da Harry Potter (che proprio non sono riuscita a farmi piacere). Ho quindi letto i suoi romanzi illustrati in lingua originale, e mi sono piaciuti un sacco! A volte il traduttore può fare la differenza, insieme alle scelte di mercato, e credo che questo sia un caso lampante.
Per l’animazione: Studio Ghibli forever. Già negli anni ’70 erano capaci di produrre cose che noi occidentali nemmeno sognavamo! Amo inoltre i classici della Disney e i primi della Pixar; qualcosa di buono c’è anche nelle nuove produzioni, ma a mio avviso hanno iniziato un po’ troppo a privilegiare la quantità a scapito della qualità. La DreamWorks ha fatto passi da gigante, ma il film che considero il loro vero capolavoro (insieme al primo Dragon Trainer, che comunque aveva diverse “pecche”, inserite per compiacere il pubblico e il mercato, e la trilogia Kung Fu Panda, anche questa con qualche ingenuità, ma capace di parlare di alti concetti filosofici con estrema ironia, spiegandoli persino ai bambini), seppure ormai datato, ma capace di fondere alla perfezione animazione tradizionale e computer grafica, una buona trama e personaggi interessanti e diversi fra loro, ognuno analizzato alla perfezione (si muovevano addirittura tutti in modo diverso!), è Il Principe d’Egitto, che non so quante volte ho riguardato e studiato, in italiano e in lingua originale.
Infine, oggi esistono moltissime case indipendenti, non c’è che l’imbarazzo della scelta, ma ho amato i film di D’Alò, con i loro disegni semplici e diretti e, fra i tanti piccoli capolavori degli studi d’animazione minori degli ultimi anni, voglio citare Ernest & Célestine, tratto dal già magnifico romanzo di Pennac.
Quanto tempo riesci a dedicare al fumetto? E qual è il tuo metodo di lavoro?
Di solito, cerco di disegnare un po’ ogni giorno (e per disegnare, intendo anche scrivere: le due cose sono legate e, quando annuncio che vado a disegnare, intendo proprio tutto il processo, dalla scrittura all’inchiostrazione… alla scannerizzazione e pulizia delle tavole), ed è raro che stacchi completamente. Anche in viaggio, in vacanza, ho sempre con me l’occorrente per disegnare e spesso un manuale da studiare, e sono alla scrivania anche, per esempio, il giorno di Natale – anzi, forse ci sto di più, perché sono in ferie e c’è pure mio marito che mi dà una mano con le cose più prosaiche come i lavori di casa! Da quando è nato Tommaso, otto anni e mezzo fa, il tempo che riesco a dedicare ai miei scarabocchi è più limitato: prima di allora, ogni minuto era valido per mettermi a disegnare, a volte anche fino a tarda notte. Ora sono costretta a “concentrare” il tempo, e le idee mi vengono quando porto fuori Roddy, oppure quando guido, o sono sotto la doccia, o mi depilo: insomma, quando posso permettermi di far vagare la testa per i fatti propri. Di solito, tengo un moleskine nella borsa, dove butto giù gli appunti (scritti e visivi) che posso poi utilizzare per i fumetti e che, siccome non ho una gran memoria, potrei dimenticare. Quando mi siedo alla scrivania con un’idea per una strip, inizio con un foglio bianco A4, lo divido in 6 vignette con una riga verticale e due orizzontali (impostazione che poi raramente mantengo), poi butto giù quello che mi viene in mente, più che altro scrivendo le battute (che non sono MAI quelle definitive: con me, il buona la prima non funziona) e integrando il testo con bamboccini stilizzati o faccine per le posizioni o le espressioni particolari. Comunque, sono penosamente lenta: spesso scrivo e riscrivo e limo le battute finché non “filano” come voglio io mentre, per quanto riguarda i disegni, a volte ho la vignetta in testa, mentre altre volte… beh, sono strana, ma fisso il foglio e cerco di visualizzarla nello spazio bianco a disposizione. La maggior parte delle volte, questo processo è immediato o quasi ma, quando non funziona, per non snervarmi cerco di aiutarlo, provando comunque a scarabocchiare e vedendo cosa viene fuori.
Inoltre uno dei miei maggiori limiti nella scrittura, e ancor più nel disegno, è che per scrivere o disegnare qualcosa devo sapere com’è fatto, per cui spesso uso foto di riferimento, soprattutto per luoghi e oggetti, e le modifico e interpreto a seconda di quello che mi serve tanto che, a volte, sembra che nemmeno mi sia documentata: ma ripeto, uso solo ciò che credo mi serva, mentre accantono il resto da qualche parte della mia strana mente. Internet, in questo senso, è stata una manna dal cielo: quando ho iniziato a disegnare fumetti come modello avevo solo la realtà, le foto, i fumetti (e i cartoni animati) altrui, le opere dei grandi maestri del passato, le foto su giornali, riviste e cataloghi (mia mamma comprava le riviste di fotoromanzi e, per quanto li odiassi, li ho usati moltissimo per trarre spunto per le mie prime vignette!) e, spesso, me stessa davanti allo specchio! Non ho una grandissima memoria visiva, e la mia non è una fantasia “visionaria”: per scrivere e disegnare devo basarmi su qualcosa di reale. Non potrei mai inventare qualcosa come le astronavi di Matsumoto, lo spazio di Moebius, i Robottoni di Go Nagai, o anche anticipare qualcosa come la fantascienza, che poi in parte è diventata realtà, di Verne… ammiro chi riesce, come questi grandissimi, ad inventare dal nulla qualcosa di innovativo!
Last but not least, vuoi qualche nota tecnica? Faccio tutto a mano, su fogli A4 ruvidi – lo so che molti sconsigliano la carta ruvida per la china, ma io, quella liscia, proprio non sono mai riuscita a usarla. Uso una matita Perpetua, che è leggera e non sporca, per gli schizzi di base, poi passo a una più morbida, 2 o 3B, per i dettagli e le rifiniture. China Winsor & Newton e pennino morbido per l’inchiostrazione, con i neri a pennello; pennarelli Pigma Micron per il lettering e i bordi delle vignette e qualche piccolo ritocco. Infine, a seconda dell’ispirazione del momento, scelgo se aggiungere acquerello o carboncino e magari fare qualche particolare colorato. Per ora preferisco stare sul bianco e nero, in futuro si vedrà. Quando inizio una strip, comunque, è raro che sappia se vorrò lasciarla solo a china o integrarla con acquerello o carboncino: questo lo decido solo alla fine, prima di iniziare a inchiostrare. L’unico strumento “tecnologico” di cui mi servo è una tavola luminosa per ricalcare gli schizzi di prova sul foglio buono, non possiedo Photoshop e mi limito a ritoccare le tavole con Paint e, finché non sarò obbligata, continuerò così. Adoro il rumore della matita e del pennino sulla carta anche se, a volte, ci caccio l’errore e mi tocca rifare!
Le tue storie sono al 95% autobiografiche, raccontate – a quanto sembra – con molta ironia ma soprattutto grande sincerità. Parlare di sé per te è una scelta o una necessità?
Una necessità, indubbiamente: quasi uno sfogo, un modo di sdrammatizzare e minimizzare quelli che, a volte, a me sembrano drammi ma che, al confronto dei drammi veri, sono solo piccole magagne quotidiane. Il mio diario a fumetti parla di cose che mi succedono realmente, non indoro la pillola, ma è ovvio che certe situazioni sono un minimo filtrate e adattate. Poi, come hai detto tu nel tuo articolo pubblicato sul sito Le 110 pillole, nel mio lavoro ci sono ancora alcuni punti “oscuri”: lo so, e il motivo è che non mi sono ancora sentita di svelarli, oppure non sono ancora riuscita a trovare il modo giusto per metterli giù con ironia. In ogni caso, se e quando lo farò, sarà in tutta sincerità, senza cercare di addolcirli o mitigarli – o altrimenti, potrei scegliere di farne una storia semi-autobiografica come le altre che ho pubblicato sul blog, dove, a parte per chi mi conosce, non sia chiaro dove finisca la realtà e cominci l’invenzione.
Dopo averne scritte tante, sei riuscita a individuare gli ingredienti giusti per una “buona”storia autobiografica?
Magari altri autori hanno bisogno di altri ingredienti, ma io ho quelli di cui parlavo prima: la sincerità (se non voglio raccontare qualcosa, non lo racconto e basta, ma se scelgo di raccontarla, vado fino in fondo) e l’esperienza (devo avere vissuto ciò che scrivo, altrimenti non riesco a “sentirlo”, tantomeno a comunicarlo). Per esempio: mi piacerebbe dare un’immagine un filo (giusto un filo) più tranquilla della mia famiglia, ma la mia famiglia tranquilla non è e, se la descrivessi come tale, so che suonerebbe falso: tanto varrebbe scrivere una storia di fiction su una famiglia tranquilla. Del resto, credo (e spero) che qualche donna si possa riconoscere nelle mie disavventure, più che in una famiglia da Mulino Bianco, perché qual è la famiglia perfetta? Se qualcuno la conosce, me lo dica, per favore, che vado ad inchinarmi e offro un aperitivo a tutti i membri (i cocktail li preparo io, non mio marito!).
Torniamo al concetto di “sincerità”: bisogna essere sempre sinceri o è meglio romanzare un po’? E in che misura?
Se stiamo parlando di un diario a fumetti, la sincerità, come ho detto, per me è essenziale ma, quando serve per far filare la gag, romanzo anch’io un po’: a volte esagero certe reazioni (come quelle di mio marito ai miei tatuaggi), e sono io a mettere le parole in bocca al mio levriero, Roddy, che rappresenta la mia controparte saggia, lo spirito con cui a volte vorrei prendere le cose anche se non ci riesco. In generale, comunque, per ogni tipo di storia trovo che debba essere l’autore a decidere i limiti fra sincerità e romanzo, in base a quello che vuole comunicare. Per esempio, nelle due storie brevi sul mio blog, la prima è solo ispirata alla realtà, mentre la seconda ne è direttamente tratta: il protagonista è la controparte maschile di me stessa quattordicenne, i pensieri sono i miei dal primo all’ultimo, e la situazione, nel suo insieme, riconoscibilissima – se mia mamma dovesse leggerla, temo che rimarrebbe un po’ spiazzata da quello che ho deciso di raccontare, sebbene abbia cercato di farlo col massimo tatto. Anche questo è un aspetto con cui fatico ad armonizzare: io non ho il timore di svelare i fatti miei (almeno, come ho già detto, quelli che scelgo di svelare), ma ho sempre il timore di offendere qualche comprimario. Del resto, è un diario a fumetti e, a parte Rodomonte, dovrò pur interagire con qualcuno… altrimenti cosa scrivo, di quanto mi crescono le unghie in una settimana?
Domanda da Marzullo: è la vita che imita l’arte o l’arte che imita la vita?
In un diario a fumetti, è l’arte che imita la vita, o almeno ci prova, anzi prova a migliorarla e trovarne il lato ironico e positivo. Nella realtà invece, credo che se fosse la vita ad imitare l’arte, qualsiasi tipo di arte, al mondo ci sarebbero molte meno brutture. Poi io non parlo di politica, non potrei mai riuscire a farlo: parlo solo della mia piccola vita, delle mie piccole disavventure quotidiane, anche se credo si capisca come la penso su certe questioni!
Cosa cerchi di comunicare al tuo pubblico?
Ho iniziato questo diario un po’ per gioco, per ironizzare su alcuni aspetti della mia vita e sulle cose che mi capitano, tanto che all’inizio avevo pensato di intitolarlo Ridiamoci su o qualcosa del genere. Quello che spero, come ho detto sopra, è che qualche donna, possa riconoscersi in alcune situazioni, ed esclamare: “Allora non è solo a me che non piace cucinare ma mi sento in colpa se non lo faccio!”, oppure: “Allora non sono solo io a non avere ancora accettato quella maledizione chiamata Ciclo Mestruale!”
Okay, mi accorgo di essere una donna, moglie e madre un tantino sui generis, come tu hai scritto nella tua recensione. Tuttavia, nella realtà credo che tutti, a nostro modo e chi più chi meno, siamo sui generis: persone ben definite, uniche e irripetibili, ognuna diversa dall’altra. Altrimenti saremmo personaggi di fumetti o fiction, più o meno stereotipati… o no?
Madre, moglie, donna: cosa pensa la tua famiglia (e i tuoi amici) del fumetto e delle tue storie? (Ed è vero che le passioni si trasmettono?)
All’inizio mio marito non voleva assolutamente saperne di comparire; anzi, si è offeso a morte per alcune vignette, in cui, a suo parere, ci faceva brutta figura. Poi l’ho convinto che, innanzitutto, quella che esce peggio dai miei fumetti sono io stessa, non certo i pochi comprimari (pochi, appunto, per il mio eccessivo timore di offendere qualcuno). Secondo: brutta figura di fronte a CHI? Il mio numero di lettori è esiguo, se non nullo. E allora, nei limiti, sono riuscita a coinvolgerlo, facendolo comparire ogni tanto – del resto, ci conosciamo da talmente tanto tempo che la fatica più grossa sarebbe stata non citarlo. Mio figlio Tommaso invece è esibizionista, e non vede l’ora di comparire nelle vignette: è stato lui a chiedermi di mettere a fumetti il suo sogno su Dolcelandia e il panettone parlante! Le passioni si trasmettono… sì e no. A Tommaso ho trasmesso la passione per la musica e lo sport, ma non gli piace leggere, nemmeno fumetti, e non è portato per il disegno (ma ha solo otto anni e mezzo, nel futuro non si sa mai. Tuttavia, se non è portato, amen: ognuno ha le proprie passioni e i propri talenti, e non pretendo certo che lui abbia i miei); però ha delle idee e un’inventiva fantastiche per storie e personaggi, nonché una memoria visiva eccezionale – quelle doti che, come ho detto, a me mancano. Trovo che se l’idea è buona, si possa disegnare anche tramite scheletrini, non sono necessari dei bei disegni – anzi, in certi casi sono controproducenti e distolgono dalla storia. In fondo, il fumetto è un linguaggio, e il disegno deve essere al servizio del contenuto (o del tutto contrastante, come nella geniale serie di Pendleton Ward Adventure Time).
Pubblicare su Facebook e sul blog: come nasce e come è stata la tua esperienza?
Il mio rapporto con la tecnologia è travagliato: non possiedo uno smartphone ma solo un vecchio cellulare, con cui chiamo e sono rintracciabile e ricevo e invio sms, e mi sono iscritta a Facebook per motivi di lavoro, anni fa, pensando di non usarlo in privato. Poi, quando ho ricominciato a disegnare seriamente la scorsa estate, spinta anche da una cara amica (che non finirò mai di ringraziare: se legge quest’intervista, sa che sto parlando di lei), mi sono detta: Eh no, stavolta voglio provare a condividere quello che faccio. E visto che molti autori, famosi e non, hanno dei blog, ho voluto provare anch’io. Poi un’altra amica mi ha suggerito di crearmi una pagina Facebook per pubblicizzare il suddetto blog, e ho fatto anche questo. Inutile dire che, all’inizio, il tempo speso al pc ad imparare come gestire il blog e la pagina superava quello di gran lunga quello speso a disegnare – e anche ora, a volte, trovo seccante perdere tempo a scansionare e ritoccare le tavole, nonché lavorare sul blog (però, a poco a poco, ho preso gusto nello scrivere gli articoli che accompagnano le strips): so che non è “tempo perso”, ma è comunque tempo che non dedico al disegno – e il tempo, come ti ho detto, a casa mia è sempre scarso.
Cosa pensi del panorama fumettistico italiano? E dei nuovi autori? Leggi webcomic?
Bella domanda anche questa! Io non sono più giovanissima, sono rimasta molto legata agli “storici”, che ho nominato prima. Di nuovi… possiamo considerare “nuovi” Davide Reviati, Gipi e Silvia Ziche? Ora va molto Zerocalcare: non ho letto tutte le sue opere, ma ho apprezzato Un polpo alla gola e Dimentica il mio nome (qui ho sentito molto “mia” la parte in cui si trova al capezzale di sua nonna morente; credo che non avrei saputo renderla meglio): non è che di un autore ti debba sempre piacere tutto. Per quanto riguarda le webcomics, ogni tanto capito su qualcosa, e anche qui si trova di tutto: ad esempio trovo geniali DOVE SONO e LaBadessa, e mi piace molto il francese Boulet. A proposito, non posso non citare Eriadan… dacché l’ho conosciuto, la prima cosa che facevo in ufficio appena acceso il computer era controllare se aveva pubblicato una vignetta! Poi non ho mai commentato, io faccio fatica a commentare, non ho commentato nemmeno il suo messaggio di commiato… ma, come a molti altri, mi è dispiaciuto un sacco per quello che gli è successo – posso solo immaginarlo, e se davvero si è trattato di quello che immagino, posso capirlo, visto che avevo temporaneamente abbandonato il disegno per qualcosa di simile. Comunque, è stato davvero un innovatore: dal diario a fumetti online (è stato il primo a fare qualcosa del genere, vero?), al modo di disegnare e di scrivere, ai sentimenti e agli stati d’animo umanizzati, agli animali parlanti. D’accordo, questi temi sono stati sviluppati anche da altri prima e dopo di lui, ma in maniera meno completa, meno incisiva, e mai tutti insieme (anch’io sto facendo qualcosa di simile, anche se diverso per via del mio modo di vedere la vita); tuttavia… insomma, che la Disney l’ammetta: anche gli sceneggiatori di Inside Out devono avere letto i lavori del nostro Paolo Aldighieri!
Non compari nella scena online dei fumettisti, te ne stai nel tuo angolino. Guardi mai fuori dalla finestra? E com’è la vista da laggiù?
Sto nel mio angolino, eh sì… ammetto che sia molto comodo ma, per come sono io (e un po’ lo si capisce dal mio diario), è già tanto che abbia deciso di tenere un blog – con dieci lettori a dir tanto, ma va bene così, credo che la fama non mi si addica troppo: sai altrimenti che ansia da prestazione! Tuttavia, eccome se ci guardo, dalla finestra! A volte mi piacerebbe parlare di quello che vedo attraverso il vetro, oltre la mia piccola, misera vita, ma preferisco parlare del quotidiano, e lasciare gli autori seri ad affrontare i temi universali della politica, del chi siamo e da dove veniamo e dove andiamo. La vista… non lo so. Per ora non è bellissima, considerando che ho un bambino di otto anni e mezzo, e il futuro sarà suo, ma voglio credere che, quando lui avrà la mia età, le cose saranno migliorate, e il mondo sarà un posto migliore dove vivere in pace e realizzare i propri sogni (John Lennon docet… ma perdonami, sono reduce dal documentario di Ron Howard sui Beatles e ogni tanto il mio lato sognatore riemerge di prepotenza!).
Come ti vedi o speri di vederti tra dieci anni, artisticamente parlando? Hai progetti nel cassetto?
Fra dieci anni… chi lo sa? Sicuramente disegnerò e scriverò, l’ho sempre fatto, a parte in quel periodaccio di cui ti ho parlato (in cui tuttavia non avevo abbandonato proprio del tutto, a parte il primo anno), e raccontare tramite il disegno è la cosa che mi appassiona di più; ormai però ho imparato che le cose possono cambiare. Ora sono un po’ in confusione: mi stavo documentando per una biografia su un musicista che ammiro molto, con cui mi sono sempre sentita in sintonia “spiritualmente”, e stavo lavorando anche a qualcosa di più lungo per il mio diario a fumetti, qualcosa che svelasse alcuni dei famigerati “punti oscuri”. Tuttavia, le due cose, nella mia testa, si sono incontrate e scontrate, e ne è nato un piccolo Big Bang. Quindi mi piacerebbe che il tutto potesse fondersi in una piccola graphic novel, disegnata con due stili diversi, in cui la biografia del musicista in questione fosse solo il pretesto per parlare di qualcos’altro di vagamente autobiografico… ma visto il tempo che ho a disposizione (che in questi mesi è ancora meno, perché ho un lavoro abbastanza fisso invece di un’occupazione saltuaria), nonché la mia lentezza, non so quanto mi ci vorrà! Avessi ancora trent’anni e non avessi figli avrei più tempo ma, paradossalmente, è proprio quello che sono ora, con la responsabilità di un figlio e la mezz’età e le esperienze passate, che mi ha fatto venire in mente questo progetto, per cui… pian piano, credo proprio che, in qualche modo, malgrado tutto, proverò a lavorarci, anche se inevitabilmente dovrò accantonare il diario a fumetti da pubblicare quando mi pare e di tono più ironico. Magari potrei provare a pubblicare questa storia più lunga sul blog, a puntate… chi lo sa? Sogni nel cassetto… un tempo ne avevo tanti, tantissimi, troppi… la mezz’età e le esperienze mi hanno un po’ disillusa, ma provare ad entrare all’Accademia delle Belle Arti, quando Tommaso sarà un po’ più indipendente, mi sembra un sogno ragionevole, no?
A cosa serve – se serve – un autore di fumetti? E tu, a cosa servi?
A cosa serve un autore di fumetti? A tante cose! Molti, a farti passare qualche momento divertente; molti altri, a farti riflettere; molti altri, ad essere ammirati e studiati. Alcuni, a due o tutte e tre le cose insieme. Io… beh, io prima di tutto servo a me stessa: ho sempre disegnato perché ne sentivo il bisogno, anche quando ero osteggiata e lo facevo di nascosto e mi vergognavo persino a mostrare i miei scarabocchi – la mia autostima sarà anche visibile solo da un microscopio su scala atomica, ma il mio egocentrismo è parecchio ipertrofico, lo ammetto. Non a caso, ho scelto di postare su un blog (poco frequentato ma comunque pubblico) un diario a fumetti il quale, per quanto “filtrato”, parla di situazioni reali e di sentimenti reali, provati in prima persona. Poi, se qualcuno si riconosce in quello che racconto e le battute finali del mio Roddy riescono a strappare un sorriso, la cosa mi fa molto, moltissimo piacere.
Di questi tempi molte persone, autori affermati ma anche e soprattutto persone comuni, riempiono libri, fumetti e blog con le tragicomiche avventure delle loro famiglie, e soprattutto dei loro bambini. Queste storie sono spesso tenere e divertenti, ma a volte evocano nella mia mente l’immagine inquietante di una madre che ogni giorno tallona il figlio con l’unica impaziente speranza che esso faccia qualcosa di DIVERTENTE; e non appena quello la fa… corre a scriverlo nel suo blog. L’immagine, a sua volta, mi fa venire in mente il numero 19 del Sandman di Gaiman, nel quale appare Hamnet, figlio (inventato) di William Shakespeare. Quando ad Hamnet viene chiesto se è orgoglioso di suo padre, grande scrittore, il ragazzino risponde che sì, in effetti crede di esserlo, ma il fatto è che per il suo genitore l’unica cosa che conta sono le storie, è sempre distratto, per lui i suoi personaggi sono più reali del suo stesso figlio, e ogni volta che succede qualcosa l’unico suo interesse è trasformarlo in una storia. “Mia sorella una volta mi ha detto scherzando che se un giorno io morissi nostro padre semplicemente ci scriverebbe sopra una commedia,” sospira Hamnet. Visto che anche tu scrivi spesso storie del genere, qual è il tuo punto di vista sulla questione?
Qui tocchi un tasto dolente: non tanto perché io talloni mio figlio con la ”impaziente speranza” che faccia qualcosa di divertente da raccontare sul blog (come vedi, racconto un po’ di tutto, da brava egocentrica il mio diario è centrato su di me, e anche Roddy, in fondo, è una mia “estensione”. Inoltre, non sono ossessionata dal trovare un soggetto per le mie storie; al contrario, forse a causa del poco tempo e della mia lentezza, ho sempre qualcosa da dire, e non riesco a produrre tutte le strip che vorrei!), ma piuttosto perché, proprio a causa della mancanza di tempo, mi accade di trascurare Tommaso a favore del disegno. Per fortuna, Daniele come babbo è molto presente, non ha mai avuto particolari passioni a parte le uscite con gli amici e qualche seduta dall’estetista o dal fisioterapista (io che di passioni ne ho troppe e mi sento frustrata perché non riesco a seguirle tutte, spesso la trovo una fortuna), e ci pensa lui a intrattenerlo quando sono impegnata alla scrivania. Inoltre, sia a Tommy sia a me piacciono il cinema e il teatro, luoghi che frequentiamo parecchio; almeno una volta alla settimana guardiamo un film insieme, preso a noleggio o alla televisione se trasmettono qualcosa di decente (da bravi outsider, per scelta non abbiamo ancora Sky, almeno finché Tommaso non sarà l’unico sfigato della sua classe e verrà a casa piangendo… o minacciandomi con un coltello!); cerco di seguirlo con la scuola e il Kung Fu e l’inglese alla British, e so che presto arriverà il tempo in cui sarà lui stesso a dire “Mamma sloggia, vai pure su a disegnare che il salotto è requisito da me e dai miei amici”, tuttavia…
Lo so, la sto prendendo alla lunga, perché questo discorso mi tocca profondamente. E allora, allunghiamo. C’è un un brano di Phil Collins che recita: “All of my life, there have been regrets / That I didn’t do all I could / Playing records upstairs, while he watched TV / I didn’t spend the time I should…”. Ho sempre immaginato che Collins si riferisse a suo padre, morto improvvisamente, e anch’io, per molto tempo dopo la morte del mio, ho rimpianto il tempo che avrei potuto trascorrere con lui quando era in casa (perché passava un sacco di tempo in officina: le automobili erano la sua maggiore passione, “curarle” il suo lavoro e, a quei tempi, non si sostituiva un pezzo intero: si lavorava al dettaglio, su un bullone, su una vite, e lui nel suo mestiere era un vero artista), invece di starmene in camera a disegnare (di nascosto). Ora, Tommaso è felice che io disegni, legge le mie vignette (lui che detesta leggere!), si presta a farmi da modello per le posizioni “strane”, non vede l’ora di comparire in qualche striscia, addirittura quando gli chiedono qual è il mio lavoro dice che faccio la disegnatrice, non l’insegnante di fitness, la dog sitter o l’impiegata (i lavori con cui mi sono guadagnata e/o mi guadagno da vivere), ma il mio timore è che un giorno possa dire, per parafrasare Collins: “Watching tv downstairs while she was lost in her drawings” (“Guardando la televisione al piano di sotto mentre lei era persa nei suoi disegni”) e mi accusi del tempo, in qualche modo, perso nei miei sogni di carta, anziché trascorso con lui. E anche se nel frattempo io riuscissi a diventare un Hugo Pratt (eheh, buona questa, eh?), credo che ne andrei tutt’altro che fiera. Anche perché non è lui che mi ha chiesto di nascere, ho scelto io di metterlo al mondo, ed è con me che litiga molto di più che con Daniele: la parte del genitore “severo” è tutta mia. Del resto, sono severa con me stessa, e mi riesce difficile non esserlo con gli altri, soprattutto con le persone che mi stanno a cuore – se qualcuno non mi sta a cuore, non m’interessa neppure correggerlo o cercare di insegnargli qualcosa. Cavolo, in quest’intervista sto dando un’immagine di me ancora peggiore di quella che do nel mio diario disegnato… ma almeno, non mi si può accusare di falsità!
Mille grazie a Daria per la sua disponibilità.
Intervista effettuata via mail nel mese di Ottobre 2016